Emergenze e diritti fondamentali

Emergenze e diritti fondamentali
di Carlo Blengino
pubblicato su ilpost.it il 19 marzo 2020

Salus rei publicae suprema lex esto è una famosa massima ciceroniana (presente anche nello stemma dell’esercito italiano) ripresa dal Machiavelli nei suoi Discorsi per dir che quando è in gioco la salvezza dello Stato, “non vi debba cadere alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di pietoso né di crudele, né di laudabile né di ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che li salvi la vita”.

La massima parrebbe valere ancora oggi posto che stiamo assistendo ad inedite torsioni del diritto e del sistema costituzionale e in molti iniziano a chiedersi, del tutto legittimamente, quali siano i limiti ed i confini ordinamentali di una situazione come quella che stiamo vivendo.

Chi ha in Italia il potere in situazioni di emergenza?
Può il Presidente del Consiglio sovvertire le fonti del diritto ed emanare al posto del Parlamento provvedimenti aventi forza di legge – i noti DPCM – che limitano pesantemente molteplici diritti garantiti dalla Costituzione?

E se sì, davvero tutti i diritti possono esser negati o compressi in emergenza o ci sono dei limiti? Fino a che punto, ad esempio, l’emergenza sanitaria potrebbe giustificare ingerenze massive nella vita privata, ad esempio tracciando ogni movimento e ogni contatto tra le persone con l’uso di tecnologie digitali come da più parti invocato?

Le risposte non sono semplici ma qualche considerazione può esser fatta, giusto per orientarsi.

La nostra Costituzione non aiuta perché non prevede e non regola lo stato di emergenza. A differenza di altre carte costituzionali, i nostri costituenti ritennero pericoloso inserire clausole d’emergenza che potessero in casi necessariamente imprevedibili – se un’emergenza fosse prevedibile non sarebbe più emergenza – sovvertire l’ordine costituzionale conferendo pieni poteri a questo o quell’organo costituzionale o legittimare limitazioni o addirittura la sospensione dei diritti dei cittadini.
Non fu una dimenticanza ma fu una scelta dibattuta in seno alla seconda sottocommissione, certamente influenzata dal disastro dell’art.48 della Costituzione di Weimar che consentì formalmente la nascita della dittatura nazista.

La cosa più vicina allo stato di emergenza era per i padri costituenti, 70 anni fa, il ricorso al decreto legge: per l’art.77 della Costituzione in casi straordinari di necessità ed urgenza e per il tempo limitato di 60 giorni, il Governo poteva appropriarsi del potere legislativo altrimenti riservato al Parlamento e dettare regole emergenziali aventi forza di legge.
La norma come noto ha perso da tempo l’originario carattere di eccezionalità ed i decreti legge sono ormai una (pessima) prassi utilizzata da tutti i Governi per far passare con corsia privilegiata leggi prive di qualsivoglia requisito di straordinarietà, necessità o urgenza.

L’attuale organizzazione del potere nell’emergenza che viviamo deriva però proprio dall’utilizzo di tale strumento costituzionale, per una volta correttamente usato in piena aderenza allo spirito straordinario originariamente previsto.

Il potere del Presidente del Consiglio, che con i ben noti DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) sta travolgendo le nostre vite, poggia su di un decreto legge, il D.L. n°6 del 26 febbraio 2020 , che di fatto delega allo stesso Presidente del Consiglio (di concerto con i vari ministri di volta in volta interessati), l’attuazione di una serie di misure restrittive volte a contrastare la diffusione dell’epidemia e all’art.2 delega genericamente “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”.

Il Decreto Legge è stato approvato e convertito dal Parlamento il 26 febbraio ed è oggi legge ordinaria. In sede di conversione purtroppo nessuno in Parlamento si è posto il problema di quanto ampi fossero i poteri delegati al Presidente del Consiglio, quali limiti temporali avessero e fino a che punto l’emergenza potesse giustificare la compressione dei diritti fondamentali dei cittadini.

Ora, mano a mano che i provvedimenti si fanno più incisivi e che le misure dettate nell’emergenza si prolungano, la questione diviene però stringente.

Qual è il perimetro di liceità di provvedimenti emergenziali che sospendono e limitano diritti e libertà fondamentali garantiti in Costituzione quali la libertà di movimento e di riunione (art.16-17 Cost.), il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma anche associata (art.19 Cost), il diritto alla scuola (art.34 Cost) o alla libertà di impresa (art.41 Cost)?
Quali limiti incontrerebbe il ricorso a massive tecnologie in grado di interferire nella vita privata dei cittadini con trattamenti massivi di dati personali per il contenimento del virus?

