Elisabetta Pastorelli da Carnino

Elisabetta Pastorelli da Carnino
una piccola grande storia
di Paolo Castellino
(già pubblicato su Alpidoc n. 92, per gentile concessione)

Oggi vorrei parlarvi di Elisabetta; una piccola storia persa nella burrasca del tempo, una storia vera. In alta Valle Tanaro c’è un piccolo borgo ormai disabitato, Carnino, formato da due manciate di case, l’una posta un paio di centinaia di metri di distanza più a monte – Carnino Superiore -, l’altra abbarbicata poco più a valle – Carnino Inferiore.
Da qui dipartono alcuni sentieri, solitamente percorsi dagli escursionisti nei mesi estivi e autunnali e dagli scialpinisti in quelli invernali e primaverili. Uno di essi si snoda alle spalle delle antiche case, risale verso monte, oltrepassa una sorta di gola fino a immettersi e proseguire in una valletta via via più aperta che culmina al Passo delle Saline, posto poco sotto l’omonima cima. Proseguendo oltre il Passo, e trascurando le vette limitrofe, si svalica verso la Valle Ellero, in direzione di Rastello, Roccaforte e così via. Il sentiero si distende tra radure di rododendri e alti pascoli prativi. Le altitudini sono quelle tipiche delle Alpi Liguri: Carnino giace all’incirca a 1400 metri sul livello del mare, mentre il Passo delle Saline conta 2174 metri di quota.

L’odierno Carnino Superiore
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Il mio primo incontro con Elisabetta avvenne molti anni or sono, proprio mentre camminavo, diretto verso la Cima delle Saline, sul sentiero sopra descritto, in una di quelle giornate autunnali in cui le montagne sono vestite di una meravigliosa armonia di tinte dorate, il cielo è terso e limpido a perdita d’occhio e le foglie dei mirtilli attirano lo sguardo con la loro intensa colorazione rossastra. Il passo procedeva costante, il vento lambiva dolce i pendii ricoperti di corta erbetta facendola ondeggiare, come la mano di un padre che accarezza i capelli della figlioletta; gli scarponi leggeri si posavano sul sentiero quasi senza fare rumore, con movimento naturale.
Fu allora che la incontrai per la prima volta; non sapevo chi fosse, ma qualcosa di lei devo averlo respirato, lasciandolo penetrare in una parte profonda di me. Quel giorno, dopo una pausa di un paio di minuti, ripartii e proseguii per la mia strada; tuttavia, si sa, spesso un seme aspetta una goccia d’acqua per germogliare, e può attendere nascosto sotto terra per mesi prima di intraprendere il suo cammino verso il sole.

Elisabetta aveva qualcosa di attraente: un qualcosa ancora da svelare, di non ancora detto.
Negli anni che seguirono, capitò che il pensiero tornasse a lei, finché, sul finire dell’inverno scorso, mentre stavo scendendo con gli sci ai piedi verso Carnino Inferiore, di ritorno da un giro che aveva toccato anche la Cima delle Saline, la incontrai di nuovo. Medesimo il posto; ora però non c’era traccia di erba autunnale e foglie di mirtilli. Un candido strato ricopriva ogni cosa rendendo ancora più dolci i lineamenti tipici di quelle alture; le ombre di radi cespugli di ontano si allungavano sulla neve verso di lei, disegnando sottili ricami. Eravamo così vicini, ma allo stesso tempo così distanti… Di Elisabetta non conoscevo l’età, solo il cognome. Immaginavo fosse di Carnino, ma nemmeno di quello ero sicuro.

