Essere Terra

Essere Terra
intervista a Lorenzo Merlo

– Cosa racconta Essere Terra – Viaggio verso l’Afghanistan?
Racconta il viaggio che ho realizzato nel 2012 da Milano a Kabul, in macchina, da solo. 

– Cosa ti ha obbligato ad andare là, in tempo di guerra? Non era eccessivo?
La ragione del viaggio è stata di tipo sentimentale. Ero già stato diverse volte in Afghanistan per questioni fotografiche. Fin dall’inizio mi ero messo a studiare per ridurre la mia sprovvedutezza nel pensare l’Afghanistan e gli afghani. Lessi tutta la saggistica disponibile in italiano. Venni a sapere che c’era della narrativa e non la tralasciai. L’Afghanistan, come è accaduto un po’ a tutti i giornalisti e ai viaggiatori, non lascia in pace il cuore: ne avevo fatto una passione. Lessi i libri di Ella Maillart (La voie cruelle, deux femmes, une Ford vers l’Afghanistan, pubblicato in francese nel 1947 e in italiano, La via crudele. Due donne in viaggio dall’Europa a Kabul, nel 1993), poi quello di Annemarie Schwarzenbach (Alle Wege sind offen. Die Reise nach Afghanistan 1939-1940, pubblicato in tedesco postumo nel 2000 e in italiano, La via per Kabul. Turchia, Persia, Afghanistan 1939-1940, nel 2002) e infine quello di Nicolas Bouvier (L’usage du monde, pubblicato in francese nel 1963 e in italiano, La polvere del mondo, nel 2009). Tre lavori sui rispettivi viaggi a Kabul. Furono questi la scintilla che accese l’idea di andare a Kabul. E fin da subito ne avevo chiaro lo scopo: rendere merito al loro pionierismo e alla loro opera letteraria misconosciuta in Italia, nonostante il loro valore narrativo e la loro attualità. Quindi, il progetto non era arrivare a Kabul, ammesso ci fossi riuscito, ma scrivere un libro attraverso cui celebrare i tre autori, Bouvier in particolare.

Era eccessivo da qualunque punto di vista si volesse considerare l’intento, tranne uno, quello estetico. Quello gratuito, senza scopo vanesio, solo poetico.

Herat – Esercito italiano. Elistrasporto armato.

– Avevi poche probabilità di arrivare a Kabul intero.
Sulla carta, anche nessuna, se non quella dello “zero” su una roulette non con 36 ma con 3600 caselle. Ma la carta non è la vita. La carta è bidimensionale, la vita è un volume. Nella bidimensione fanno testo i saperi cognitivi, la morale e la lista del Pro e Contro. Con essi, lo sai meglio da prima di me, crediamo di esaurire l’infinito, lo riduciamo a ciò che siamo e a ciò che conviene alla nostra biografia, che di quello si nutre. Ciò che peschiamo da quell’intero, tranne occasioni di buona sorte, dipende dal pescatore, non dal mare. E nel mare c’era anche la realtà che mi avrebbe permesso di arrivare a Kabul intero, nonché di lasciare la città e di uscire dal paese.

Serve una precisazione. Tutto ciò non corrisponde ad un processo razionale, si rimarrebbe nel pro&contro. È nuovamente la dimensione estetica a lasciare libere quelle possibilità altrimenti castrate, più che sufficienti per restare a casa. Ne più né meno di quanto accade per una grande salita alpinistica o altro di pari valore umanistico.

Trieste. Piazza dell’Unità. Fontana dei Quattro continenti. ©victoryproject

Giustamente ci si concentra sull’improbabilità di arrivare a Kabul. Su questo aspetto ci sono due considerazioni. Avevo sempre avuto chiaro il rischio di non riuscire neppure a entrare in Afghanistan. Dall’epoca dell’invasione sovietica – era il dicembre del 1979 – temevo, se non credevo, che nessuna auto occidentale fosse più entrata nel paese. Trovarsi una macchina europea al cancello di confine, come l’avrebbero presa? Era più facile – temevo, credevo – che quel cancello restasse chiuso. Un passaporto tanto sconosciuto avrebbe creato troppi problemi a partire dal soldato alla sbarra fino a chissà quale rango superiore. In più, in macchina. Tra l’altro è stato proprio così. Per uscire dall’Iran ed entrare in Afghanistan ci sono volute circa 10 ore di rompicapi e chilometri a piedi su e giù, per soddisfare le richieste dei vari uffici.