Se la risposta non si trova né in Costituzione né nella legge ordinaria, può esser rinvenuta nei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia che contengono espresse clausole di emergenza: mi riferisco alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e al Patto per i Diritti Civili e Politici (Patto) approvato dalle Nazioni Unite nel 1966.

Entrambe le convenzioni, ratificate dall’Italia, nel vincolare gli Stati aderenti al rispetto dei diritti umani fondamentali in esse puntualmente elencati prevedono espressamente all’art. 15 CEDU e 4 del Patto una possibilità di deroga in caso di emergenza: a determinate condizioni e con chiari limiti. Le due norme sono molto simili:

CEDU
ARTICOLO 15 Deroga in caso di stato d’urgenza
1. In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale.
2. La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2, salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3, 4 § 1 e 7.
3. Ogni Alta Parte contraente che eserciti tale diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario generale del Consiglio d’Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate. Deve ugualmente informare il Segretario generale del Consiglio d’Europa della data in cui queste misure cessano d’essere in vigore e in cui le disposizioni della Convenzione riacquistano piena applicazione

Patto dei Diritti Civili e Politici
Art. 4
1. In caso di pericolo pubblico eccezionale, che minacci l’esistenza della nazione e venga proclamato con atto ufficiale, gli Stati parti del presente Patto possono prendere misure le quali deroghino agli obblighi imposti dal presente Patto, nei limiti in cui la situazione strettamente lo esiga, e purché tali misure non siano incompatibili con gli altri obblighi imposti agli Stati medesimi dal diritto internazionale e non comportino una discriminazione fondata unicamente sulla razza, sul colore, sul sesso, sulla lingua, sulla religione o sull’origine sociale.
2. La suddetta disposizione non autorizza alcuna deroga agli articoli 6, 7, 8 (par. 1 e 2), 11, 15, 16 e 18.
3. Ogni Stato parte del presente Patto che si avvalga del diritto di deroga deve informare immediatamente, tramite il Segretario generale delle Nazioni Unite, gli altri Stati parti del presente Patto sia delle disposizioni alle quali ha derogato sia dei motivi che hanno provocato la deroga. Una nuova comunicazione deve essere fatta, per lo stesso tramite, alla data in cui la deroga medesima viene fatta cessare.

Dalle due norme possono trarsi alcune considerazioni importanti:

1) la temporaneità delle misure è elemento essenziale in entrambe le convenzioni unitamente al principio di stretta necessità e proporzionalità. L’art. 4 del Patto richiede poi l’ulteriore importante limite che le misure non comportino una discriminazione “fondata unicamente sulla razza, sul colore, sul sesso, sulla lingua, sulla religione o sull’origine sociale”. Per esempio non sarebbe ammissibile isolare tipo i cinesi solo perché cinesi.

2) in entrambe le convenzioni vi sono alcuni diritti “incomprimibili”, che nessuna emergenza potrà limitare. Le eccezioni all’eccezione sono un po’ diverse nelle due convenzioni.
Per l’art.15 CEDU vi sono solo quattro diritti: diritto alla vita (art.2), divieto di tortura (art.3), divieto di riduzione in schiavitù (art.4 par. 1) ed il principio nullum crimen sine lege (art.7). A questi diritti si aggiungono quelli contemplati da due Protocolli allegati successivamente, e precisamente il principio del ne bis in idem (art.4 del Protocollo n. 7) per cui nessuno neanche in emergenza può esser punito due volte per lo stesso fatto e quello relativo all’abolizione della pena di morte (Protocollo 621). L’elenco dei diritti di cui è vietata ogni deroga per la CEDU si conclude qui.
Più lungo è l’elenco dei diritti inderogabili offerto dall’art.4 par. 2 del Patto.
Oltre a quelli contemplati anche dalla CEDU, vi sono il diritto dell’individuo al riconoscimento della sua personalità giuridica (art.16 Patto), il divieto di imprigionamento per motivi contrattuali (art.11 Patto) e il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza, di religione (artt.18 Patto).

3) in entrambe le convenzioni è prevista una procedura di notifica della compressione dei diritti dovuta all’eccezionalità e soprattutto una verifica della cessazione della stessa che garantisca la fine della deroga e la piena ri-espansione dei diritti.