Per comprendere meglio la storia che sto per raccontare, occorre fare ancora un passo indietro con la memoria, un salto indietro nel tempo. Oggi come oggi vediamo la montagna principalmente come una passione, ognuno con proprie sfumature e propri sentimenti; una volta, invece, essa rappresentava la vita e, talora, anche la morte delle persone che vivevano aggrappate alle sue pendici. Era una vita difficile, “grama”. L’alimentazione era estremamente frugale. Si viveva di nulla; in inverno spesso si riduceva addirittura il numero dei pasti giornalieri. Il lavoro, al contrario, era massacrante e continuo; indispensabile per mantenere un equilibrio di per sé già abbastanza precario. Generalmente quasi tutte le famiglie possedevano un numero minimo di capi di bestiame (ovini, caprini, bovini). La stalla era il luogo dove in inverno anche i cristiani si rifugiavano più a lungo, in quanto gratuitamente riscaldato dagli animali. I prodotti che da questi ultimi derivavano, quali formaggi e burro, spesso non venivano nemmeno sfiorati dai palati dei montanari, bensì venduti o barattati con altri beni altrimenti non reperibili.
La montagna era fonte rudimentale di vita, il teatro in cui il destino muoveva le difficoltose esistenze di quelle creature durante il lento scorrere delle stagioni; si potrebbe parlare di un sostentamento costantemente precario, di usanze create con intelligenza e osservate con meticolosità. Carnino, come le borgate di altre valli, possedeva un mulino che sfruttava la forza del piccolo rio al fine di macinare i cereali, e un forno comune per la cottura del pane; questa, di solito, si effettuava una sola volta l’anno, dopodiché le pagnotte venivano lasciate essiccare per poi essere consumate nei mesi successivi. Le donne, prima di avere figli cui badare, nella stagione fredda talvolta provvedevano anche alla consegna e allo scambio delle merci, dirigendosi verso i centri abitati della bassa valle oppure verso altre vallate. I valichi della Valle Tanaro, quindi, erano percorsi abitualmente da persone in cammino (o di ritorno) verso le valli Ellero e Pesio. I principali pericoli, durante quei viaggi invernali, erano rappresentati dalle valanghe e dalle bufere. Non esistevano previsioni meteorologiche, tantomeno capi d’abbigliamento antivento e impermeabili così come li concepiamo oggi. Sarebbe sbagliato ogni confronto con situazioni odierne, anche se ambientate nelle stesse zone e sui medesimi colli.

La croce in memoria di Elisabetta pastorelli posta sul sentiero che collega Carnino con la Cima delle Saline. Foto: Paolo Castellino
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Ma torniamo a noi; la premessa, seppur apparentemente prolissa, era indispensabile per comprendere meglio il seguito. Elisabetta era lì, a pochi passi da me, eppure non avrei saputo dirne l’età, il colore dei capelli o degli occhi, l’espressione, la statura.
Era lì, proprio dinnanzi a me, ma, in quel mezzo metro, a separarci c’erano centotrentun anni. Avete letto bene. La donna era morta durante una tormenta a monte di Carnino, poco sopra quella gola che immette nel Vallone delle Saline, nel lontano 3 dicembre 1883. Anche l’anno è corretto e non frutto di un errore di battitura.
Eppure Elisabetta Pastorelli – questo il suo cognome – era in qualche modo presente. Sapevo che ormai si era accorta del mio sguardo, aveva capito che la stavo osservando: mi sentivo i suoi occhi addosso e non sarei più potuto andarmene facendo finta di nulla, se non a costo di tradirla e perdere ogni valore d’uomo. Probabilmente c’era ben poco da scoprire sulla sua vicenda; non era di certo un caso degno di Sherlock Holmes; vedendolo da un punto di vista oggettivo, si trattava di una donna deceduta nel corso di una tormenta di neve sulle alture non distanti da casa sua, per compimento del disegno del suo beffardo destino. Sul piano personale, però, mi sentivo – come dire – coinvolto e desideravo tentare di rintracciare tra le pagine di un vecchio registro qualche dettaglio in più rispetto alla frase scritta sulla targhetta affissa all’arrugginita croce metallica: “PASTORELLI ELISABETTA PERITA NELLA TORMENTA IL 3-12-1883”; alcune parole da strappare al buio del tempo per riportarle alla luce del sole, come se fossero state le ultime pronunciate da quella donna. Volevo cercare di conoscerne almeno la data di nascita ed eventualmente il motivo per cui si era trovata a passare per quei posti nel cuore dell’inverno. Le probabilità che fosse di Carnino, pur non essendo una certezza, sussistevano comunque, dal momento che Pastorelli era appunto un cognome tipico del luogo.
Ancora oggi, se con una brevissima passeggiata ci andasse di percorrere il sentiero che unisce Carnino Superiore all’Inferiore, alcune decine di metri sopra la stretta strada comunale asfaltata ci troveremmo a passare nei pressi di un minuscolo cimitero e, a lato del sentiero stesso, potremmo fermarci a osservare il monumento in pietra a ricordo dei caduti della Prima Grande Guerra: leggendo i nomi che la lapide riporta ci accorgeremmo di come undici su dodici abbiano esattamente quel cognome. Un’aquila di bronzo ad ali spiegate veglia su di loro.
Tuttavia, a nessuno di quegli sfortunati giovani fu dato di conoscere la “nostra” Elisabetta, in quanto soltanto uno di essi nacque prima del 3 dicembre 1883, ma con un anticipo di appena tre anni.
Di lei certamente avrebbe potuto raccontarci qualcosa colei che, dall’alto, osservò le sue azioni quotidiane, i suoi sorrisi e le sue lacrime; mi riferisco alla campana collocata nel campanile della Cappella di San Rocco a Carnino Inferiore; dati storici attestano come si tratti della “sorella” della campana più piccola delle due che si trovano sulla Parrocchiale della Madonna della Neve a Carnino Superiore, essendo state fuse assieme nel 1861 dallo stesso artigiano, tale Giacomo Semeria. Si dice anche che costui fosse un fonditore “ambulante” il quale dal suo paese, Andagna, in Valle Argentina, si recava a fondere le campane direttamente nel paese dove erano destinate. Si racconta pure che esistano ancora le tracce di quella fusione in una stalla del paese, ma su queste ultime informazioni non posso garantire di persona. La nostra testimone sarebbe dunque stata “cronologicamente” perfetta; purtroppo, però, non le era dato di riferirci nulla.

