Donne torinesi, affascinanti ed enigmatiche
(come le montagne che incastonano la città)
di Carlo Crovella
Anche chi non è disposto a riconoscerlo come un capolavoro assoluto della letteratura, concorda sul fatto che “La donna della domenica”, il celebre libro di Fruttero & Lucentini, sia un capolavoro di torinesità, o meglio di descrizione della torinesità. E il film, che ne è stato tratto, replica adeguatamente il carattere del libro, non denunciando affatto le 50 primavere che compie proprio quest’anno (mentre il libro è del 1972): l’affresco di torinesità è ancora attuale perché è senza tempo, cioè vale sempre.
Torinesità non significa residenza a Torino, ma un insieme di caratteristiche molto particolari. Torinesità è qualche cosa di diverso anche dalla locuzione convenzionale che ormai si affida al termine “sabaudità”, intesa quest’ultima come predilezione, di origine militaresca, per l’ordine e le regole. Nella torinesità c’è anche questo particolare aspetto, ma c’è molto altro e non sempre questo “altro” ha connotati indiscutibilmente positivi.
Il mondo imperniato sulla torinesità ha i suoi codici, le sue usanze, i suoi “non detto”: bisogna conoscerli e soprattutto riconoscerli, in modo da sapersi muovere adeguatamente, altrimenti si finisce per combinare sfracelli come un elefante in una cristalleria.
Per certi suoi figli, Torino è un confortevole salotto ricolmo di comodi sofà di velluto, avvolgenti e protettivi. Finché ti muovi come si deve, il contesto quasi ti coccola. Ma se sbagli una battuta, se una frase ti esce stonata, se tocchi il tasto inopportuno, questo salotto si trasforma repentinamente in una gabbia che ti stritola in una morsa d’acciaio. Ecco perché i torinesi sono, in genere, molto prudenti nei comportamenti e nei dialoghi, si esprimono con frasi dalla plurima interpretazione (per poterle eventualmente aggiustare a posteriori), avanzano domande indirette (se hanno necessità di sapere) e (a parti invertite) rispondono in modo trasversale e circospetto. Le conversazioni fra torinesi sono dei minuetti giocati con il sorriso sulle labbra, ma sempre con reciproca diffidenza, pronti a sfruttare un passo falso altrui, un accenno infelice, un’improvvisa smagliatura.
Il detto “torinese falso e cortese” sintetizza questa impostazione che per gli estranei è repulsiva come una giungla irta di trabocchetti, ma che per gli appassionati sviluppa un notevole fascino, perché sapersi muovere nel mondo torinese è come giocare tutti i giorni delle appassionanti e impegnative partite a scacchi.
Anche il nostro modo di andare in montagna non fa eccezioni e risente, come qualsiasi altro risvolto della vita, di questo imprinting: un mix di falsa modestia incastonata sulla concretezza operativa e sul senso del dovere. Il senso del dovere, incredibile dictu, invade persino le nostre giornate sui monti: se sei animato dalla passione per i bricchi, ci “devi” andare spesso e, se salti un’uscita, ti pare di commettere una manchevolezza, una colpa, un qualcosa che devi subito giustificare: “Sì, è vero, ieri non sono andato in montagna, ma avevo improrogabili impegni, un sacco di rotture, ah, se sapeste…” È praticamente impossibile sentire un torinese che dice apertamente: “Questa domenica sono stato tutto il giorno in pigiama sul divano perché non avevo voglia di fare una mazza!”.
Parimenti, se vai in montagna lo devi fare sempre allo stesso modo, “torinese”, manco a dirlo: serietà, rigore, prevenzione. Non si sgarra e non si può sgarrare. Se sgarri, cioè se parti all’ora beata, se torni a notte fonda, se nello zaino non hai le cose giuste… beh, così “non va bene”, anche se hai sciato sui 50 e più gradi o se hai arrampicato sul nono. Magari nessuno ti dice niente in faccia, ma dietro ti tagliano i colletti “Mah… – commentiamo accompagnando con un sospiro prolungato e scuotendo il capo – …mah, cul lì a l’è nen tant lon”. Frase intraducibile, se non approssimativamente: “quello non è tanto a posto”. Insomma “così non va bene”. Se ti appioppano quella definizione, pulirtene è davvero dura.
E poi c’è un altro aspetto irrinunciabile. Parliamo delle nostre performance in montagna con quella falsa modestia in cui ci piace tanto crogiolarci: “Mah sì… – raccontiamo il lunedì agli amici – alla fin fine ieri ho fatto quella scialpinistica che è data OSA, ma non è poi quella gran cosa come viene sbandierata…” Mentre in realtà, dentro di te, ti compiaci anche solo a pronunciare il nome di quella vetta blasonata e temuta e ti esalti per i segnali di ammirazione degli astanti. Segnali di ammirazione che ci “devono” essere perché anche questi fanno parte del gioco: non ho mai visto un torinese sminuire in diretta l’impresa che l’altro gli sta raccontando, anche se in cuor suo la considera una sciocchezza che lui farebbe a occhi chiusi e con le mani legate dietro la schiena.
