Eccerto!
Prima di ogni piccola o grande spedizione che si rispetti, occorre scegliere attentamente i partecipanti. Stabilito un budget, deciso se fare il viaggio in auto o in aereo+auto, prenotato per almeno i primi quattro giorni in un B&B carino, io m’illudo che il 26 dicembre si possa partire per la Sicilia…
Non in questo caso.
L’ostacolo più corposo è ancora da risolvere, a rischio che tutto salti in aria: la sistemazione (logistica, nutrizione, igiene, affetto) di ben tre gatte, due di Valentina Villa e Ugo Manera (Briciola e Nuvola), una nostra (Pussy).
Briciola e Nuvola sei mesi prima dell’evento
Per questo vi riporto i nomi: hanno praticamente fatto parte della spedizione, più vicine dei parenti più stretti e credute più in ansia e in gramaglie di mogliettine lasciate a casa.
La malfidenza delle due padrone verso possibili tate è notoria, ma di solito innocua. Ora invece i risultati raggiunti, non ancora consolidati, sono a rischio.
Anzitutto la data del ritorno: imprecisata, sembra dipenda più che altro dalla capacità delle padrone di sopportare la lontananza degli amati felini. Non dal tempo atmosferico, nooo! Non dai soldi, non dal lavoro! Il motto è: poverine, come faranno senza di noi? A questa terribile separazione viene dato un primo limite, il 3 gennaio 2015, con ristretta latitudine di posa, nessuna prevedibile elasticità.
La vicina di Ugo, che gli abita proprio di sopra, potrebbe forse andare bene, ma Ugo non si sente di muoversi nei delicati equilibri di un vicinato metropolitano e piemontese. Spetta a Valentina osare di chiedere e, per fortuna, trova un più che cortese assenso. Anche il folto stuolo di suoi familiari (genitori, fratelli, nipotine) è coinvolto in questa operazione, negli acrobatici incastri e nei giochi di passaggio delle chiavi di casa.
Briciola e Nuvola sei mesi prima dell’evento
Per Pussy apparentemente le cose potrebbero essere più semplici, in realtà qui gioca, oltre all’onorato servizio di una tata storica, anche il senso di responsabilità di Alessandra, la nipote di 23 anni che dovrebbe per qualche giorno farne le veci: con la complicazione della lista di medicine che la gatta deve assumere giornalmente. Mi ritrovo a compilare, con la severa supervisione di Guya, un mansionario diviso per punti che verrà appeso con il nastro adesivo sull’anta di un mobile della cucina. Devo insistere sulla chiarezza delle operazioni, sul minuzioso sminuzzamento dei bocconcini di tacchino, sulle dosi delle pastiglie, una da segare in due, l’altra in quattro, sui millilitri del diuretico, perfino sul come “proporre” il tutto alla “gattina affamata”, in due tempi “se no vomita”. Il timore è che la nipote, che già non è l’esempio di dedizione, presa com’è dal suo momento creativo (è cantautrice, una promessa), nella notte di Capodanno, con la consequenziale ottusità mentale e fisica del giorno dopo, non raggiunga neppure il punteggio minimo dell’affidabilità.
Insomma, alla fine il piano è pronto: con l’aiuto di un esercito misto di volontari (m’han ciamà vuluntari) e di mercenari, la spedizione può partire.
Pussy
Valentina e Ugo arrivano da Torino la sera di Natale, pieni di omaggi alimentari, specialmente acciughe fatte in rosso e in verde, ma anche aringhe. Le mangiamo come gatti. Il mattino dopo la sveglia è alle 5, per partire alle 6.
Completato al buio il carico della mia auto, in una nebbia insolita per questi anni, partiamo puntuali. Ce la terremo fino a oltre Parma.
Non abbiamo ancora passato il cancello di casa, ed ecco il primo lamento: “Non ho avuto neppure il tempo di salutare come si deve la Pussy…”.
Non essendoci molte belle cose da vedere nella tangenziale immersa nella nebbia, l’impressione di strazio iniziale dura a lungo, non tacitata neppure dai primi tentativi di appisolamento.