Alla luce di questi obblighi che vincolano tutti gli Stati aderenti, Italia compresa (per la verità la Francia espresse riserva di ratifica proprio sull’art.15 della CEDU per la prevalenza della clausola di emergenza prevista nella loro Costituzione), forse qualche risposta alle varie domande può esser data.

La limitazione dei diritti che tutti noi stiamo subendo è ad oggi giustificata dalla situazione di emergenza e non attinge alcuno dei diritti incomprimibili previsti dalle convenzioni internazionali.

Manca un termine nelle singole misure restrittive adottate, che potrebbe forse ricavarsi dalla dichiarazione di emergenza sanitaria deliberata ai sensi del Codice della Protezione Civile il 31 gennaio 2020 dal Consiglio dei Ministri che prevede 6 mesi da tale data per la gestione dell’emergenza. E’ però uno dei punti delicati e carenti nella legge delega del Parlamento che contrasta con gli obblighi internazionali.

Quanto alla complessa problematica di possibili ulteriori interventi volti a monitorare e tracciare la popolazione tramite tecnologie digitali di cui molto si dibatte mi limiterei a due considerazioni, giusto per bilanciare le legittime preoccupazioni di chi ben comprende i rischi di una sorveglianza di massa legata alle tracce digitali della nostra vita e chi altrettanto legittimamente si chiede per quale ragione la trasparenza ai limiti dello stolkeraggio che già subiamo ordinariamente per finalità di marketing non dovrebbe esser utilizzata per salvarci la vita.

L’utilizzo di metadati telefonici e di geolocalizzazione legati ai nostri smartphone (e ai nostri oggetti connessi), già presenti in molteplici banche dati di operatori di telefonia e di servizi internet va ad impattare su due diritti fondamentali previsti non dalla nostra datata Costituzione (ancora una volta poco utile) ma in diversi trattati internazionali: il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art.8 CEDU, 17 Patto e 7 Carta dei Diritti Fondamentali UE) ed il diritto alla protezione dei dati personali previsto solo dalla art.8 della Carta dei Diritti Fondamentali UE.

Nessuno di questi diritti è incomprimibile secondo le clausole d’emergenza e può dunque esser limitato in situazioni di emergenza. La cosa ha un senso: se posso comprimere e sospendere la libertà di movimento fisico per la sicurezza e la salute della collettività sarebbe assurdo impedire l’utilizzo di dati personali per monitorare e tracciare quel movimento in situazioni di pericolo immediato e concreto. Lo stesso GDPR prevede la liceità del trattamento quando si tratta si salvare vite umane.

Il problema vero è che il mondo digitale e l’infosfera che contiene i nostri corpi digitali ha dinamiche complesse e difficilmente gestibili: troppi attori, troppe fonti “sporche” ed imprecise, una costante duplicazione delle informazioni con una persistenza dei dati difficilmente controllabile ed in ultimo una fisiologica fragilità dei software e della rete rendono ogni intervento sui diritti digitali assai più rischioso di quanto avvenga nel mondo fisico.

Nei paesi autoritari, là dove i governi già hanno pieno accesso alle vite digitali dei loro cittadini, un intervento di contact tracing è più facile: è come costruire una autostrada in una noiosa pianura piuttosto che una strada tra le splendide montagne costituite dai diritti fondamentali dei paesi democratici.

Non è che non si può fare nell’emergenza, è che bisogna farlo diversamente, con più cautele.

Bisogna, per addentrarsi nella selva dei nostri dati, avere competenze tecnologiche e grande cultura giuridica: non basta l’una e non basta l’altra.
Come giurista direi che si può fare; come conoscitore delle dinamiche della rete direi che è molto rischioso; come tecnico informatico direi che non ho la più pallida idea di come si potrebbe fare senza rischiare errori clamorosi oggi e disastri irreparabili domani.
Per un’idea della complessità rimando al pezzo di Bruno Saetta su ValigiaBlu che condivido quanto alle preoccupazioni finali.

Molto si può fare con la tecnologia ma occorre vigilare, e su questo punto un’ultima annotazione mi pare opportuna.

La nostra costituzione segna il tempo e dopo 70 anni di onesto lavoro mostra tutti i suoi limiti. Mi pare però che dalla stessa possa trarsi un concetto importante in questo tempo difficile: per i padri costituenti era il Parlamento l’organo centrale di garanzia che deve sempre sovrintendere la vita della Repubblica, anche nell’emergenza.
Come osservato correttamente da Carlo Melzi D’Eril e Giulio Vigevani è lì che devono trovare composizione le inedite istanze di tutela di questi giorni complicati.