Forse forse la maggior difficoltà alpinistica dell’ambiente torinese consiste proprio nel sapersi muovere all’interno del labirinto dei rapporti sociali fra gli appassionati di montagna. Labirinto che non è altro che l’applicazione specifica del labirinto generale che regola i comportamenti complessivi dei torinesi. Ecco perché l’analisi della torinesità che viene condotta ne “La donna della domenica” (che di per sé non ha alcun collegamento con l’andare in montagna) può esser applicata anche alla Torino montanara.
Fra le tante battute del film ce n’è una che mi pare molto rappresentativa. Nel fatto di cronaca nera su cui è montata la trama, finiscono per esser coinvolti due rappresentanti dell’aristocrazia imprenditoriale torinese (però i nomi non corrispondono alla effettiva realtà): la moglie dell’industriale Dosio e il figlio di un’altra famiglia bene, Campi. Nel film la prima è interpretata da Jacqueline Bisset (che si cala alla perfezione nel ruolo di affascinante dama torinese), il secondo da un giovane Jean-Louis Trintignant.
L’indagine viene affidata a due commissari non torinesi: il romano Santamaria (Marcello Mastroianni) e il siciliano De Palma (Pino Caruso). Quando apprendono i nomi dei possibili sospettati, Mastroianni domanda sbigottito: “Mah… Dosio Dosio?” per trovar conferma che si tratti proprio della famiglia in questione. Il collega annuisce. Ancora Mastroianni: “Mah… Campi Campi?”. Nuovamente il collega annuisce. Allora Mastroianni conclude: “Dosio Dosio, Campi Campi… cazzi cazzi!”. Della serie: maneggiare con cura. Tutto ciò che è torinese va maneggiato con estrema cura.
Infatti in questo mondo felpato, ma irto di trabocchetti, bisogna sapersi muovere a puntino e il commissario Santamaria, seppur non torinese, saprà farlo con prudenza e astuzia, salvo trovarsi impelagato in un risvolto personale che non aveva proprio immaginato.
Che la torinesità non abbia solo connotati negativi, ma abbia anzi moltissimi risvolti positivi, lo prova un tipico detto torinese che viene citato nella trama, anche perché è, seppur indirettamente, un componente importante della vicenda: “La cativa lavandera a treuva mai la bon-a pèra” (la cattiva lavandaia non trova mai la pietra buona). Il detto risale al tempo in cui le popolane lavavano i panni nel Po, strofinandoli sulle pietre a bordo fiume. La cattiva lavandaia, cioè la lavandaia svogliata e indolente, non trova mai la pietra “buona” e quindi rinvia sempre il lavoro, cercando una pietra più adatta e poi un’altra e poi un’altra ancora…. È una frase che ormai noi usiamo in senso metaforico, quando qualcuno non esegue il proprio compito scaricando la colpa su pretestuosi fattori esterni o, peggio, su mancanze altrui. Il tema è di importanza primaria nell’operosa Torino a tal punto che, se giungiamo a definire qualcuno come una “cativa lavandera”, è come se emettessimo a suo carico una sentenza capitale.
Accade anche nella Torino montanara. Quando senti uno affermare che quel giorno non ha combinato granché perché tirava troppo vento, che quell’altro le previsioni minacciavano, che quell’altro ancora la roccia era bagnata… beh, alla fine, con gli amici, commenti scuotendo il capo: “A l’è propri ‘na cativa lavandera”. Se ti appioppano appellativi del genere, ripulirti è poi durissimo, forse impossibile, perché devi vincere uno scetticismo che raramente ho visto altrove in pari misura.
Quando si ha a che fare con un vero torinese, risvolti come questo vanno colti al volo e altrettanto al volo occorre decodificare le espressioni che li contraddistinguono, altrimenti ci si imbatte in equivoci come quello che per un po’ avviluppa il commissario Santamaria. Costui inizialmente crede che, nel citato detto popolare, il termine “pera” indichi il frutto, mentre nel nostro dialetto significa “pietra”. Quando Santamaria giunge a chiarire l’equivoco, ciò lo aiuta a risolvere il caso.
Però neppure la sua esperienza di lungo corso assiste Santamaria nel saper gestire quell’altro enigma in cui incappa a titolo personale e che si consuma a casa sua in una assolata domenica di mezza estate. È un enigma che lo vede dapprima euforico e, immediatamente dopo, interdetto per una repentina mossa, tipicamente femminile prima ancora che torinese, ma che, nel suo manifestarsi, ha non pochi connotati torinesi.
Dopo le schermaglie prolungatesi per tutta la vicenda, Anna Carla Dosio è appoggiata languidamente sul petto del commissario, mentre questi commenta la conclusione dell’inchiesta. Sono nell’appartamento di lui, hanno pranzato con il filetto al pepe verde e successivamente sono passati nella camera a fianco. Nella rilassatezza che segue la tenzone, Santamaria chiacchiera allegramente. Anna Carla, quasi sbadatamente, guarda l’orologio e improvvisamente scatta su: “Ommi, povra dona! É tardi, devo andare! Ho i miei doveri!” e, con felina eleganza, sguscia imprendibile fuori dalle lenzuola.