Il dialogo riprende sull’Appennino, prende vigore nei dintorni di Firenze, poi ecco la protesta per i miei modesti 150 km orari (forse 160…). Quasi a Roma, a un autogrill per sosta pipi, mi convincono a dare il cambio a Guya. La moglie prende il comando, Valentina l’affianca sul passenger sit. Ai due maschi tocca andare dietro, divisi da una corposa borsona sovrastata da un’ingombrante, spigolosa e semovente borsa di plastica piena di cibo vario che ti preme sul fianco e che colpisce le braccia con dolore al minimo accenno di curva… Ora capisco perché dietro prima continuavano a protestare.
In autostrada Guya guida anche più veloce di me, se è giorno e non c‘è tanto traffico: questo Ugo e Valentina non lo sapevano… e tocca a me osservare a un certo punto: “Guarda che stai andando a 190!”.
Riprendo il comando un po’ dopo Salerno e riusciamo ad arrivare a Villa San Giovanni in piena tabella. A quel punto c’erano già state delle telefonate, con il pressoché esclusivo scopo di avere informazioni sulla salute dei felini. Alle due padrone si trasformava perfino la voce, un tono così mellifluo era quasi imbarazzante. E dicevano anche che noi eravamo gelosi, e pure tirchi se solo accennavamo ai costi telefonici.
A tardo pomeriggio saliamo sul traghetto per Messina, preceduto da una conversazione telefonica Guya-Alessandra dove la prima aveva saputo che la seconda, nonostante le assicurazioni, alla fine non era stata a metà pomeriggio in casa nostra ad accudire sua maestà la reginetta.
Guya aveva terminato la conversazione con orrendi improperi, assolutamente non consoni al suo abituale comportamento, più simile peraltro a quello di una dama di alto lignaggio. E si ostinava a non rispondere alla nipote, che aveva ben capito di averla fatta fuori dal vaso. Dopo due chiamate a vuoto, alla terza noi tre usciamo dall’auto nell’imbrunire di Scilla e Cariddi per non sentire la cazziata cosmica che di lì a poco si sarebbe scaricata sulla povera Alessandra.
L’arrivo a Ragusa è alle ore 20, su un tornante di corso Mazzini. Il posteggio, sulle prime dato per impossibile, si materializza grazie alla gentilezza di un signore. L’agognata Casa di Matilde è da qui invisibile, forse ci siamo capiti male. Poi risulta chiaro che il voluminoso bagaglio dobbiamo trasportarcelo giù per lunghe scalinate, fino all’approdo finale, in una location a dir poco stupefacente. Peppe, il premuroso proprietario, come prima cosa ci fa vedere Ragusa Ibla illuminata, un presepe che definirei “mozzafiato” solo se questa parola non fosse così sputtanata dalle riviste patinate e dal marketing.
Rimasti soli, già ricchi dei primi consigli, c’è l’ispezione delle camere, ma soprattutto dei copriletto, delle tende e del bagno, sicuri coefficienti di eleganza (o del suo esatto contrario) nell’ambito della ricezione turistica. Anche il riscaldamento è considerato, ma quella è una conditio sine qua non. Va detto che in questo caso non ho scelto io la prenotazione, dunque posso tranquillamente fregarmene, privo di meriti o eventuale responsabilità. Comunque stanze e ventilazione calda superano brillantemente l’esame, come pure riuscirà agevolmente in questo intento la colazione della mattina dopo. Per essere tutti felici. Daremo un danno a Peppe di proporzioni ingenti.
La sera gironzoliamo per Ibla, le cui case e stradine in salita letteralmente ci seducono. Riusciamo anche a perderci, ma alla fine guadagnamo la piazza del Duomo, il bellissimo corso XXV Aprile e l’agognato ristorante Il Barocco. Dove ci servono una cena memorabile, con piatti commoventi: mai mangiata una caponata così.