A fine giornata, accompagnato nello studio dell’ufficiale comandante del posto di frontiera, capii che tra l’opzione di rivolgersi ad un superiore o lavarsene le mani, lasciando che andassi ad infilarmi nei guai che volevo, scelse la due.

La seconda considerazione riguarda l’eventualità di essere rapito o peggio. Diciamo che contavo su di me. Il che non mi dava, naturalmente, alcuna garanzia, se non quella della disponibilità a provarci.

Croazia. Vukovar. Cisterna non ristrutturata, lasciata a monito delle violenze subite nella guerra civile degli anni 90 del secolo scorso. ©victoryproject

– Come riuscivi a far convivere questa spinta alla grande avventura e il tuo sentimento (forse anche la colpa) verso i tuoi familiari?
È una delle domande più frequenti. Perfino lungo il viaggio me la ponevano. Non so bene come far passare l’idea di avere la fortuna di essere compreso. Di avere a che fare con una donna spontaneamente capace di rispettare la natura altrui. Una realizzazione che non deriva da studi e speculazioni, da ideologie e morali. Piuttosto dalla consapevolezza dell’altro come entità sovrana. Quando le dissi del progetto, come sempre, si mise a disposizione per sostenerlo. Mia figlia non notò nulla di strano in quell’idea afghana. Mio figlio mi supplicò più volte: “Papà non andare”. Non lo ascoltai. E non sentii, se non di striscio, il peso della sua pena. Puro egoismo. Che, con doppie virgolette, giustifico con un paragone. Quando una donna matura l’esigenza di un figlio, di essere madre, si trova al cospetto di un imperativo condiviso, quindi irrinunciabile. Se necessario cambia uomo per portarlo a compimento. Non solo, se la determinazione viene meno, le conseguenze certe, saranno prima sue e poi del suo circondario. Per partire avevo lavorato un anno con l’aiuto di una persona che sbrigò tutta l’imponente parte organizzativo-burocratica. Arrivare a Kabul era il mio – senza offesa alle donne – parto. Non avevo possibilità di rinuncia. Non ero uno che voleva andare in Afghanistan, ero il progetto e il successo stesso. In questo senso non sono mai partito per un’avventura. Il mio punto di attenzione era fisso sulla bellezza, non tanto dei giorni che avrei vissuto, quanto del significato. Bellezza gratuita. Nessuno mi pagava. Era tutto a spese mie. Qualche azienda mia aveva dato materiale o servizi pari a un risibile valore economico del viaggio.

Comunque, nel libro mi sono trattenuto dal dedicarmi a loro. Però ci sono, sia sparsi che in un capitoletto in cui c’è quanto non ho detto qui, non a caso intitolato “Li rivedrò?”.

– Perché il titolo Essere Terra e perché quel “verso”, nel sottotitolo?
Essere Terra allude all’esigenza di svestirsi della propria identità culturale per poter cogliere come muoversi nei contesti in cui mi sarei trovato. Ciò ha un riflesso per la creazione della miglior sicurezza e anche per il miglior benessere. Essere all’altezza di ciò che avrei incontrato. È anche una celebrazione della frugalità. Non ultimo, Essere Terra è stato provocato dal libro di Bouvier, L’usage du monde, in italiano La polvere del mondo. Ho cercato qualcosa che ne fosse all’altezza evocativa, almeno per me.

Nel sottotitolo, verso, rinchiude l’evidenza che forse sarei riuscito ad arrivare al confine afghano, forse sarei riuscito a entrare in Afghanistan, forse sarei arrivato a Kabul e forse sarei riuscito a uscire dal paese. Ad ogni giro di ruota ero esposto all’eventualità di dover interrompere il viaggio. Ogni casualità incombeva a partire da Trieste in poi.