Sebbene sia comprensibile la preoccupazione dei parlamentari sul rischio contagio in aula, credo che l’ultima cosa da fare in questo momento sia “chiudere” o anche solo limitare il Parlamento per ragioni sanitarie. Sarebbe come chiudere gli ospedali in un momento in cui c’è un rischio per la “salus rei pubblicae”.
Si mettano le tute da astronauta, votino elettronicamente, facciano ciò che vogliono, ma come i medici in ospedale, vigilino e difendano lo stato di diritto e la salute della nostra democrazia. In questo momento e nell’incerto futuro che ci attende è fondamentale. In Parlamento.

Il monitoraggio del coronavirus rappresenta un pericolo per le libertà civili
di John Thornhill
(pubblicato su ft.com il 23 marzo 2020)

I braccialetti di monitoraggio che le autorità di Hong Kong distribuiscono a tutti coloro che arrivano dall’estero per assicurarsi che osservino una quarantena di 14 giorni evidenziano le misure fantasiose che alcuni governi stanno adottando per affrontare la pandemia di coronavirus.

I braccialetti leggeri portano un codice QR (1) che deve essere associato a un’app per smartphone. La forza dei segnali di comunicazione circostanti – come WiFi e Bluetooth – può aiutare a determinare se chi lo indossa osserva o meno l’autoisolamento. La mossa è una precauzione ragionevole per contrastare la pandemia di coronavirus e proteggere la popolazione. Ma non è difficile immaginare come quella stessa tecnologia possa essere utilizzata per scopi molto diversi.

Supponiamo, per amor di discussione, che le autorità di Hong Kong abbiano costretto tutti i residenti a indossare tali braccialetti. Ciò potrebbe aiutare le autorità mediche a rintracciare coloro che erano stati in contatto con una persona infetta, come hanno fatto con successo in Corea del Sud, Taiwan e Singapore. Ma potrebbe anche consentire loro di identificare tutti coloro che si uniscono alle proteste antigovernative che hanno reso turbolenta Hong Kong negli ultimi mesi.

Gli strumenti tecnologici possono essere di grande utilità per aiutare a combattere questa pandemia, ma solo se non se ne abusa. Nelle società democratiche, almeno, l’obiettivo principale del governo dovrebbe essere quello di persuadere piuttosto che costringere i suoi cittadini. Una ulteriore erosione di fiducia della società non dovrebbe essere risultato involontario di questa crisi sanitaria.

Quella lezione si applica più ampiamente anche alla legislazione di emergenza. Prendi il disegno di legge del coronavirus preso in considerazione dal parlamento britannico. Sebbene il governo sia stato criticato per non essere abbastanza interventista, questo disegno di legge gli conferirà straordinari nuovi poteri per combattere la pandemia, dal vietare le riunioni pubbliche alla chiusura degli aeroporti.

Il diritto internazionale considera l’accesso all’assistenza sanitaria un diritto umano fondamentale e accetta che restrizioni urgenti di altri diritti possano essere giustificate in caso di emergenza. Pochi non sarebbero d’accordo, ma è una questione di livelli.

In Gran Bretagna, la commissione parlamentare mista per i diritti umani ha messo in evidenza diverse aree in cui il progetto di legge minaccia di sospendere o limitare i diritti fondamentali,  incluso il diritto di incontrare, viaggiare, andare a scuola o al lavoro e visitare parenti malati in ospedale o in prigione. Perfino la Police Federation ha messo in dubbio la correttezza dei nuovi poteri per arrestare chiunque sia sospettato di essere contagioso. Ciò rischia di trasformare i pazienti in prigionieri.

Ci sono altre due preoccupazioni principali sulla legislazione britannica. In primo luogo, la clausola di decadenza è troppo vaga. Quando si parla di legislazione sulla sicurezza, poche leggi si sono dimostrate permanenti come quelle temporanee. Ad esempio, le misure temporanee per far fronte alla minaccia dell’IRA nel 1939 rimasero in vigore per decenni.

Il Parlamento deve insistere per ripristinare pienamente i diritti conquistati duramente dei cittadini, una volta superata questa particolare crisi. “Abbiamo assoluto bisogno di un punto fermo, non deve durare più di 12 mesi”, ha detto David Davis, ex ministro Tory della Brexit.