Cava Cassarino: Giorgio Iurato e Ugo Manera si affacciano dalla Timpa Perciata
Qualche mese prima, mentre scrivevo La Pietra dei Sogni, ero arrivato in contatto con Giorgio Iurato, un valente arrampicatore sportivo di Ragusa che però aveva preso gusto a conoscere tutti gli itinerari avventurosi della sua Sicilia, oltre ad averne aperto di nuovi e difficili, un po’ ovunque nelle province di Ragusa e Siracusa, ma anche a Rocca Busambra. Troviamo all’appuntamento un uomo tarchiato e riccio che suggerisce molta immediata simpatia. Non ha il fisico di chi fa l’8b, però lo fa, senza spandere.
– Dove andiamo? Dove ci porti?
– Mi raccomando, che sia al sole… – butta là Valentina, speranzosa.
– Eccerto!
– Anche senza vento… – le fa eco Guya.
– Eccerto! Alessà… andiamo a Cava d’Ispica, vedrai che bello!
Quell’“eccerto”, con la tipica pronuncia siciliana della doppia c, è contagioso. Sarà il tormentone dell’intera vacanza!
Ugo, Giorgio e Alessandro a Cava Cassarino, 29 dicembre 2014
Il posto è davvero incantevole. E solatio. Giorgio ci spiega che sono almeno 5.000 i buchi squadrati scavati nelle falesie di Cava d’Ispica, poi c’illustra i vari settori. Siamo a Pernamazzone, nel silenzio più irreale e nel tepore dell’inverno mite. Dopo i primi tiri di riscaldamento, abbiamo una prima piccola indecisione su Coda di Lucertola di Sinistra; altri leggeri intoppi su Movimenti lenti e Piccole bionde. Fino ad ora Giorgio è stato al nostro completo servizio, lo invitiamo a fare qualcosa di un po’ più divertente per lui. Così sale senza la minima difficoltà Piruaruci, dove noi da secondi denunciamo la nostra inadeguatezza.
Ci fanno già male le dita, qui ci sono monoditi anche sul 6a, il mio medio sinistro è già in doloroso allarme… Decidiamo che per oggi basta. Giorgio ci porta al “rifugio”. La costruzione è assai romita, questo rifugio Kalura serve per ospitare per pranzi e merende i gruppi di un locale operatore trekking, suo amico. Gruppi impegnati nella traversata di Cava d’Ispica, lunga chilometri. Giorgio apre la serratura con la chiave e c’inoltra nel soggiorno, ingombro di un lungo tavolo, di un abbozzo di cucina e di innumerevoli altri oggetti. Al di sopra è un soppalco, assai confuso da oggetti difficilmente riconoscibili nella penombra. Non c’è acqua corrente e neppure illuminazione. C’è quel rigore un po’ umido tipico delle costruzioni da lungo prive del riscaldamento di un camino. Ciò nonostante è piacevole starsene qui seduti a sorseggiare il tè fatto da Giorgio. Il quale ci mostra, nel cortile esterno, il forno che sta costruendo con una sua ingegnosa tecnica personale. Diciamo che, con un po’ di lavori ancora da fare, e con una massiccia messa in ordine generale, il rifugio Kalura potrebbe davvero essere un luogo simpatico, sempre che ci si voglia dimenticare dei comuni comfort.
Per esempio il wi-fi: in Casa di Matilde ci viene data la password PESTEMATILDE, con riferimento a PEppe, a sua moglie STEfania e alla figlia. A proposito: la prenotazione era stata fatta con la signora, ma in quattro giorni mai la vedremo, probabilmente per via della “peste”!
Il 28 piove e tira vento, dopo una rapida visita a Ragusa nuova ci spostiamo a Modica. Abbiamo tutta l’intenzione di fare turismo canonico, con tanto di cartina, guida Lonely Planet e macchine fotografiche.
– A me fare turismo interessa poco… ma quando lo faccio lo voglio fare bene – stabilisce Ugo.
Giriamo la bellissima cittadina tra qualche acquazzone e un forte vento, troviamo qualche sito chiuso per l’orario, assommiamo almeno un 400 metri di dislivello di scale e gradini. Giunti al soddisfacimento, ci concediamo un giretto di acquisti e assaggi all’Antica Dolceria Bonajuto; poi, avendo appuntamento a Marina di Ragusa a casa di Cristina, un’amica di Giorgio, compriamo anche qualche bottiglia di vino.