“Ma quali doveri? – prova a sindacare Santamaria – Guarda che è domenica…”. Mentre si riveste velocemente, lei risponde: “Devo fare le valigie per le vacanze, domani partiamo, poi a settembre andremo in Svizzera… Ciao ciao, neh” e sparisce, di lei si vede solo più un’ombra. Allora Santamaria si accende una sigaretta e per un po’ resta a guardare il cerino acceso fra le dita. Alla fine lo spegne, ma conclude amaramente: “Eh, va bè…”.
Le donne torinesi sono così, misteriosamente inafferrabili e, forse proprio per questo, estremamente seducenti. Ha scritto Andrea Gobetti (che, nonostante i lunghi decenni ormai trascorsi in Toscana, è di matrice torinese e quindi sa bene di cosa si sta parlando): “… le donne torinesi, la cui scalata è la somma del difficile, dell’imprevedibile, del rovinoso e dell’esaltante. Come fanno? Forse, a loro basta guardare le montagne in cui sfocia il panorama d’ogni viale torinese per scegliere a quale, quel giorno, voler assomigliare.”
Donne e montagne, montagne e donne: la torinesità è la quintessenza di quanto sia enigmatica e affascinante la vita.
Ecco perché sono così affezionato a loro.
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Il Circolo del Design di Torino dedica una mostra al libro di Fruttero&Lucentini che mezzo secolo fa diventò anche un film indimenticabile di Luigi Comencini.
La donna della domenica compie 50 anni
di Paolo Verri
(pubblicato su lastampa.it il 22 marzo 2025, aggiornato)
Quando Sara Fortunati, direttrice del Circolo del Design, mi ha chiamato chiedendo la collaborazione della Fondazione Mondadori per dedicare alla Donna della domenica e a Fruttero e Lucentini un “archivio d’affetto”, mi sono detto: «Ecco, finalmente ci siamo. Anche i libri sono considerati innanzitutto dei progetti, che non nascono soltanto dal coraggio del raccontare, ma dalla abilità del comporre una forma».
Un valore assoluto, chiaro in poesia, chiaro nella musica e nell’architettura, ma in qualche misura nuovo per la letteratura. Questo pensiero si è potuto confrontare presto con quello che della Donna della domenica pensava Natalia Ginzburg che, a pochi mesi dall’uscita del romanzo che subito aveva ottenuto grande successo, aveva scritto un attacco molto duro contro chi sosteneva che Fruttero e Lucentini fossero propensi a scrivere libri adatti a una lettura «sotto l’ombrellone».
La mostra curata da Maurizio Cilli e Stefano Mirti in collaborazione con Domenico Scarpa, che si è inaugurata il 26 marzo 2025 proprio al Circolo del Design di Torino, ha dimostrato in dettaglio il contrario, e ha rafforzato quello che i ricercatori di “polar”, ovvero di romanzo poliziesco, studiano in maniera approfondita da oltre un decennio, ovvero che non c’è strumento migliore di quello di una “indagine” per indagare, appunto, la realtà.
Una realtà, quella del romanzo in questione, multilivello, come si addice ad una “commedia”, quella umana di Balzac, ma anche quella di un altro scrittore torinese, Davide Longo, che ai miei occhi appare il grande erede del duo F&L, e che – con il suo commissario Bramard – riprende il commissario Santamaria e lo colloca nella Torino del nuovo millennio.
Perché Torino è davvero la protagonista del romanzo, è presente ossessivamente in ogni capitolo, in ogni dettaglio, è descritta non solo con cura e amore, ma anche con quella ironia necessaria per prendere le distanze e farti vedere meglio cosa stia accadendo.
La Torino del 1972 è lì lì per esplodere, è al massimo della sua crescita potenziale, sviluppatasi in quindici anni di sfrenata crescita industriale e di altrettanto ingente immigrazione. Il raddoppio della popolazione aveva fatto raggiungere alla città il milione di abitanti proprio nel 1961, in occasione del centenario dell’unità d’Italia, facendo inorgoglire i torinesi nonostante i “meridionali” a cui era meglio non affittare, ma a cui si doveva in qualche modo la ricchezza disponibile.
Solo a partire dal 1973, l’anno dopo l’uscita del libro, la città non crescerà più; la crisi petrolifera del 1974, le prime domeniche dell’austerity, le auto ferme nei garage e le primi bici timidamente fatte uscire dalla cantine dove stazionavano dal secondo dopoguerra, portano rapidamente alla fine della città industriale, che vive poi un decennio nero, fatto di terrorismo, di scontri sindacali, di cattiva politica.
Era in quella Torino, era in quel’Italia che abitavamo. Le città erano cattive e violente, c’erano decine di rapine a mano armata, potevi essere derubato facilmente dai tuoi coetanei che portavano il coltello sotto il giubbotto (a me accadde ben due volte in pochi mesi, una volta a Mirafiori Sud e una volta in pieno centro, davanti al monumento dedicato a Pietro Micca).
