Due belle invernali nel Bianco
di Gianni Lanza
Lettura: spessore-weight*, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
Grand Capucin, parete nord (Lucien Bérardini e Robert Paragot, 24 e 25 luglio 1955). Prima invernale: Gianni Lanza e Carlo Gabasio, 2-3-4 gennaio 1989
La parete nord del Grand Capucin (Monte Bianco) era la classica via evitata da tutti, difficile, in ombra, non attrezzata e soprattutto che non dava assolutamente niente in termini di pubblicità, a fronte dell’enorme sforzo per salirla. Aperta nel 1955 dai fortissimi Robert Paragot e Lucien Bérardini, in più di trent’anni non contava che tre ripetizioni, tutte in estate.
Questi elementi stimolavano assai la mia fantasia, così con i postumi del capodanno ancora freschi, in compagnia del mio allievo prediletto, Carlo Gabasio, partiamo verso il Monte Bianco, coscienti di dover affrontare un osso molto duro.
La prima funivia ci deposita a Punta Helbronner, siamo decisi per la tecnica no-stop, abbiamo un equipaggiamento leggero, poco cibo, poco gas. Senza sosta raggiungiamo la base della parete, che tutto sommato è già cosa di qualche impegno. Senza cerimonie ci prepariamo e, immersi nell’ombra e nel gelo della parete nord iniziamo a navigare alla meglio su placche e fessure incrostate di verglas. Saliremo fin che fa giorno poi ci fermeremo a bivaccare nel punto ove colti dall’oscurità non potremo proseguire, è la dura regola del gioco che ci siamo scelti.
Appesi all’imbrago, appoggiati su una placca inclinata, con la corda che esce dal sacco da bivacco impedendone la chiusura, ci apprestiamo a passare quella che sarà una lunga notte artica, dalle cinque di sera alle otto del mattino.
Grand Capucin, via Bérardini-Paragot: i bivacchi della prima invernale
La seconda giornata ci vede impegnati sulla parte più difficile della parete. Salgo una lama dall’aspetto malsicuro, Carlo mi dice che i chiodi appena piantati escono da soli sotto di me, quaranta lunghi angosciosi metri poi una sosta sicura, le energie nervose sono messe a dura prova, la nostra meta è l’unico terrazzino di un metro quadro che c’è su tutta la parete: lo raggiungiamo al far della sera. Finalmente possiamo sciogliere la neve e far dell’acqua calda, mangiare qualcosa del poco che abbiamo e sopratutto star seduti senza essere appesi. Sono felice di trovarmi qui, in questo luogo inospitale, sostenuto dall’energia della volontà, con un ottimo compagno, che anche se alle prime armi si batte benissimo.
La notte passa, al mattino partiamo appena fa luce, pochi metri alla nostra sinistra c’è la parete est inondata di sole, noi è già il secondo giorno che siamo all’ombra, ma come ci diranno gli “amici”, è un inverno caldo. Attacco un diedro, oggi sono inarrestabile, poi ancora placche ghiacciate e infine siamo sotto al cappuccio che dà il nome al magnifico obelisco, un tiro di misto ed eccoci in cima, finalmente al sole, gli occhi non più abituati piangono, forse è anche gioia ed emozione.
E’ abbastanza presto, l’ansia di scendere veloci ci fa commettere un errore, per due volte devo risalire la corda della prima doppia che rimane incastrata, poi calate senza storia sulla parete sud. Arriviamo in tempo per la funivia, tutto mi sembra bellissimo, poetico, quasi irreale.
Mont Maudit 4468 m, parete est, via Giannina, D+, passaggi di V, misto, 700 m (Walter Bonatti, Andrea Oggioni, Bruno Ferrario il 20 settembre 1959). Prima invernale: Amabile Ramella e Gianni Lanza il 28 e 29 gennaio 1992.
Riscoprire le Alpi sotto un altro aspetto, completamente diverso e assai più selvaggio di quello estivo. Un mondo siderale, un pianeta dominato dal gelo e dalla solitudine. Per noi che non potevamo permetterci costose spedizioni in giro per il globo era la grande occasione a portata di mano per vivere avventure intense e impegnative, fini a se stesse, al puro piacere di godere della libertà e solitudine offerta da questi grandi spazi.
La passione per l’alpinismo invernale e l’idea di passare un paio di giorni in totale isolamento ci hanno stimolati verso questa avventura, una via di Bonatti sulla grande parete della Brenva in pieno inverno. Una salita di misto con difficoltà classiche e qualche passaggio di V, lunga 700 metri, in ambiente himalaiano, con un lungo e difficile accesso e una lunga discesa.
Salgo a Courmayeur con la mia Dyane, la tenace 600 fa miracoli, a Pré-Saint-Didier il Monte Bianco mi appare nella sua maestosità, non mi son mai abituato a questo spettacolo, tutte le volte è come fossa la prima.