Cava Cassarino: Ugo, Cristina, Valentina, Guya, Giorgio e Alessandro (29 dicembre 2014)
Spersa tra le villette deserte e spazzate dalle raffiche, la casa di Cristina Pannuzzo la riconosciamo dalla Panda rossa di Giorgio lì posteggiata. È incredibile il calore con il quale entrambi ci accolgono, egregia sostituzione della mancanza di riscaldamento. Lei sorride in un modo che non si dimentica. Il programma è di chiacchierare un po’, bere un tè e poi preparare cena. Il piatto forte sarà la pizza, impastata e condita da Giorgio e da lui cotta nel forno da lui ideato e costruito. Ma non mancheranno altre delizie.
Veniamo a sapere che la nonna di Giorgio era di Cuneo e che Cristina è stata parecchio tempo a Torino: il modo di esprimersi di Cristina è particolare, dà per scontati alcuni passaggi logici che invece non sono tali, preferendo insistere su immagini e scorci di idee che talvolta sembrano superflui o eccentrici. La storia della sua vita è fortemente incompleta, condizionata da quello che poi chiariremo essere stata la grave tragedia della perdita del padre. Ascoltiamo in silenzio, a volte godendo di alcuni arditi paragoni, a volte un po’ sgomenti di fronte ai prodigiosi salti logici.
La preparazione della pizza è preceduta dalla produzione della brace. Il forno è mobile su rotelle, piazzato nel cortile sovrastato da una tettoia. Il vento la fa da padrone. Trovata la posizione migliore, Giorgio mette legna e accende. Siccome deve anche preparare il condimento sulle forme, il suo è un continuo entrare e uscire, seguito dalla mia curiosità. Cristina nel frattempo frigge melanzane, parlando con Guya interessata a saperne di più.
Anche la cena è piuttosto movimentata, perché il povero Giorgio si divide tra il compito del pizzaiolo, quello del padrone di casa e quello di chi deve anche mangiare qualcosa ogni tanto. Possibilmente non freddo gelido.
Dopo cena, Ugo si lancia a raccontare qualche avventura delle sue in montagna. Mi sorprendo a notare che, avendole già ascoltate in altre occasioni, lui riesce a catturare l’interesse anche senza aggiungere o togliere nulla di essenziale. I fatti sono quelli, si vestono e si spogliano da soli, senza neppure dover rinnovare il guardaroba.
Pantalica, torrente Calcinara
Gola dell’Ánapo, Giorgio tea making
Pantalica: Cristina, Guya, Valentina e Ugo (29 dicembre 2014)
Pantalica: Guya e Valentina
Gola dell’Ánapo, Ugo, Valentina, Guya, Giorgio e Alessandro
Il mattino dopo splende il sole e, dopo la solita pantagruelica colazione, andiamo con Giorgio e Cristina in un altro canyon.
– È un posto che nessuno conosce, l’ho chiodato io e ancora ho da finire. Cava Cassarino si chiama.
– Ma… è al sole?
– Eccerto!
Posteggiamo al fianco di una poderale, costeggiata dal solito caratteristico muro di sassi. Dopo aver costeggiato l’orlo del canyon per un po’ di minuti, cominciamo a scendere.
– Com’è la discesa, Giorgio? – chiedo perché preoccupato dalla possibilità di passi esposti e pericolosi per Guya.
– Alessà… è facile… c’è anche qualche corda fissa…
Alla parola corda fissa mi blocco. In più noto che la falesia dove stiamo andando non è per nulla esposta al sole.
– Però si può fare un giro un po’ più lungo, meno esposto.
– Ok, allora andiamo a vedere.
La discesa si svolge in effetti senza problemi, qualche breve passaggino richiede l’uso delle mani, ma nulla di particolare. Se si fa attenzione a non inciampare nelle radici e a non scivolare su qualche tratto decisamente bagnato e fangoso…
Arriviamo tutti alla base della falesia, immersa in una deludente ombra grigia. Dalla parte opposta del canyon splende il sole.
– Viene, viene dopo il sole!
Io invece sono convinto che qui il sole non lo vedremo per tutta la giornata, prevedo ore dure per Guya che, con le dita gelate, farà fatica anche a girare le pagine del libro che ha portato con sé!