La letteratura, come spiega bene la Ginzburg, era un esercizio di pochi per pochi, nella maggior parte dei casi rivolto alla tristezza o al più alla malinconia – consiglio, per capire bene cosa intendo, uno dei capolavori di Giovanni Arpino, Randagio è l’eroe, pubblicato sempre nel 1972, ma da Rizzoli, il grande competitor di Mondadori che invece si era decisa a pubblicare Fruttero e Lucentini.
Arpino, con frasi brevi e con tre personaggi, raccontava la tragedia del vivere in città, guardando dentro all’io. F&L invece guardano al noi, alla comunità, alle bassezze ma anche alle grandezze di ciascuno in quanto parte di una storia più grande, mai assoluta, anzi potentemente relativa.
Se Arpino, piemontese che ambienta la sua storia a Milano, con il suo stile ci fa vivere la città lombarda come metropoli, la Torino di F&L ha misura e passo ridotto, è il cuore della provincia, tanto da assomigliare per dimensioni alla loro amatissima Siena, protagonista di un altro giallo/commedia, Il palio delle contrade morte, che uscirà dieci anni dopo.
Nella nuova edizione degli Oscar, uscita nel 2022 per festeggiare i 50 anni dalla prima memorabile copertina stupenda disegnata da Ferenc Pinter, Marco Amici e Davide Astegiano, altro duo non casuale dal nome in gergo nerd “Radicalging”, appongono un QR code che ci permette di vedere i luoghi della Torino del 1972 come sono oggi.
Una mappa che ci permette di considerare che la città è molto più bella e vivibile, e che oggi Anna Carla, indiscussa protagonista – insieme alla città – del romanzo, potrebbe godere di ben altro piacere dal camminare lungo il fiume, potrebbe vagolare nelle piazze ormai abbandonate dalla automobili, potrebbe osservare ragazze e ragazzi che vivono felici e senza dubbi le proprie storie omosessuali – almeno per ora.
Una Torino che meriterebbe oggi altre indagini, e che non potrebbe più avere protagonisti che lavorano alla FIAT o all’Olivetti, ma per imprese di cui in gran parte gli abitanti non conoscono né il nome né la produzione. Una Torino non sede di altrui film e narrazioni, ma luogo di progetti per il futuro. Una sfida per romanzieri, o per architetti?
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La scrittrice racconta i rapporti con il padre e il suo amico Lucentini: «Tutti zitti quando scrivevano».
Carlotta Fruttero: “Papà rubava agli amici i dettagli per metterli nei suoi personaggi”
di Miriam Massone
(pubblicato su lastampa.it il 22 marzo 2025)
«Ho letto La donna della domenica a 14 anni, a 15 ho visto il film. Fino ad allora non avevo capito nulla, per me Carlo Fruttero era papà e Franco Lucentini un amico, con cui condivideva la passione per la scrittura e a cui ero legatissima.
Li vedevo chiudersi in una stanza, fumare e restare ore in silenzio per trovare l’aggettivo giusto. Da piccola mi sedevo lì con loro: se stavo zitta mi premiavano con cioccolata calda e matite colorate».
La lettura de La donna della domenica, per Carlotta Fruttero è un terremoto emotivo: «In quelle pagine ho scoperto un aspetto di papà che non immaginavo. Ricordo che mi sconvolse l’oggetto del delitto, il fallo di pietra. Pensai: “Ma come? Davvero l’ha scritto mio padre? Lui che non dice nemmeno una parolaccia”. Poi c’era la relazione omosessuale tra Massimo e Lello, infine il tradimento di Anna Carla con il commissario Santamaria. Intrighi, gossip, era ritratto un mondo lontano dall’aria trasparente e pura che respiravo in famiglia».
Carlotta lo divora e non ne parla («Mai, non si usava parlare di certe cose in casa: c’era un atteggiamento protettivo verso me e mia sorella»), ma se ne innamora: «So ancora a memoria l’incipit: “Il martedì di giugno in cui fu assassinato, l’architetto Garrone guardò l’ora molte volte”».
L’occasione per tornare su quelle pagine arriva molti anni dopo, nella villa di famiglia a Roccamare, in Maremma, dove Carlo Fruttero sceglierà di vivere l’età del tramonto: «Non ha mai letto i suoi libri, ma con La donna della domenica ha fatto un’eccezione e un giorno mi dice: “Sai che non era poi così male?”».
I ricordi di Carlotta sono impastati di amore e ammirazione: «Aveva l’understatement di chi ha valore e non ha bisogno di ostentarlo, era poco mondano, riservato, con tanto humor, più tardi mi sono accorta che osservava senza giudicare chiunque frequentasse e poi i vezzi più curiosi li metteva nei suoi personaggi, con un pizzico di crudeltà». Nel libro, ad esempio, l’amica di Anna Carla, che sogna di andare dal parrucchiere alle Maldive, è ispirata «alla nipote di un nostro caro amico», l’americanista Bonetto «era un suo compagno di scuola».