Serbia. Archimandrita di un monastero nella provincia di Novi Pazar. ©victoryproject

– Già, da Trieste. Che linea hai seguito?
I paesi sono stati la Slovenia, la Croazia, la Serbia, la Macedonia (ora Macedonia del nord), la Bulgaria, la Turchia, l’Iran e l’Afghanistan. Per la linea, tornano i viaggi dei tre che abbiamo detto. Da precisare che le due donne Annemarie e Ella viaggiarono insieme nel 1939, mentre Nicolas Bouvier viaggiò con Thierry Vernet nel 1953. Avevo ricostruito i loro percorsi e avevo estratto dalle loro pagine i luoghi dove erano stati. In buona misura ho seguito le loro tracce, cercando quei luoghi, fotografandoli quando li trovavo. Loro stessi avevano percorso le medesime strade. A volte mi prendevo delle libertà e facevo la mia via. Proprio in Afghanistan le vie si sono radicalmente separate. Annemarie e Ella entrarono dal mio stesso confine e percorsero il settore settentrionale della Ring road, la sola vera strada afghana. Una sorta di anello che gira intorno all’Hindu Kush. Nicolas e Thierry dopo aver percorso il Balucistan, ovvero il Pakistan occidentale, raggiunsero Quetta ed entrarono da sud, a Spin Boldak, nella provincia di Kandahar”. Sapendo che il settore meridionale della Ring road era il più coinvolto nel conflitto tra le forze occidentali e quelle talebane e che quello che gira a nord delle montagne aveva comunque importanti sacche sotto il controllo talebano, avevo in mente, fossi mai arrivato a Herat, di seguire una terza linea per arrivare a Kabul, la Central route. Non è una vera e propria via di collegamento. A parte i pochi locali, praticamente non viene percorsa; serve un 4×4 con le ridotte, altrimenti resti lì; è quella con le maggiori difficoltà di orientamento; percorre il lungo il braccio occidentale dell’assassino di indù, questo pare significhi Hindu Kush, secondo una delle tante ipotesi filologiche. Ed è la via più mitizzata. Nessuno scrittore che si occupa di Afghanistan dimentica di citarla decantandone difficoltà e misteri.

Macedonia. Prilep. Icona ortodossa nel monastero di Treskavec. ©victoryproject

– Quanto la guerra ha trasformato gli afghani rispetto ai viaggi che avevi fatto in precedenza?
Molto. Tutto. Se così si può alludere ad un ribaltamento di stato e di relazione con gli occidentali. Partirei da un episodio, che richiede una premessa. I miei viaggi afghani sono compresi in sette anni, dal 2005 al 2012. Dal 2001 c’è stata prima la caccia a Bin Laden ad opera americana (Enduring freedom); pochi mesi dopo, sempre nel 2001, la missione Nato-Onu detta ISAF (International Security Assistance Force), terminata nel dicembre 2014 e trasformata in RS, Resolute Support Mission nel gennaio 2015. Ufficialmente, da assistenti di pace ad assistenti di guerra. Ma, praticamente, è sempre stato un conflitto, prima negato in tutti i modi possibili da governi e mainstream poi ammesso da tutti. Come sappiamo, ce ne siamo definitivamente andati via tra il maggio e il luglio 2021 e definitivamente scappati dal 15 agosto del medesimo anno. (E, non voglio fare digressioni sulle superficialità e faziosità perpetrate dalla stampa nei giorni della recente presa di Kabul da parte talebana). In totale, venti anni di missione, 47000 morti civili locali, 3609 morti militari Nato, 5,3 miliardi di dollari arrivati in Afghanistan. Ecco, nonostante la pioggia di aiuti o presunti tali, le condizioni della popolazione non solo non erano migliorate, erano nettamente peggiorate. La povertà tanto diffusa e visibile, tanto in contesto rurale, quanto urbano, era una condizione comunque pregna di dignità. Lo si poteva conoscere per via indiretta. Avevo avuto la sorte di constatarlo personalmente nei primi viaggi. Una condizione di equilibrio se non sociale, almeno culturale, che in pochi anni era sfumato con picchi negativi che mi sorpresero. Non parlo di rapporti ufficiali, parlo di quello che vedevo sul campo, in particolare nelle città che avevo frequentato. Il baksheesh – che ha molte accezioni e che qui intendo come dono d’aiuto – che rientrava tra i dovuti comportamenti del buon musulmano verso i bisognosi, realmente richiesto dai più dis-graziati, era divenuto infestante e richiesto, non più solo agli imam e ai benestanti, ma a chiunque. Se prima, anche nei quartieri più miserabili di Kabul, dove si erano riversati milioni di profughi dalle campagne, non avevo mai visto rovistare in fondo a luridi cassonetti, poi era divenuto normale vedere spuntare gambe all’aria di persone riverse a rimestare sui loro    fondi, a spulciare tra mucchi di spazzatura buttati negli angoli delle strade, tra interiora d’animale, verdure putride, grondanti tessuti macilenti. Era uno dei risultati del nostro intervento.