D’altra parte Giorgio ci mostra le sue produzioni con giusto orgoglio. Facciamo finta di dimenticare la mancanza di sole e ci buttiamo tutti a scalare come invasati. Dopo quattro ore di arrampicata tra tiri bellissimi, tutti collegati a due terzi di altezza da una lunga grotta orizzontale e naturale (salvo alcuni piccoli interventi preistorici), mi ricordo di avere una moglie. Il teatro delle nostre azioni era a circa 100 metri di distanza dal posto scelto come sosta frigorifera. Mi reco da lei pieno di affetto e di buone intenzioni.
La reazione è assai violenta. Dice di avere mani e piedi congelati.
– Ma non potevi dirlo?
– Dirlo? Perché, non ci arrivi da solo?
Seguono improperi perfino più violenti di quelli rilasciati sullo Stretto di Messina all’indirizzo di Alessandra.
– Bene, allora andiamo via subito!
Ripassiamo davanti agli altri, comunichiamo l’intenzione di un rientro immediato.
– Ah, noi facciamo ancora un tiro poi arriviamo.
La risalita si svolge regolare. A un certo punto però la scarpetta destra di Guya s’incastra tra due rocce. All’imprecazione fa seguito il tentativo di disincagliarsi.
– Non ci riesco… ho il piede congelato… non lo sento!
– Minkia – penso. E intanto slaccio la scarpa e permetto al piede di uscire. Poi la recupero facilmente e con qualche difficoltà di adattamento riprendiamo la marcia. Dopo qualche minuto usciamo al sole e dopo poco ancora c’è la salvezza del chiuso della macchina.
Allorché arrivano anche i soci, nessuno comprende il dramma appena consumato: perciò si parla di fare una foto tutti assieme come nulla fosse. Guya è pregata di uscire, la conosco abbastanza per prevedere una sfuriata. E infatti: – Va bene, eccomi… già non sono fotogenica… figuriamoci adesso che ne ho due coglioni così!
Il 30 dicembre altra giornata con pioviggine e vento. Decidiamo di salpare per nuovi lidi, più precisamente per Floridia, nei pressi di Siracusa. In viaggio, passiamo per Ávola: Ugo e io non riusciamo a vedere alcuna coltivazione di vite. Con tutto il Nero d’Ávola che c’è in giro… Ci spiegherà Giorgio che le viti ci sono, ma sono nascoste dagli aranceti… Mah!
Ai “tropici” di Noto Antica: Cristina, Giorgio, Ugo, Valentina e Guya (1 gennaio 2015)
Noto Antica
Accolti da tre simpatici cani e da una decina di gatti, arriviamo all’Agriturismo La Taverna, una serie di belle case basse e rossicce facenti parte di un’unica grande proprietà immersa nelle arance e nei limoni. L’attiva e loquace proprietaria, la signora Maria, ci confessa subito di non conoscere molto bene i comandi del riscaldamento ad aria. Dopo un frenetico smanettamento riusciamo ad averne ragione. Arredamento di buon gusto, materassi Fabricatore, molti particolari ricercati.
Proseguiamo la giornata con la visita di Palazzolo Acreide, con veloce puntata al Capriccio. Per digerire il peperone ripieno di riso (come l’arancino più classico) ci ritroviamo in cima a una montagnetta ventosa sulla quale sorgono le rovine di Akrai. Quando vengo a sapere che ci vogliono 4,00 euro a testa per la visita, mi rifiuto categoricamente.
– Chissenefrega di tre rovine annegate nella vegetazione incolta – ringhio a muso duro. Guya, come manco mi avesse sentito, compra comunque quattro biglietti. Sono dunque costretto a percorrere a passo iracondo la colonia siracusana, che vengo a sapere fondata attorno al 664 a.C. (70 anni dopo la fondazione di Siracusa) dagli stessi siracusani. Al di là dei complessi cimiteriali cristiani, della città antica si conservano numerose testimonianze, in particolare un importante edificio teatrale e un gruppo di edifici adiacenti all’Agorà greco-romana. Vi è anche un bel decumano dall’integro manto stradale. Lo vediamo per ultimo, davvero notevole.