Anche per questo suo vivere discreto, la percezione della fama di Fruttero, in famiglia, non è immediata: «Per anni sapevo soltanto che scriveva, e non si poteva disturbare. Quando io, mia sorella e mia mamma gli chiedevamo qualcosa lui perdeva la concentrazione e si contrariava, così a un certo punto ha messo una regola: se lo vedevamo in casa indossare un cappello, non bisognava rivolgergli la parola, se non lo aveva gli si poteva chiedere di tutto».
E Lucentini? «Era per me un secondo papà, aveva molta cura nei miei confronti e mi ha insegnato tanto: è suo il regalo più bello che abbia mai ricevuto nella vita, una casetta di cartone dalle pareti azzurre che avevo messo in giardino, ci passavo le giornate con le amiche. Ma la sua passione era il bricolage, una volta è arrivato a casa con il Meccano per me, io che volevo la Barbie: in realtà era una scusa, così prima di iniziare a scrivere stava un’oretta nella stanza dei giochi a costruire macchine e gru».
Carlotta è il vezzeggiativo con cui la chiamava papà Carlo. Nata nel 1962, è cresciuta a Torino, ma negli anni del liceo si è divisa anche tra la Maremma e Milano: «Al collegio delle Orsoline Fruttero&Lucentini erano già conosciuti. Andavo a scuola con la spada di Damocle, il tema era un trauma, mi dicevano “Non sei così brava, pensare che sei figlia di uno scrittore”. Mi è nato un rifiuto per la scrittura».
Una ferita rimarginata con il tempo: da adulta, dopo gli ultimi anni dedicati al padre – «Mi mettevo alla Valentine rossa e battevo a macchina per lui, ho insistito tanto perché completasse Donne informate sui fatti dopo la morte di Franco, è stato salvifico per lui» – Carlotta ha raccolto l’amarcord nel libro La mia vita con papà e fatto definitivamente pace con quell’eredità letteraria. Oggi è in libreria con il romanzo Alice ancora non lo sa (Mondadori) e lavora al centenario della nascita del papà, nel 2026.
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L’attrice inglese: «Mastroianni era amichevole ma un po’ freddo. Ero profondamente affascinata da Torino, dalla sua atmosfera snob».
Jacqueline Bisset: “Ero l’unica straniera e non capivo nessuno”
di Fabrizio Accatino
(pubblicato su lastampa.it il 22 marzo 2025)
«Ma davvero è passato tutto quel tempo? Già 50 anni?». Davvero. La donna della domenica uscì al cinema nel 1975. E la sua interpretazione ricevette ovunque un consenso unanime. Per dire, il severo New York Times all’epoca scrisse: «Attrice di straordinaria bellezza e bravura, di norma mortificata in ruoli sciocchi, qui dà vita a un conflitto armato tra sentimenti reali e un decadente distacco, una tempesta in un calice di vino». Firmato: il premio Pulitzer Richard Eder.
Quando glielo si ricorda, Jacqueline Bisset sorride all’altro capo del telefono, dalla sua villa a Beverly Hills. «Gli anni sono volati, non riesco nemmeno a pensarci. Di recente ho rivisto Bullit con Steve McQueen e mi ha fatto impressione, ero una bambina».
E La donna della domenica?
«L’ho rivisto un annetto e mezzo fa. Mi avevano mandato il dvd e una sera l’ho messo su. Mi sono divertita».
Com’era entrata nel cast?
«L’anno prima avevo lavorato in Francia con Jean-Paul Belmondo in Come si distrugge la reputazione del più grande agente del mondo, e con Truffaut in Effetto notte. Qualcuno mi segnalò a Comencini, e lui a me».
Lo conosceva già?
«No. Mi fecero vedere il suo Pinocchio e ne restai incantata. Del regista mostrava una grande poesia e un animo fanciullesco. In più nel cast di La donna della domenica c’era già il mio miglior amico, Jean-Louis Trintignant. L’idea di poter lavorare con lui mi fece rompere gli ultimi indugi».
Ricorda il primo incontro con Comencini?
«Era molto diverso da come lo immaginavo. Era avanti con gli anni, serio, taciturno, piuttosto formale. Sulle prime è stato difficile entrare in sintonia».
E sul set?
«Era il primo regista italiano con cui lavoravo. Restai sorpresa che fosse così autoritario».
A Hollywood non capitava?
«Anche là i registi sanno essere duri, ma dopo aver messo l’attore in condizione di dare il meglio. Lì invece dovevo recitare in francese, che Comencini preferì all’inglese perché riteneva che avesse una gestualità più simile all’italiano. Mi diceva sempre: “Non ti preoccupare di quello che dici, tanto verrai doppiata”. Io però avevo bisogno di dare un senso alle parole del mio personaggio, non potevo limitarmi a muovere le labbra».
Se lei non parlava italiano e nessuno degli altri parlava inglese o francese, come vi capivate?
«Non ci capivamo. Ero l’unica straniera e mi sentivo molto isolata. Forse non bullizzata, di certo sotto una pressione costante. Presto iniziai a sentire nostalgia dei miei luoghi e delle persone con cui mi sentivo a mio agio».
Durante le riprese come faceva con le sue battute?
«Quando Mastroianni parlava non decifravo nulla, finché si bloccava di colpo e mi fissava. Lì capivo che aveva finito e attaccavo io».