Ma era cambiato anche l’atteggiamento. Se, inizialmente, ci videro e vissero come salvatori, nel tempo divenimmo invasori indesiderati. Prima circolavo per i fatti miei a mio rischio e pericolo occulto. Poi il rischio lo si vide chiaramente nel modo in cui molte persone mi si rivolgevano: dalla disponibilità e neutralità, si era passati al fastidio e all’astio. In certi casi anche con l’uso della forza per vietare l’accesso a luoghi prima liberi.

Bulgaria. Valle delle Rose. Monumento ai caduti. ©victoryproject

– C’è una figura con la quale hai tenuto rapporti in seguito al tuo viaggio? Hai mandato il libro stampato a qualcuno? E perché?
Il libro è dedicato a due persone. Una è stata il solo contatto, tra i molti che avevo che mi ha fornito nominativi, quando gli avevo chiesto se potesse darmi qualche contatto locale afghano. L’altra è stato uno di questi contatti, per merito del quale sul campo, a Herat, ho potuto proseguire per Kabul. Sono Marco Lombardi e Faisal Karimi. Nel libro è tutto raccontato. Hanno ricevuto la loro copia di Essere Terra.

Di fatto, sul campo ci sono state conoscenze locali e tradimenti italiani. Per un motivo o per un altro non hanno proseguito o si sono interrotte. Anche questo c’è nel racconto del viaggio che, aggiungo, oltre all’Afghanistan parla di tutti i paesi percorsi per raggiungerlo.

Turchia. Sponde orientali del lago Van. ©victoryproject

– Immagino che ogni volta che una situazione si risolveva avrai fatto un raffronto con l’elenco dei tuoi dubbi e delle varie possibilità che avevi sulla “carta”. In che misura hai riscontrato che la realtà abbia superato il tuo ristretto mondo legato al pensiero?
Il primo, forse insuperabaile, nell’ambito del viaggio in questione è stato essere riuscito ad arrivare a Kabul e lasciare indenne, seppur con una ferita psicologica, il paese indomabile. C’era un universo di dubbi che ha sempre volteggiato sopra i miei pensieri, fin dal momento della concezione del viaggio. E, naturalmente, quel cosmo era popolato soltanto da argomenti detrattori. Uno degli innumerevoli, normalmente, è sufficiente per cedere all’autoindulgenza e lasciare perdere. Ma si tratta di una consequenzialità che non mi ha infettato o che mi ha risparmiato.