La seconda preoccupazione è il pericolo di stallo della missione. Le misure adottate per uno scopo finiscono spesso per essere utilizzate per altri, come abbiamo visto all’indomani dell’11 settembre. Nel 2008, il governo britannico ha utilizzato i poteri antiterrorismo per aiutare a recuperare presso le banche islandesi in fallimento i crediti vantati dagli investitori britannici.

Tali preoccupazioni diventano più acute quando si entra in un mondo di dati biometrici pervasivi. In una lettera aperta, alcuni dei maggiori esperti britannici di banca dati hanno già avvertito del pericolo che il servizio sanitario nazionale si precipita a introdurre app di tracciamento dei dati che violano i diritti degli utenti. “Questi sono tempi di test, che però non richiedono nuove tecnologie non testate”, hanno scritto.

Sylvie Delacroix, professoressa di diritto presso l’Università di Birmingham, afferma che esiste un chiaro rischio che la crisi sanitaria estenda l’uso di tecnologie intrusive di sorveglianza. Ma forse il rischio maggiore è che la fiducia del pubblico sarà così erosa dalle misure avventate prese oggi che renderà più difficile implementare tecnologie sicure e vantaggiose domani.

La mia preoccupazione maggiore è che stiamo andando in questo vicolo cieco“, afferma la Delacroix. “Non sappiamo come verranno utilizzati tali dati o chi sorveglierà ciò. Ci viene richiesta una fiducia enorme che non abbiamo motivo di dare“.

Sostiene che sono necessari regimi di governance dei dati più affidabili per preservare la fiducia del pubblico e consentirci di massimizzare i vantaggi della tecnologia. “Una cosa è evidenziare i pericoli, un’altra è evidenziare le opportunità mancate”, afferma.

In caso di emergenza, è sempre allettante per i funzionari della sicurezza sostenere che i fini giustificano i mezzi, ma tale logica è spesso autolesionistica. Come disse una volta lo scrittore Aldous Huxley: “Il fine non può giustificare i mezzi, per la semplice e ovvia ragione che i mezzi impiegati determinano la natura dei fini prodotti“.

Certo, vogliamo che i governi democratici adottino tutte le misure necessarie per contrastare la crisi del coronavirus. E dovremmo riconoscere i pericoli sia dell’inazione che dell’azione. Ma alla fine perderemo tutti se i governi si spingono troppo oltre il loro mandato e minano il consenso dei governati.

Nota
(1) Un codice QR è un codice a barre bidimensionale, ossia a matrice, composto da moduli neri disposti all’interno di uno schema bianco di forma quadrata, impiegato tipicamente per memorizzare informazioni generalmente destinate a essere lette tramite uno smartphone.

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Emergenze e diritti fondamentali ultima modifica: 2020-03-25T04:47:00+01:00 da Totem&Tabù

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2 pensieri su “Emergenze e diritti fondamentali”

  1. Trovo che “il perdurare dell’emergenza” sia un concetto molto malleabile. 

  2. “Si fa sempre più probabile che nella lotta al coronavirus venga adottata anche la possibilità di tracciare i cittadini. Ad ammetterlo è Antonello Soro, garante della privacy, che in un’intervista rilasciata a Repubblica ha dichiarato: “Non si tratta di sospendere la privacy, ma di adottare strumenti efficaci di contenimento del contagio, pur sempre nel rispetto dei diritti dei cittadini”. Parlando dell’ipotesi di attuare in Italia il “modello coreano” per tracciare i possibili contagi da coronavirus, Soro ha detto. “La disciplina di protezione dei dati coniuga esigenze di sanità pubblica e libertà individuale, con garanzie di correttezza e proporzionalità del trattamento. Ma una misura quale il contact tracking, che incide su un numero elevatissimo di persone, ha bisogno di una previsione normativa conforme a questi principi – spiega Soro -. Un decreto-legge potrebbe coniugare tempestività della misura e partecipazione parlamentare. Va da sé che la durata deve essere strettamente collegata al perdurare dell’emergenza”. “La nostra disciplina offre gli strumenti per minimizzare il pericolo di abusi, secondo i principi di precauzione e prevenzione, che impongono misure di sicurezza e garanzie di protezione dati già nella fase di progettazione e impostazione della struttura tecnologica. Rispettando questi criteri si puà valorizzare al massimo grado l’innovazione”, aggiunge il Garante.
     
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