Andavate d’accordo?
«Marcello era una persona amichevole, ma non molto calda. Era però paziente. O meglio, aveva una leggera impazienza che sapeva sempre tenere sotto controllo».
Che ricordi ha di lui?
«Arrivava la mattina sul tardi, il viso stropicciato, l’aria stanchissima. Una sera mi invitò a uscire a cena con lui e la sua squadra trucco, e lì mi resi conto che quello era l’effetto della grappa, che beveva generosamente. A metà giornata spariva con truccatore e parrucchiere, dopo un paio d’ore riemergeva nel costume di scena ed era il Marcello che tutti conosciamo».
Come si è trovata in quel giallo sui generis tessuto da Fruttero & Lucentini?
«Non riuscivo a capirne la trama, avevo la sensazione che mi mancasse il quadro d’insieme. Dovetti aspettare di vedere il film perché quasi tutti i tasselli andassero al loro posto».
Quasi?
«A tutt’oggi continuo a non capire il perché di quei simboli fallici sparsi nel film, a cominciare dall’arma del delitto».
Dell’esperienza che cosa si porta dietro?
«La straordinaria bravura dei vostri artisti: scenografi, direttori della fotografia, truccatori, parrucchieri, sarti. Ti mettevi nelle loro mani e il personaggio prendeva vita, materialmente».
Torino come la ricorda?
«Ne ero profondamente affascinata. Aveva un’atmosfera unica, molto diversa da tutto quello che conoscevo dell’Italia fino a quel momento. Era elegante, formale, un po’ snob. E si mangiava in maniera incredibile. A cena ci portavano “Al gatto nero”, quello era il vero momento di gioia della mia giornata. Peccato solo che voi italiani senza sale non sappiate cucinare».
In che senso?
«Da sempre mangio insipido, altrimenti inizio a gonfiarmi. Misi subito le cose in chiaro con Comencini e lui promise di occuparsene. Al momento delle ordinazioni lo faceva presente ai camerieri, solo che poi la pasta arrivava comunque salata. Il giorno successivo mi presentavo sul set con gli occhi gonfi e lui: “Jacqueline, oggi ti vedo diversa”».
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Grazia.
A me la Sicilia fa venire in mente la mafia.
Che facciamo, per mera provocazione, giochiamo a chi tira fuori il luogo comune più banale e trito?
@16. Grazie per l’endorsement. Circa la motivazione per il cambio di città, Cognetti mi aveva detto che si trattava di ragioni economiche in quanto a Torino è presente una istituzione pubblica che si chiama Film Commission che eroga contributi a chi gira film aTorino. Tuttavia, considerando che nel film non ci sono riprese di luoghi caratteristici di Torino, si sarebbe potuto semplicemnte girare a Torino e dire nel film che la città in questione era Milano. Esattamente come ha fatto la produzione del film “Fast and Furios 9” che ha girato a Torino scene che poi nel film sono state collocate a Roma.
Per quanto riguarda il testo della mia lettera a La Stampa eccola di seguito. Non ricordo se venne pubblicata interalmente (a volte la redazione interviene con piccole modifiche per loro esigenze editoriali).
Un caro saluto.
Ho visto il film “Le otto montagne”, trasposizione cinematografica dell’omonimo libro di Cognetti vincitore qualche anno fa del Premio Strega. Bel film, magnifici scenari di montagna della Val d’Ayas, tutto molto fedele al romanzo tranne … per la città di provenienza dell’interprete che egli descrive con aggettivi poco lusinghieri contrapponendola al paese di montagna dove è ambientata la storia.
Sarei curioso di sapere perchè questa città cosí poco amata dal personaggio di Pietro, che nel romanzo è Milano, nel film è diventata Torino … È stata una scelta “casuale”, oppure ci sono delle “oggettive difficoltà” a parlare male della città meneghina e si preferisce, quindi, assegnare questo poco simpatico ruolo di “città detestata” a Torino ? Per altro mi permetto di osservare che la nostra Torino ha una rapporto con le “terre alte” molto più “intimo” rispetto al capoluogo lombardo sia per ragioni geografiche sia culturali (forse è utile ricordare che il CAI, non a caso, è nato a Torino …). Qualcuno degli autori, cortesemente, ha una risposta ?
Giuliano Bosco anch’io credo che sia stato un errore cambiare città ,quasi un dispetto a Torino più che un favore, oppure pensavano dalla regia passasse inosservato? Le ragioni saranno state di comodita’ e risparmio logico e logistico ma a mio modesto parere una svista di sceneggiatura importante!
P.s. puoi farci leggere la tua lettera?
(consiglio di leggere i commenti che seguono partendo dal nr. 11, per rispettare la logica con cui sono stati scritti e spezzati solo per esigenze di pubblicazione nel blog).
Relativamente al più importante rifugio sul versante italiano del Bianco, ricordo solo che è stato realizzato su iniziativa del CAI di Torino che ne è tutt’ora il comproprietario. Ci mancherebbe che chi ci lavora non fosse espressione del territorio dove la struttura è collocata …
Un caro saluto.