Iran. Golestan. Gonbad-e Kāvūs. Incontro con cammellieri e camionisti. ©victoryproject

Per la seconda parte di quanto mi chiedi, ti rispondo con un’astrazione. Penso che chiunque risparmi, o meglio, che tenda a risparmiare le energie bruciate dai dilemmi, muovendosi secondo se stesso, disintossicato dalle ideologie, dalle morali, dalle consuetudini. Muoversi con indipendenza dalle infrastrutture culturali è un vantaggio per trovare la propria linea, anche nei labirinti spinosi delle relazioni o presunte tali. È come se i pensieri avessero un campo di gioco o d’azione entro il quale producono la verità. Il fatto è che tanto più ci si dedica al gioco, tanto più si diventa bravi, specializzati, è vero, ma tanto meno si prende consapevolezza incarnata che la vita non sta dentro quattro righe, dentro la scatoletta in cui, per le derive razionalistiche di cui è impregnata la nostra cultura, inconsapevolmente cerchiamo di comprimerla. Essere terra diviene qui una formula evocativa dedicata alla liberazione dalla scatoletta.

Afghanistan. Kabul. Sintesi afghana, prevalentemente pashtun. Il marito controlla il comportamento della moglie. La moglie si sottrae nel rispetto del dominio maschile e della tradizione che incarna. Lui cerca il fotografo per autostima e fierezza, ma non può dedicarsi del tutto. Il terzo ricalca il più anziano ma sta indietro per gerarchia rispettata.

– Raccontaci per favore un aneddoto, riportato nel tuo libro. Non necessariamente l’episodio più avventuroso, o doloroso, o felice. Magari quello che ti ha insegnato di più.
Senza dubbio alcuno quello relativo alla ferita psicologica citata poco fa. Ho attribuito responsabilità e colpe. Ho patito profondamente fino a perdere l’entusiasmo e la forza per realizzare una parte di progetto in Afghanistan, poi infatti tagliato. Temevo che certe persone avrebbero tentato di fermarmi. Lo temevo da un anno. Quando si è verificato, esclusivamente per le modalità che hanno seguito, mi sono sentito umiliato. Un’umiliazione umana che trascinava, uccideva la questione tecnica di arrivare alla capitale, tornare e scrivere del viaggio in nome dei tre viaggiatori-scrittori. Nel racconto non nascondo la mia caduta emotiva e tutta la vicenda è narrata per filo e per segno. Ma è solo durante il ritorno che, provvedendo a prendermi le responsabilità dello stato in ero caduto, riesco a riprendere me stesso.

Hindu Kush occidentale. Provincia di Herat. Una ragazzina inveisce contro il mezzo blindato dell’esercito italiano.

A parte la vicenda a cui mi sto riferendo, relativa agli italians, come sono chiamati nel libro quegli italiani, ci sono stati diversi momenti raccontabili. Uno è relativo agli angeli. In più occasione sono stato assistito dalla sorte o semplicemente da persone che hanno risolto il problema del momento. Nel libro li chiamo gli angeli. In Iran, stanco – il viaggio macina sempre, ma solo a un certo punto si fa sentire – per l’ennesima volta cercavo un posto tipico dove fermarmi per una sosta e mangiare qualcosa. E, per l’ennesima volta, trovavo le cromature, i cristalli, l’aria condizionata gelida e le gigantografie a colori e forme splash dei panini del menù.  Mentre scendevo dalla macchina vedevo avvicinarsi un gruppo di persone. “Ah no” dicevo dentro di me. “Basta”. Non avevo voglia di rispondere ai loro certi da dove vieni, sei sposato, hai figli, perché sei solo, l’Afghanistan fa schifo, perché ci vai? Nessuna voglia di stargli dietro, di essere gentile. Si avvicinavano come un fronte unito di una decina di persone. Più o meno al centro c’era un uomo – erano solo uomini – sui cinquant’anni. Portava pantaloni di lanetta, con la riga e una camicia chiara fresca del mattino. Gli altri erano prevalentemente più giovani, meno spigliati, che indossavano tenute filo-occidentali di jeans e t-shirt. Sentivo l’intolleranza salire mentre capivo che dovevo raschiare ancora qualche residuo di disponibilità per gestirli. Erano pensieri sovrapposti ai soliti gesti: prendi il telefono, il passaporto, i soldi, le camere fotografiche, chiudi le porte. Mentre l’ultima porta stava sbattendo per chiudersi, capivo di aver lasciato le chiavi all’interno. I pensieri precedenti svanirono per fare spazio ai nuovi ragionamenti. “Meglio rompere la serratura o il vetro?” “Non potrò più allontanarmi dalla macchina”. “Non potrò chiudermi dentro la notte”. Andrà tutto a monte?” Erano vicinissimi, non potevo più dedicarmi a me e al mio problemino. “Salam aleykum”. Lo dissi probabilmente anche con un sorriso. “Aleykum salam”. Dissero in coro ricambiando soddisfatti. Ma furono convenevoli di un istante. Spiegai loro che prima dovevo risolvere la questione appena accaduta. Quello con la riga ai pantaloni assomigliava ad Albertosi, storico e amato portiere del Milan, oltre che nelle basette e nei baffi, anche nello sguardo e nella camminata da calciatore. Mise una mano in tasca e tirò fuori una chiave. Con un sorriso – la somiglianza aumentava – me la porse. Dovevo almeno provarci. Presi la chiave e la portai alla serratura del defender sotto lo sguardo di una ventina di occhi. Un breve tempo nella realtà. Eterno di intolleranza dentro me. Quale assurda ipotesi era passata per la testa del portiere? Lasciai perdere. Prendermela e sopprimermi era assai più costoso. Avrei provato e poi, finalmente, sarei andato a sedermi, bere una bibita, mangiare un panino grondante di salse. La chiave entrò bene. La serratura girò bene. La porta si aprì. Avevo incontrato l’angelo Albertosi.