Carnino Superiore in una cartolina d’epoca
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Le uniche speranze potevano risiedere nei libri parrocchiali dell’epoca o, anche se più difficilmente, nei registri comunali. Fino all’anno 1947 Carnino fu frazione dell’ex Comune di Briga Marittima. Attualmente, insieme alle vicine Piaggia e Upega, è frazione del Comune di Briga Alta, angolo appartato della provincia di Cuneo che si protende verso il territorio ligure.
Il totale abbandono della borgata come dimora stabile si ebbe nel 1956, anche se una parte della popolazione continuò ancora per qualche tempo a salirvi ogni anno nel mese di giugno con gli armenti bovini. Una nuova storia, se così si può dire, ebbe inizio negli anni Sessanta del XX secolo, quando alcune famiglie iniziarono a ristrutturare alcune abitazioni, salvandole dal triste destino del crollo.
Oggi gran parte degli edifici sono stati resi abitabili, e sono curati e mantenuti in ottimo stato. Durante i mesi estivi si può contare anche su un minuscolo nucleo di popolazione stagionale. E tutto ciò è davvero una grande gioia, la stessa che mi invase l’ultima volta che passai di lì di ritorno da una gita, concedendomi anche un tratto di gincana “estrema”, sci ai piedi, lungo gli stretti vicoletti tra le case, quel giorno perfettamente innevati.
Quelle antiche dimore sembravano osservarmi; le piccole finestre però erano ancora chiuse in attesa di giorni più caldi.
Un’altra curiosità che forse ci consente di addentrarci più a fondo in quell’angolo di mondo di molti anni fa è legata ai pascoli; il sostentamento, come si può intuire da quanto raccontato in precedenza, era basato sulle attività agro-pastorali.
Il luogo centrale della transumanza ovina e dell’alpeggio bovino erano le Selle di Carnino, a circa 1900 metri di altitudine. Proprio in quella zona, a “cristiano conforto delle anime”, sorge da tempi immemorabili l’antichissima chiesetta alpina dedicata a sant’Erim, protettore dei pastori, la quale, recentemente ristrutturata, ancora veglia silente sulla Valle dei Maestri. Lassù, tra le dolci dune erbose alle pendici del Marguareis (la vetta maggiore delle Alpi Liguri con i suoi 2651 metri di altitudine), numerose famiglie di pastori con le loro greggi convenivano in attesa che si procedesse all’assegnazione dei pascoli secondo gli usi e le leggi di quel tempo.