Ps scusami per il ritardo nella risposta ma ieri ero … in montagna, in val Malone, una delle tante belle valli che circondano … TORINO …
Tornando al rapporto tra la città e le “terre alte”, oltre all’aspetto “inventivo”, gioca un ruolo importante la collocazione geografica della città. Basta fare un salto alla “Terrazza Alpina” nella sede collinare del Museo Nazionale della Montagna (pure lui nato a Torino) per rendersene conto.
Per quanto riguarda le Olimpiadi Invernali ricordo che si sono svolte a Torino nel 2006 (con impeccabile e “risparmiosa” organizzazione) e che, di norma, quando vengono nuovamente ospitate nello stesso Paese dopo un periodo relativamente breve, è consuetudine che venga scelta una sede diversa. Aggiungo che, vista la decisione di non assegnare l’evento olimpico ad una sola città, sarebbe stata una decisione di buon senso legata al risparmio e al tanto decantato (a parole ma non con i fatti) “impatto ambientale”, coinvolgere anche Torino dove erano già stati realizzati costosi impianti come i trampolini del salto e, soprattutto, la pista di bob. Ma il buon senso in Italia spesso deve lasciare il posto a considerazioni meno nobili …
Se vogliamo uscire dall’ambito prettamente montagnino c’è da considerare che molte altre cose sono state concepite o hanno preso l’avvio in Italia nel capoluogo piemontese. La telefonia in Italia è nata a Torino con la SIP, la moda, il cinema, la televisione (con la RAI) sono nate a Torino e anche un importantissimo settore industriale come quello dell’auto è nato in Italia a Torino con la FIAT e con altre aziende prestigiose come la Lancia. Ovviamente la dimensione di questo settore a finito per connotare (e condizionare) anche la città ma, come dice anche Crovella nel suo bel pezzo, questo valeva per il passato non certo per il presente (non so se dire “purtroppo” o “per fortuna”). Per non dire del ruolo avuto da Torino nella creazione dell’Italia stessa così come noi oggi la conosciamo …
Quindi non c’è molto da stupirsi nell’osservare che anche l’andar per i monti in Italia abbia avuto la primogenitura e si sia sviluppato a Torino, città che inventa ma che, molto spesso, non “trattiene” per motivazioni socio-antropologiche che sarebbe troppo lungo descrivere in questa sede.
Per quanto riguarda il fatto che Torino sia “molto più montagna” di Milano non credo che ci sia molto da discutere. Ci sono talmente tanti e tali elementi a sostegno di ciò che mi pare piuttosto pleonastico parlarne. Tuttavia mi premuro di ricordarne alcuni, così, come si dice “per dovere di cronaca”. Il CAI è nato a Torino. La pratica dello sci in Italia è nata a Torino. Il movimento cultural-alpinistico noto con il nome di “Nuovo Mattino” (che ha cambiato il modo di rapportarsi con le “terre alte”) è nato a Torino. Tutte le riviste di montagna a diffusione nazionale (“La Rivista della Montagna”, “ALP” è più recentemente “Skialper”) sono nate a Torino o nelle sue vicinanze. La prima gare di arrampicata in Italia è stata organizzata a Torino dai compianti Andrea Mellano ed Emanuele Cassarà. È di qualche mese fa la notizia che la Federazione Internazionale di Arrampicata Sportiva ha scelto Torino come città in cui collocare la sua sede in una bella palazzina che, tra l’altro, conosco bene in quanto si trova vicino a dove abita mia suocera.
Sono tutti elementi ben noti agli amanti della montagna e che richiamo a puro titolo conoscitivo in quanto può essere che tu non li conosca tutti …
Grazia, un conto è pretendere il ricalco integrale dell’opera letteraria in quella cinematografica e un altro è andare a cambiare un elemento importante che dà significato al sentimento del protagonista sia del libro che del film. Questo vale, in particolare, quando a questo “elemento” (nella fattispecie la città dove vive il protagonista) viene associata una connotazione negativa come quella dell’alienazione provata dal protagonista stesso e dalla quale rifugge frequentando regolarmente le montagne della VDA.
È una questione di sensibilità che dovrebbe essere compresa anche da un regista non italiano in quanto ritengo che questo valore sia universale e me lo aspetto in particolare da chi svolge un’attività artistica come quella del regista. Ricordo che dopo aver visto il film inviai una lettera al quotidiano La Stampa che venne pubblicata nella rubrica “Specchio dei Tempi” trovando parecchi consensi cittadini (una signora addirittura mi telefonó a casa per complimentarsi).
Giuliano, sono rarissimi i casi di film che ricalchino integralmente i libri da cui sono tratti, sia per i bisogni differenti di ciascuna creazione che per la fonte diversa da cui provengono.
Se Torino è molto più montagna di Milano come mai i nuovi giochi olimpici si chiamano Milano-Cortina?
Questa che vuole essere una mera provocazione si basa sul fatto che tutto è relativo e personale: per me Torino fa venire in mente la Fiat.
I miei amici montanari, tra i quali uno dei gestori del Torino, abitano tutti nelle valli circostanti.