– Valeva due euro, non quattro! – sibilo alla fine.
La Fonte Aretusa di Ortigia (Siracusa)
Santa Lucia alla Badia, piazza del Duomo di Ortigia (Siracusa)
La piazza del Duomo di Ortigia (Siracusa)
A quel punto guidiamo fino a Siracusa, dove ci fiondiamo subito a Ortigia. Beh, qui anche i più incalliti arrampicatori, magari incazzati per l’astinenza arrampicatoria, devono convenire che si tratta di un posto davvero speciale, nell’insieme e nei particolari. La piazza del Duomo è la perfezione, per il gioco delle misure e degli spazi, per la fantasia. La Fonte Aretusa ha qualcosa di magico, roba da rischiare l’invidia per le oche che l’abitano. E le vicine e gigantesche mangrovie, alla luce della sera, sono sconvolgenti.
Dopo una giornata di turismo eccessivo, condotto al galoppo e senza risparmio, l’appuntamento serale al ristorante Cenacolo, con gli amici romani Giorgio Mallucci, Gianni Battimelli e rispettive signore, è preceduto da un lungo aperitivo al Caffè del Duomo.
Il 31 c’è un bel sole, anche se fa un po’ freddo. Giorgio e Cristina ci aspettano a Ferla, poi assieme andiamo a Pantalica. Al posteggio troviamo tre camper cechi, davanti a uno dei quali una carrozzina-culla sembra abbandonata. Tutto tace, nessuno si fa vivo. Ci prepariamo per la nostra gita, io parto per ultimo: incuriosito, alzo il lembo della copertina. La culla ospitava un bebè biondo! Il quale ha dormito a dispetto del casino che gli abbiamo fatto intorno.
Della mia visita del 1981 non ricordo quasi nulla, scendo al torrente Calcinara come fosse la prima volta, tra le decine e decine di camere scavate nella roccia. Giorgio ci mostra le sue vie, io cerco di ricordare dove sono le vecchie mie. Ci riuscirò solo alla sera, consultando il mio Mezzogiorno di Pietra. Dopo una ventina di minuti e tre guadi leggermente acrobatici ci fermiamo, al cospetto di pareti bellissime, in un ambiente davvero insolito e suggestivo, dove è la preistoria a farla da padrona. Poi torniamo indietro per lo stesso percorso. Ripassando per Ferla, scendiamo al letto dell’Ánapo e percorriamo circa 7 km del vecchio tracciato ferroviario. Anche qui l’atmosfera è speciale, ci viene mostrata la grotta Bonatti, cogliamo aranci e mandarini abbandonati, ammiriamo le vie aperte da Giorgio, ci perdiamo nel sogno di comprare e ristrutturare un casolare bellissimo che più di così non potrebbe esser lasciato andare. Manca poco che Valentina, mostrando il geniale architetto che è in lei, si metta a disegnare un progetto mentale a beneficio del sogno collettivo…
Giorgio ha portato il fornello e si ferma per fare il tè per tutti. Sembra di essere una comitiva di inglesi.
Ugo Manera a Nome e Cognome (2 gennaio 2015)
Alessandro Gogna a Nome e Cognome (2 gennaio 2015)
La “cuccia” di Juri
Questa è l’ultima sera dell’anno. Abbiamo fatto molta fatica a trovare un qualunque posto che ci desse da mangiare. Poi Giorgio, il risolutore, è riuscito a prenotare alla Fattoria Terra e Libertà, nella più remota e buia campagna di Canicattini Bagni. La notte si annuncia fredda e tempestosa. Quando entriamo nel locale, sbarrato sull’uscio da due pacifici cani sdraiati a pelle di leone, il casino è già a un buon livello. Le portate sono servite senza preavviso e senza amore per il proprio lavoro, il menù è fisso e come tale va letto e interpretato. Dire che stiamo cenando bene, no. Dire che si può parlare tra di noi, neppure. Pazienza, dovevamo pensarci prima. E meno male che Giorgio ha salvato il salvabile.