Tutto ciò ci può aiutare a comprendere meglio l’epoca in cui visse Elisabetta; chiudendo gli occhi, con un pizzico d’immaginazione non sarà così difficile catapultarci proprio in quel lembo dell’alta Valle Tanaro, tra quelle genti indaffarate nelle loro incombenze quotidiane.
Con un solo balzo ora siamo lassù anche noi, camminiamo in mezzo a loro e le incrociamo tra le strette viuzze racchiuse tra le case; i nostri occhi, inconsapevolmente tesi all’individuazione della nostra donna, ne osservano i visi. Chi sarà Elisabetta in mezzo a tutto quel via vai? Quale di quei volti apparterrà a lei? E così ci attardiamo, intenti a trovare una risposta, mentre i passi scandiscono il moto inarrestabile e operoso di quella piccola comunità, fino a quando, al calar del sole, qualche lanterna fioca si farà spazio nel buio della notte e quei camminamenti tra le case gradualmente si faranno vuoti, lasciandosi percorrere solo più dalla brezza notturna che, di tanto in tanto, trasporterà un delicato odore di stalla e di letame. Il chiù di una civetta appollaiata su qualche ramo darà il ben tornato alle stelle che brilleranno alte sopra la dirimpettaia Cresta del Ferà.

Carnino Superiore con il campanile della Parrocchiale dedicata alla Madonna della Neve in una foto recente
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Tutto sarebbe più facile se non fosse così complicato trovare il modo di accedere a dei vecchi registri, ammesso che questi esistano ancora. Molti abitanti non rispondono sentendo bussare alla porta.
Che il tempo ci abbia dato partita persa? Potrebbe anche essere, potrebbe, ma teniamo per noi almeno un condizionale. Quello che è certo è che Elisabetta non si trovava su quel sentiero per fare una scampagnata, ma per adempiere al dovere quotidiano.
Affidiamoci però al ragionamento e cerchiamo di guadagnare qualche altro metro di luce nello sconfinato buio pesto dell’oblio del tempo.
Portando il calendario al 3 dicembre, possiamo certamente immaginare scenari diversi su per quel vallone: a quella data, in alcuni anni al suolo c’erano già metri di neve, in altri c’era ancora l’erba autunnale, dalle tonalità color tabacco.
Le annate immediatamente prossime a quel 1883, secondo fonti non proprio locali ma comunque riferite al Piemonte e al Nord Italia, denotano inverni particolarmente nevosi; le stesse segnalano ingenti nevicate in Piemonte, per esempio, nel febbraio 1875, nel gennaio 1876, nell’inverno 1882-1883 e nel febbraio 1888.

L’ipotesi più plausibile, quindi, è che Elisabetta su quel sentiero stesse facendo ritorno da un “viaggio” che per qualche ragione (con buone probabilità, uno scambio di merce con gente dell’altra vallata) l’aveva portata a valicare il Passo delle Saline, e che, sulla via del ritorno, sia stata colta dal maltempo.
Perché non è pensabile che fosse in fase di andata? Beh, possiamo essere relativamente tranquilli nell’affermare che una tormenta di intensità tale da minacciare la vita di una persona non l’avrebbe certamente spinta a intraprendere qualsivoglia viaggio per addentrarsi tra incognite inaffrontabili. O, per lo meno, se l’avesse sorpresa quando ancora era vicina a Carnino, avrebbe senz’altro avuto le energie per fare dietro-front.
Chi, almeno una volta, ha avuto modo di trovarsi in montagna avvolto dal turbinare del vento che, gelido e arrogante, trasporta copiosa la neve sferzando il viso e facendo dolere gli occhi nonostante s’indossino occhiali conformati (di cui Elisabetta certo non disponeva), con visibilità ridotta letteralmente a zero, sicuramente è capace di comprendere meglio la situazione – le difficoltà fisiche e il rischio di crollo psicologico.
Conoscendo bene la zona, è cosa nota che, oltrepassato Pian Marchisio, in Valle Ellero, fino a Carnino non si trovano ricoveri di alcun genere; non ci sono boschi, né grotte di superficie, tantomeno baite di pastori o costruzioni simili in cui, se colti dalla bufera, sia possibile ripararsi alla ricerca di tregua.
E pertanto verosimile che la tormenta, per utilizzare il termine riportato sulla lapide, l’abbia raggiunta ben prima, e che ella, in cuor suo, abbia ritenuto in principio di poterla affrontare. Voglio credere che quella povera creatura, facendosi strada tra l’infuriare degli elementi, stesse già rivolgendo i pensieri al tepore di casa, convinta di potervi fare ritorno di lì a poco.
A un passo normale, dalla croce in sua memoria all’abitato di Carnino si impiega su per giù una mezzoretta.