Un’invernale comincia sempre con un grosso sacco, scendiamo con gli sci i pendii sotto Punta Helbronner, ai piedi i normali scarponi da montagna, sulle spalle il peso greve dello zaino, invidio Amabile che scia meglio di me e da l’impressione di faticare meno. Attraverso il Cirque Maudit arriviamo alla crepaccia della Fourche, lì abbandoniamo gli sci, domani alcuni amici li preleveranno e ce li faranno trovare alla base del Mont Blanc du Tacul lungo la via di discesa.
Avvicinamento per il Col de la Fourche e prima invernale della via di Bonatti e compagni
L’avventura inizia a prender forma, saliamo il canale ripido e ghiacciato che ci porta alla Fourche de la Brenva: giunti in cresta uno spettacolo meraviglioso ci accoglie, il versante est del Monte Bianco, l’immensa parete della Brenva è lì davanti a noi, a portata di mano.
Una calata ci deposita sul ghiacciaio, siamo in uno dei luoghi più selvaggi delle Alpi e per giunta in pieno inverno, recuperiamo la corda doppia, il dado è tratto.
Procediamo nel grande pianoro ghiacciato in direzione della parete, che è sempre più vicina, la prospettiva ne distorce le proporzioni e sembra quasi più breve. Nel pomeriggio iniziamo a salire, verso la grande crepaccia terminale, abbiamo deciso per la tecnica no-stop, da quando siamo partiti circa sei ore fa da Punta Helbronner non abbiamo ancora fatto soste.
La meteo è buona, non ci preoccupiamo del forte vento che spazza le creste e alza nuvole di neve.
La crepaccia si risolve con un muro di ghiaccio grigio verticale, poi pendii che alternano roccia, ghiaccio e neve ci portano al centro del grande canalone, il vento rinforza sollevando raffiche di tormenta, è quasi buio. Senza tante cerimonie fissiamo un paio di chiodi, scaviamo un gradino nel ghiaccio e ci apprestiamo al bivacco. Appesi ai chiodi con la corda che esce dal sacco a pelo impedendoci di chiuderlo ermeticamente siamo esposti alla tortura di piccole slavine di neve polverosa che entrano nel sacco, ci bagnano e ci gelano per tutta la notte. La mattina la situazione appare drammatica, le previsioni erano buone, ma la tempesta di vento ha colpito improvvisamente il Monte Bianco, noi siamo come due microbi a metà della parete, siamo in trappola. L’unica uscita ci sembra verso l’alto, non siamo in grado di fondere la neve per farci da bere, mangiare non se ne parla nemmeno, dopo la notte più lunga inizia la giornata più lunga della mia vita.
Abbiamo ancora circa 350 metri di sperone roccioso con difficoltà fino al V e misto difficile, vento a più di 100 km all’ora, temperatura -30°. I tiri si susseguono, saliamo frastornati dalla tempesta, il ghiaccio ricopre i nostri volti, ci incolla le ciglia, ci impedisce di respirare, tuttavia la nostra preparazione ci permette di continuare, siamo in difficoltà, ma non allo sbando. Come naufraghi passiamo l’enorme cornice di neve, sbucando sui 4300 metri del Col de la Brenva, il vento è un po’ calato, la visibilità è nulla.
Il bivacco invernale sulla via Giannina (Walter Bonatti, Andrea Oggioni e Bruno Ferrario) al Mont Maudit
Iniziamo a scendere ma dopo alcune ore su scivoli di ghiaccio sempre più ripidi e gelati ci accorgiamo di esser totalmente fuori via, ci troviamo sull’Ancien Passage, siamo suonati come pugili.
Non abbiamo scelta dobbiamo risalire, l’intera notte va spesa per tornare al punto di partenza, sono 24 ore che non mangiamo e beviamo nulla. Sbuchiamo nuovamente al Col de la Brenva a pochi metri dal punto abbandonato 12 ore fa, albeggia, il vento si calma. Seduti sugli zaini finalmente possiamo farci qualcosa di caldo da bere. Il tempo si rimette al bello, scendiamo dal Maudit, risaliamo il Tacul e iniziamo a scendere il valangoso versante nord che dovrebbe portarci al Col du Midi; un seracco dispettoso ci obbliga a una laboriosa calata ancorati a un precario fungo di neve, vediamo già gli sci che ci attendono al colle. Arriviamo al sole, la temperatura è sui -10° a noi sembra caldo rispetto all’inferno vissuto, abbiamo l’adrenalina in circolo, non sentiamo più la fatica, anzi siamo un po’ euforici. Una persona normale a questo punto potrebbe averne abbastanza, noi no, decidiamo di scendere la Vallée Blanche con gli sci e rientrare da Chamonix. Equipaggiati con normali scarponi da montagna, stanchi e con gli zaini pesanti, iniziamo a percorrere il noto itinerario, che al momento è in pessime condizioni. Tuttavia bene o male raggiungiamo Chamonix. Amabile resterà a lungo nell’ospedale di Chamonix per un grave congelamento, io me la cavo con la perdita delle unghie dei piedi.
Sono passati tanti anni dai quei giorni, che per me son stati grandi, perché condivisi in amicizia con Amabile, anche quando tutto andava male e tutto poteva avere un ben più tragico epilogo.
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