La cosa più interessante, al di là di uno splendido camino in cui scoppietta un fuoco vigoroso, ce la offre la strana coppia di un signore assai ciccione assieme a una bella bambina mulatta con treccine: nella discoteca del seminterrato danzano meravigliosi. La bimba si muove con la naturale eleganza della sua razza; il ciccione è davvero insospettabile, non lo diresti mai possibile.
Giorgio e Cristina si fermano qui a dormire. A noi tocca uscire e guadagnare, in territorio ignoto e nella bufera di neve, i nostri regali appartamenti a Floridia. Dove arriviamo al culmine della violenza meteorologica.
Il mattino dopo, sembra The Day after. Ci alziamo all’ora consueta, c’è un vento che ti spazza via, e uno straterello di neve. Perfino i cani se ne stanno buoni a cuccia. Rami di palme sono stati divelti, sedie e tavolini rovesciati. Della proprietaria nessuna traccia fino alle dieci. Ci aveva avvertiti, quella mattina gli orari di colazione avrebbero subito gravi ritardi.
Impossibile arrampicare. Giorgio ci porta a Cava Grande di Cassìbile (anche lì grandi miei ricordi), ma lì giunti non riusciamo quasi ad affacciarci alla ringhiera per la violenza delle raffiche. Intorno, un paesaggio innevato inconsueto. Ci dicono che è da ventotto anni che non nevica a Siracusa. E poi: il traghetto incendiato, l’Etna che erutta, le ceneri che ingrigiano la neve e costringono alla chiusura l’aeroporto di Catania. E poi, cosa ancora?
Ripieghiamo a quota inferiore sulle rovine di Noto Antica. Dove almeno riusciamo a fare una bella passeggiata, prima di scendere ancora verso Noto e il suo barocco.
Nell’ottobre 1981 ricordo un traffico bestiale, a passo d’uomo ci siamo trovati in colonna nel centro e avevamo visto la grandiosa facciata del Duomo. Una visione indimenticata che, quando nel 1990 ci fu un altro terremoto, mi diede un grande dolore. Non volevo neppure sapere l’entità del danno, mi rifiutavo di accettare quel crollo, neanche fosse una parte del mio corpo…
La ricostruzione, ci racconta Giorgio, è stata assai lunga. Lui vi ha partecipato, è stato mesi a lavorare proprio a quello. E il risultato è ora sotto gli occhi di tutti.
La sera eccoci tutti al ristorante La Trota, sempre a Canicattini Bagni. È un enorme locale ricavato in una grotta artificiale, dove troneggiano una grande vasca di trote e centinaia di posti tavola (che la sera prima erano del tutto gremiti). Qui ci riconciliamo (nulla di più facile) con la cucina locale, tramite una mangiata storica. Il giorno dopo Giorgio e Cristina devono essere a Ragusa, pertanto ci lasciano questa sera.
Il 2 gennaio andiamo in Contrada Alfano, alla falesia Nome e Cognome. Sole, caldo, assenza di vento. Ci precede una coppia, un lui e una lei. Non fanno a tempo a depositare lo zaino che già si spogliano. Veniamo a sapere essere norvegesi. Qualche tempo dopo arriva un’altra coppia, questa volta tedesca. Con loro è il figlio biondissimo e pacioccone di quattro mesi, Juri. Il lui mi riconosce, dice di avermi conosciuto a Trento, infatti entrambi parlano abbastanza bene l’italiano, e sono in giro da quattro mesi!
Guya si scatena subito: molla lì la lettura della noiosissima Pietra dei Sogni e si butta a pesce sul baby-sitteraggio spinto, ricevendone poi i complimenti dai genitori estasiati da tanta dedizione e dal fatto che la propria prole possa destare un interesse così affettuoso in un’estranea italica. Le sue cure hanno anche permesso ai genitori di arrampicare praticamente indisturbati, cosa con tutta evidenza non certo consueta…
– Dove andate domani?
Questa si potrebbe pensare essere l’interessata domanda dei genitori… invece è la domanda scherzosa di Guya.