La Cappella di Sant’Erim alle Selle di Carnino, nella Valle dei Maestri. Foto: Enrica Raviola
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Una volta svalicato verso la Valle Tanaro, la fiammella della speranza le deve essersi fatta più vigorosa in petto incitandola, tra difficoltà sempre crescenti, a percorrere in discesa, metro dopo metro, quel vallone che conosceva come le sue tasche.
Qualcosa però deve essere andato storto. Immagino che l’intensità della tempesta abbia finito per spegnere del tutto quella speranza, via via ridotta a flebile lumicino. Che, per ironia di una maledetta e meschina sorte, Elisabetta abbia esaurito ogni energia proprio a poche decine di minuti dalla soglia di casa.
Che nel rumore di quel vento incessante il suo respiro sia divenuto sempre più debole, fino a farsi rapire definitivamente da quella furia e perdersi in essa.
Che il suo cuore si sia arreso, stanco di contrarsi ed espandersi, e il suo corpo, dalle dolci fattezze femminili, si sia adagiato al suolo, in posizione quasi rannicchiata.
Che le sue ciglia si siano abbassate a coprire gli occhi doloranti, da troppe ore sferzati dai cristalli gelati che il turbine scaraventava loro contro da ogni dove.
Che le palpebre, in un ultimo movimento stanco, siano calate come ancora oggi, ogni giorno, il buio profondo delle notti senza luna scende sui vecchi muri di Carnino e sulla Cappella di San Rocco.

Avrei voluto saperne di più, ascoltare altro dalla sua voce, invece mi resta solo quel suo sguardo durante il nostro incontro. Ma qualcosa ora ci lega. E forse, un giorno, ci incontreremo in una pacata valle ad altitudini inaccessibili all’uomo e mi racconterà le tessere mancanti di questa sua triste storia e anche quelli, spero meno tristi, della sua breve vita terrena.

Sono ormai trascorsi un paio di mesi da quando, in un giorno qualunque, scrissi la prima parte di questo racconto e, ora, mi ritrovo a mettere mano alla storia di Elisabetta dovendo correggere un po’ la mira di quelle che, al tempo, erano state soltanto ipotesi. Nel frattempo, infatti, ho preso in prestito da una biblioteca due vecchi volumi su Carnino, introvabili ormai da anni. Inoltre, miracolo delle comunicazioni telematiche, sono riuscito a rintracciare un volumetto dedicato a questo specifico episodio a firma di Luciano Frassoni (che ringrazio per avermene fatto avere una scansione, in quanto irreperibile pure esso; il titolo della pubblicazione, da cui ho tratto preziose informazioni, è L’eroica bugia di mamma Elisabetta).
Dunque qualcuno mi aveva preceduto… ma poco importa; quando, dopo essere passato l’ultima volta davanti alla croce di Elisabetta, avvertii il desiderio (o il dovere?) di rimettere insieme i tasselli della storia che giace alla sua stessa ombra, ignoravo completamente che di ciò si fosse occupato qualcun altro.
Torniamo quindi a Carnino. Manca meno di un ventennio al termine dell’Ottocento; oltre i tetti in paglia di segale, flebili linee di fumo grigiastro si alzano per andare a dissolversi nel cielo d’inizio dicembre. In una di quelle semplici dimore abita Elisabetta insieme col marito, tal Bartolomeo, e i due figlioletti Enrico e Gianbattista, di circa 14 e 15 anni.
Nei primi tempi del matrimonio, Elisabetta e il suo sposo avevano – cosa abbastanza usuale all’epoca – trascorso alcuni inverni in Provenza, pare a raccogliere radiche da rivendere poi al mercato delle pipe nella città di Sainte-Maxime, dove erano nati i loro due figli. Grazie anche a quei sacrifici la famigliola era riuscita a mettere da parte i risparmi sufficienti ad acquistare un piccolo bosco di castagni in Valle Ellero, presso l’abitato di Prea. Quest’ultimo, tutt’oggi, è un paesino molto caratteristico, dove ogni anno, in alcune serate del periodo natalizio, prende vita uno spettacolare presepe vivente. Prea, con la sua struttura e le sue peculiarità, pare essere nato per nessun altro scopo se non per quello.
All’epoca della nostra storia, essendo ben lontana l’età delle auto e delle strade asfaltate, per raggiungere la zona di Prea da Carnino era appunto necessario risalire il Vallone delle Saline fino al passo omonimo, svalicare verso la Valle Ellero, discendervi per Pian Marchisio (zona dove ora si trova il Rifugio Mondovì Havis de Giorgio) e proseguire oltre il cosiddetto Ponte Murato. Il tutto richiedeva un tempo, a piedi, indicativamente superiore alle cinque ore.
Correva dunque l’anno 1883; erano i primi giorni di dicembre e la neve non era ancora venuta a inghiottire l’autunno. Nel seccatoio presso il bosco in Valle Ellero c’era ancora una discreta quantità di preziose castagne in via di essiccazione. Fu così che, uno di quei giorni, Elisabetta, con i due figli ormai già fattisi ometti, intraprese il cammino verso Prea.