@5 Marcello, mi sembrano due detti un po’ diversi che esprimono concetti diversi. La poca voglia di lavorare quello di Carlo e l’incapacità a fare una cosa ben fatta (nonostante l’uso di un buono strumento) il tuo.
O sbaglio ?
Gentile Grazia, premesso che, come si dice, “il mondo è bello in qto vario”, se faccio un film basato su un libro, logica vorrebbe che si mantenesse l’impianto narrativo del libro, inclusi i luoghi scelti dallo scrittore. Sostituire Torino a Milano ritengo sia stata una scelta assai infelice in quanto l’autore penso volesse trasmettere l’alienazione da grande città e, come dici anche tu, Torino in qto più piccola mal si presta a tale scopo.
Ma poi “last but not least” (come dice la perfida Albione 😉 c’è il fatto che Torino È la montagna molto, ma molto, molto più di Milano e un appassionati delle “terre alte” cedo che possa sentirsi decisamente più alienato a Milano rispetto ad una città che la montagna ce l’ha nel dna (rimetta).
Confermo il mio personae risentimento per la (a mio parere) infelice scelta cinematografica.
Giuliano, credo non sia il caso di scocciarsi se un regista preferisce una location a un’altra, poiché dipende da ciò che vuole trasmettere: il sentimento di estraniamento del padre del protagonista, che sogna sempre di salir per monti, è magnificamente reso da quei pochi minuti trascorsi a fumare una sigaretta sul balcone della fabbrica.
Libri e film hanno bisogni diversi.
Ho conosciuto tante donne torinesi e non riesco a collocarne nessuna nel quadro offerto dall’articolo.
Da forestiera, andando a Torino non ho sentito la montagna, ma una città, per quanto piccola, e mi rimanda alla profusione di aneddoti, quasi tutti amari, raccontati dai miei zii che hanno lasciato la loro energia nelle fabbriche.
Riconosco nelle righe di Carlo i segni della mia città: una severa maestra si diceva da giovani, per fortuna che da vecchio non l’ho presa per badante
Al di là della grandiosità del film e degli attori che contiene, Trintignant su tutti, tra la montagna di luoghi comuni crovelliani, il detto della lavandaia mi ha ricordato l’altrettanto significativo: spara driz cujun, c’a ‘l sciop l’e bun.
Crovella, non è assolutamente vero, Enrico Camanni non è così.
Il film è godibilissimo, ma il libro è un piccolo capolavoro. Non deve stupire la presenza dei falli di pietra (1972!), in realtà Fruttero e Lucentini oltre che abili scrittori erano dei provocatori nati, intelligenti ed ironici.
Cit. “L’arte di non leggere” (questa è per pochi).
Ps e come dimenticare il grandissimo Gipo con la sua “Muntagne dal mè Piemunt”
https://www.google.com/gasearch?q=Montagne%20del%20me%20piemont%20Gipo%20Farassino&udm=7&source=sh/x/gs/m2/5
Qui c’è il testo tradotto
http://www.lassu.it/SITO/parol_gipo.html
Bellissimo pezzo, almeno per un torinese (già mi immagino le critiche dal resto della penisola).
Descrive benissimo i tratti della “torinesità. Qke aneddoto personale.
Lessi la Donna della Domenica (prima edizione che conservo gelosamente) in un we. Me lo aveva prestato la mia fidanzata Carla (nome femminile tipicamente torinese) che poi diventó mia moglie.
Il film, come dice Carlo Crovella, rende perfettamente il libro e nn è cosi scontato che ció accada. Stupende le scene al Balun il “porta portese” di Torino dove puoi trovare oggetti incredibili o “sole” pazzesche.
Anche il rapporto tra Torino e la montagna è ben descritto nel pezzo di Crovella. Torino “è” la montagna (CAI, Nuovo Mattino, tutte le riviste montagnine, etc. etc.). Ed è per questo che mi sono tanto arrabbiato con Cognetti quando nel film tratto dal suo “Le 8 montagne” Milano è stata sostituita con Torino (e mi sono premurato di farglielo sapere …). Però la scelta era stata del regista, un belga … (ma che ne sà …).
Per quanto riguarda il “senso del dovere” indimenticabili rimangono le frasi del mitico Ugo Manera che diceva spesso “venta fè la prudusiun” e l’altro suo grande classico “tuca fè d’zalite”. Credo si capisca che “la prudusiun” è “la produzione” in senso tayloristico, ovvero la quantità di “gite” ovvero di salite ovvero di giornate passate tra i monti.
Chiudo con un piccolo inciso sulle madame torinesi. Le snob della Crocetta, quando prendono il taxi si fanno lasciare non sotto casa ma un po’ più avanti o un po’ prima. Per non “blaghare”, ovvero non credersene più di tanto. Dovevo chiudere ma una ultimissima cosa mi è venuta in mente. Montanelli, quando parlava di suo papà che faceva affari in giro per l’Italia, diceva che il padre diventava scuro in volto tutte le volte che doveva andare a Torino per lavoro. Gente difficile da trattare … i türineis ….