– Da quando Essere Terra è stato pubblicato (2019) c’è qualcosa che modificheresti, aggiungeresti od ometteresti? E perché?
Il senno di poi è una ghigliottina dove qualcosa del passato rischia sempre di finirci sotto. Per rispondere alla domanda, penso che rivedrei la questione degli italians. Ma, seguendo me, no. A parte i refusi, che sistemerei immediatamente, quanto scritto, più che corrispondere al vero, corrisponde alla mia etica. In questa prospettiva, non cambierei nulla.

Essere Terra ultima modifica: 2021-12-14T05:34:00+01:00 da GognaBlog

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13 pensieri su “Essere Terra”

  1. Bello. E grazie.
    Sono molto interessato alle tue, e non solo, critiche spietate. Attento a dire “ok” perché poi non è facile. 

  2. Dopo questa tua spiegazione, io diventerò un tuo assiduo e interessatissimo lettore.
    Grazie Lorenzo. 

  3.  
    In Essere Terra c’è un capitoletto che si chiama Il coraggio è una contingenza.
    In pratica dice che la realtà dipende da dove si posa il punto di attenzione.
     
    “A casa dicevano «Hai coraggio!». Mi è sempre parso che il coraggio non fosse una dote, che fossero le circostanze a modulare la predisposizione che è in noi. Quando si verificano le condizioni, l’energia si raccoglie e lo crea. A guardare bene, è una cosa che non c’è, non ha alcuna permanenza. C’è chi è coraggioso al punto di cacciarsi in un buco senza uscita? – Per i martiri e i kamikaze in fondo al buco c’è la porta della libertà.
    Era in quel modo, distorto dal luogo comune, che a casa intendevano l’andare ad attraversare l’Afghanistan. Niente di più inopportuno. Era un luogo comune composto soprattutto dai fantasmi della distanza. Da lontano, ad ogni passo ci sarebbe stato il mostro informe di un problema potenzialmente esiziale, pronto a prenderci alle spalle, voglioso di banchettare di noi. Da vicino, l’attenzione ci avrebbe provocato la creatività necessaria per dare forma e identità ai problemi, li avrebbe resi umanamente gestibili e risolvibili.
    A casa era come se tutte quelle paure dovessero svanire prima di partire. Una pretesa impossibile. Il rischio è ineludibile e molto connaturato all’attenzione che gli dedichiamo.
    Sembrava servisse coraggio. Eppure anche loro, a casa, quando vanno a Rimini partono sereni, sapendo che in caso di problema in qualche modo lo supereranno”.
     