Dalla croce di vetta della Cima delle Saline, panorama verso la Valle Ellero, la pianura cuneese e, all’orizzonte, la catena alpina che si estende dal Monviso al Monte Rosa. Foto: Paolo Castellino

Conosco molto bene quelle montagne e non mi è difficile immaginare lo spettacolo che rapì gli occhi dei tre viandanti quando valicarono il Passo delle Saline; la visuale si apre come un grandangolo sulla pianura, fino a fermarsi, all’orizzonte, sulle pendici del Monte Rosa e del Cervino. E, mentre si rimane incantati da tanta bellezza, ci si trova immersi in un lenzuolo dolcemente ondulato, dalle tinte tipiche dell’oro invecchiato, ma molto più accese e vive, grazie alla fantasia autunnale di colori di cui questi luoghi si vestono.
I tre, dopo le dovute ore di cammino, raggiunsero il seccatoio e vi rimasero un paio di giorni, provvedendo ai lavoretti necessari, dopodiché riempirono alcuni sacchi di castagne, vi legarono intorno la corda che, contemporaneamente, serviva a chiuderli e fungeva da spallaccio per il trasporto, quindi si ridistesero sui loro giacigli di fieno, in attesa dell’alba successiva, in cui sarebbero partiti per rincasare in Valle Tanaro.
Il cielo non era più quello dei due giorni precedenti; il tempo si era guastato e chi spesso lo osserva per interpretarlo sa riconoscere quando è in arrivo una perturbazione. Le cime inghiottite da nuvoloni grigiastri e densi possono essere un quadro pittoresco se lo si guarda da dietro una finestra, riscaldati dal fuoco della stufa. Cosa ben diversa è sapere di doversi addentrare fra esse; capita anche oggi, in montagna, durante le gite, o quando, la sera, in rifugio, si è in pensiero per la salita del giorno successivo. Solo che in questo caso c’è di mezzo lo svago o la passione, mentre allora si trattava di necessità di vita.
Scrutare il brutto tempo sapendo di doverlo affrontare solleva nere nuvole anche nel cuore e nell’animo. Elisabetta quella notte quasi non dormì, la mente contesa tra un “ma forse” e un “ma no”, occupata da fantasmi, inquietudine e tristi presagi. Venne il nuovo giorno e non sembrava promettere nulla di buono; presi a spalle i sacchi, partirono alla volta del Passo delle Saline. Dopo non molto lo sferzare del vento e i nuvoloni iniziarono a far mulinare nell’aria fiocchi di neve che, immagino, in un primo momento, furono visti con gioia dai due ometti. Qual è infatti il bambino non saluta felice la prima neve? I tre raggiunsero il passo sotto una nevicata costante; già i piedi sprofondavano nel manto bianco. L’aver svalicato verso la Valle Tanaro, cioè verso casa, doveva in qualche modo aver rincuorato Elisabetta, i cui pensieri certamente restavano fissi sul destino dei due figlioletti per poi farsi trasportare dal turbine fino giù a Carnino, alla sua dimora, al suo uomo.
Passo dopo passo la stanchezza erodeva le forze della donna; la preoccupazione faceva il resto. Immagino che Elisabetta fosse già caduta nella neve sotto il peso del sacco per poi rialzarsi subito in modo da non farsi scorgere da Enrico e Gianbattista. Sono i primi sintomi di quella stanchezza che, se non incontra riposo, porta allo sfinimento, al crollo delle forze. A un punto di non ritorno. Giunta poco sopra Carnino, quando ormai il tragitto verso la salvezza era breve e i due ometti avrebbero potuto raggiungere da soli casa, la donna, con quell’istinto primordiale che pilota le azioni delle mamme, inventò una bugia. Disse loro di proseguire, di non aspettarla; raccontò di avere smarrito la borraccia e di volersi riposare un attimo prima di tornare qualche passo indietro per recuperarla.
Ora, non si stenterà a capire quanto questa fosse solo una scusa, una bugia “eroica”, un modo per dire ai figli di scendere nel più breve tempo possibile senza stare ad aspettare lei; proprio lei che, ora, stava pagando anche la stanchezza per non aver dormito la notte precedente, impensierita e tormentata da quel triste presagio che ora si stava avverando.
Ma la rincuorava il fatto che i figli sarebbero arrivati a casa sani e salvi; a quel punto, qualcuno avrebbe suonato le campane per chiamare a raccolta la gente, e i paesani sarebbero certamente saliti in suo soccorso. Mentre gli amati figli sarebbero stati già al sicuro e al caldo.
Così andarono le cose. I figli sopravvissero a quella bufera e a quella vicenda, destinata però a imprimere nei loro cuori una ferita la cui cicatrice il tempo non avrebbe potuto guarire.
E qui, la realtà coincide con le ipotesi che avevo fatto nella prima parte di questo triste racconto. Elisabetta cadde per non rialzarsi più. La neve iniziò ad ammucchiarsi, quasi dolcemente, attorno al suo giovane corpo. Il finale già lo si conosce. E questa è una storia vera, una piccola grande storia di umanità. La storia di una mamma.
Nel luogo in cui Elisabetta cadde, sorge quella croce, alta meno di un metro, umile; sono passato molte volte di lì e posso dire che quasi sempre l’ho vista adorna di fiori, a volte recenti, a volte secchi di mesi, spesso raccolti nei dintorni. Sono convinto che nella maggioranza dei casi siano stati lasciati da passanti che nulla sapevano di Elisabetta e della sua tragica storia. Forse il suo spirito vaga ancora per quella valle, ora sereno e sorridente, e talvolta, a nostra insaputa, sussurra qualche parola al cuore del viandante.
Negli anni che seguirono Bartolomeo e i figli si trasferirono in Valle Ellero, dove si dedicarono al taglio della legna e, si dice, misero su una piccola falegnameria.
Come sempre, su quelle montagne le stagioni fanno il proprio corso e, ogni anno, giunge il giorno in cui la neve va a ricoprire le tinte dorate dell’erba autunnale. E il vento è il vivo respiro che libero si muove per quei sentieri e quegli antichi pascoli.