La sera è dedicata alla pizzeria Piano B, che ci era stata consigliata con entusiasmo da un’amica di Torino (che peraltro ci aveva regalato anche altri preziosi consigli). Purtroppo ci lasciamo tentare dal prendere un trancio di pizza di 80 x 20 cm, diviso in quattro a seconda dei gusti diversi. Un’idea che sembra geniale, ma lo è fino a un certo punto. Insomma, non ci entusiasmiamo più di tanto, anzi non riusciamo a capire che ci trovi in tutto questo la marea di gente che ci circonda.
La cena è condita da malinconici “ah, come staranno le nostre bambine, chissà cosa faranno da sole le nostre micine…”.
In effetti, in questo fedele racconto delle nostre gesta sicule, vi ho finora risparmiato la quotidiana serie di telefonate informative e di accenni preoccupati alle feline. Alla fine sapevamo perfettamente perfino quale gatta si strusciasse su quale gamba di quale cat-sitter e se al mattino o alla sera! Intanto Ugo e io non versiamo neppure una lacrima sulla nostra pizza, insensibili all’urlo di dolore.
Valentina a Timpa Rossa. Si ostina a fare da seconda ciò che potrebbe fare facilmente da prima.
Guya a Timpa Rossa
Cristina a Timpa Rossa
Il 3 gennaio è la volta della Timpa Rossa, vicino a Rosolini. Sono ancora con noi Giorgio e Cristina. Anche qui una splendida arrampicata circondata da tepore primaverile e ambiente bucolico. Peccato che Ugo sia limitato da uno strano dolore al bacino, certamente un’infiammazione, ma non si capisce a cosa. Bisognerebbe sempre sapere cosa hanno nel cuore gli amici…
Giorgio fa la regia in modo tale da portarci a fare Formica, un monotiro stupendo e rossastro che vediamo poco lontano.
Prima di Formica ci porta in un settore intermedio dove scegliamo Ziccalu e Zumpa. Mentre stiamo trasferendoci all’altra falesia, proprio mentre stiamo scendendo un facile risalto, Cristina cade e rotola addosso a Ugo, circa due metri di volo cui assistiamo impotenti e atterriti perché la ragazza sta cadendo di testa e di schiena. Ho modo di vedere bene la dinamica e capisco subito che non ha urtato cose importanti, però Cristina è un po’ sotto shock e lamenta un dolore al polso.
Siamo tutti d’accordo che è andata bene, Giorgio si precipita all’auto per prendere lo spray di ghiaccio. La cura e la accudisce con un affetto forte, deciso. Anche Guya è accorsa per via del trambusto.
Bisognerebbe sempre sapere cosa hanno nel cuore gli amici…
È inutile fare una processione all’ospedale di Modica tutti assieme per fare una lastra al polso. Cristina piano piano riprende controllo, sembra serena. Decidiamo che, in assenza di imprevisti, ci saremmo visti ancora assieme al ristorante Cenacolo di Ortigia, previa telefonata.
E così sarà, presente anche l’amico Roberto Capucciati e il simpatico suo compagno di scalate. Una bella serata, un locale zeppo e molto incasinato con un pirotecnico e fantasioso proprietario (non solo in cucina).
Siracusa, ultima sera: Cristina, Valentina, Giorgio, Ugo e Guya
Giorgio e Cristina dormono con noi alla Taverna. Sembra che Cristina, il mattino dopo, stia bene anche se l’intenzione è quella di non scalare. In compenso è Ugo a riaccusare, oltre a tosse e raffreddore, il fastidioso dolore del giorno prima. Avevamo già deciso che in serata saremmo partiti per il ritorno. Tocca a me prendere la dolorosa ma giusta decisione di iniziare subito il nostro viaggio per Milano. Riusciamo a farlo verso le dieci, a dispetto della signora Maria che non ci mollava più e di Valentina che le dava corda. Dispiace a tutti di separarci da Giorgio e Cristina: le promesse di rivederci ci sono. Vedremo!
Dopo 15 ore, all’una di notte, varchiamo la soglia di casa: almeno Pussy ha finito di “soffrire”. Nuvola e Briciola dovranno aspettare le 11 del mattino dopo…
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Macchebbello. Sembrano le nostre liete avventure… 😉
Ugo vecchio leone non molla mai! 🙂