  4. Sono impressionato dal coraggio. Un’intervista davvero interessante su un uomo che per me è un enigma, letto solo da qui. Tutta la mia stima Stefano. 

  5. Lo stessso racconto  da parte dello stesso autore, puo’ essere  narrato con stili e codici linguistici diversi..a seconda del lettore  che si vuole raggiungere. Se a volte si adopera uno stile ermetico, puo’darsi che si voglia far intrigare alcuni e non tutti.

  6. Anche Crovella, il deuteroagonista di Merlo, è uno e trino. Dev’essere qualcosa che viene dall’alto dei cieli del blog. Avrei delle interpretazioni esegetiche sul tema (tipico vizio minore dei parroci, perché i veri peccati dei parroci sono ben altri), ma non mi avventuro certo su questo terreno.  C’è il Crovella che scrive in modo appassionato e limpido di montagna e di montagnardi. C’è il Crovella dei suoi romanzi, un po’ più  sfaccettatato nei chiari e negli scuri (un Crovella con un lato biricchino che uno che non conosce i torinesi non si aspetterebbe, ma io ne ho conosciuti tanti in confessionale); il Crovella polemista e alfiere sabaudo, rude, pugnace e sempre pronto all’affondo. In questo caso le differenze non sono tanto di linguaggio, ma di tempo. Si va dall’andante, all’allegro, al prestissimo. Anche qui il povero parroco ha le sue scontate preferenze (che non interessano a nessuno) ma poi arriva il Natale e quando arriva….arriva e tutti i bimbi si devono guadagnare il regalo. Saluti anche a lui e arrivederci.

  7. Mario. Io ho letto il libro. Merlo è uno e trino. Anzi forse ci sono tre Merli. C’è il Merlo viaggiatore che ha scritto questo libro. C’è il Merlo che scrive ogni tanto di cose montanare. C’è il Merlo che scrive su Totem & Tabù. Anche il linguaggio è profondamente diverso. Se firmasse con ‘nomi di penna” diresti che sono tre persone diverse. Non faccio marchette editoriali e non dico dove vanno le mie preferenze. Tanto i gusti di un parroco di campagna democristiano, che nella sua sacrestia non ha smesso di sognare, sono altamente prevedibili. Happy New Year. 

  8. Che avventura straordinaria! L’ impulso di acquistare il libro ha  solo un piccolo ”contro”…ma cerco di appianarlo con una domanda,: Merlo non hai scritto il libro nello stile ermetico di alcuni interventi qui, vero ??😎 Interessante l’intervista.

  9. C’è da dire che la Land Rover Defender (lo so perché mio padre ne ha avute 3 ), se un po’ usata, si apre anche con la chiavetta della Simmenthal. L’angelo lo sapeva.
    Bell’intervista!

  10. Molto interessante !      Dall’incontro con gli angeli muniti di chiave passpartout  ho   capito che aiuta molto conoscere qualche frase  in voga nelle comunita’che si attraversa..persino in valli alpine dell’Italia che hanno conservato varie sottolingue ( riduttivo chiamarli dialetti). Bisognerebbe allora imparare ( oggi il web aiuta) a pronunciare preghiere o dichiarazioni di fede in lungua originale, pure  con le varianti sotto religiose( sciita o sunnita..o..o..meglio non confondersi) . Anche  in  Europa a volte potrebbe aiutare a superare esami rapidi salvavita di  un qualche “catechismo “.Un Missionario in Africa racconto’ di essere incappato in posto di blocco di guerriglieri…che  vollero controllare i documenti. Venuto il suo turno, buttava male..quando il controllore-“You italian??? very good…rifles” ed esibì  un mitra Mab Beretta 38   ancora ben brunito con ottime rifiniture e  calciatura in legno pregiato, molto piu’ griffato e stylish degli  gli altri in lamiera stampata  rivettata e sgangherati  dei suoi compagni.Venne lasciato andare, degli altri compagni di viaggio non si sa..forse qualcuno sperimentò  e delle diverse armi non gli importo’ molto  la differenza..effetto uguale.

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