E ora che questa piccola grande storia è stata rispolverata e riportata alla luce del sole, mi sento più leggero, con addosso la sensazione che si prova dopo aver adempiuto a un qualcosa che ci si sentiva in dovere di fare. Arrivederci Elisabetta.

NOTA (8 settembre 2017). Grazie ai bis-nipoti di Elisabetta, Marilena e Giovanni Pastorelli, siamo in grado di pubblicare qui, in pdf, la storia della famiglia Pastorelli.

L’odierno Carnino Superiore
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Paolo Castellino (10 febbraio 1981) abita in un paesino a ridosso delle Langhe e opera nel settore della salute e della sicurezza sul lavoro. Volontario da oltre quindici anni sulle ambulanze del soccorso sanitario, frequenta la montagna un po’ in tutte le sue discipline, inseguendo un personale desiderio dì scoperta che lo porta a muoversi alla ricerca di angoli, linee e valloni sempre nuovi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Elisabetta Pastorelli da Carnino ultima modifica: 2016-07-30T05:49:46+02:00 da GognaBlog

2 pensieri su “Elisabetta Pastorelli da Carnino”

  1. 2
    Alessandro Gogna says:

    Grazie ai bis-nipoti di Elisabetta, Marilena e Giovanni Pastorelli, abbiamo aggiunto al fondo dell’articolo e linkata in pdf, la storia della famiglia Pastorelli.

  2. 1
    Giorgio says:

    Commovente! Conosco storie simili; la montagna è uguale ovunque. Bene che ci siano persone come Paolo Castellino che hanno la delicatezza e la capacità di raccontarle.
    http://www.latanadellorso.altervista.org/portatrici/Crous%20di%20Maria.html

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