Evoluzione e involuzione dell’arrampicata classica e sportiva
di Ugo Manera
(pubblicato su Scandere 1990-1992)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Un giorno l’uomo scoprì che le montagne non rappresentavano solo un ostacolo, ma si prestavano ad essere scalate per trarne motivo di soddisfazione personale. Quel giorno nacque l’alpinismo e da allora scalare montagne divenne obiettivo fine a se stesso che affascinò e continua ad affascinare molti uomini, distribuendo grandi soddisfazioni, ma anche dubbi e riflessioni.
Per salire in cima ai picchi più arditi occorreva però arrampicare sulle rocce e superare difficoltà. La nascita dell’alpinismo diede così origine anche all’arrampicata, una disciplina difficile e pericolosa, soggetta a continua evoluzione tecnica. Essa progredì inizialmente come mezzo al servizio dell’alpinismo per consentire il conseguimento degli obiettivi originali di quest’ultimo.
Con l’evoluzione tecnica, l’arrampicata acquisì sempre maggior peso nella pratica dell’alpinismo fino a imporsi come motivo trainante orientando l’alpinismo stesso verso nuovi obiettivi diversi da quelli originari. Ai giorni nostri si assiste a un vero e proprio distacco dell’arrampicata dall’alpinismo classico con l’affermarsi di un’attività indipendente: l’arrampicata sportiva, attività che a sua volta ha dato origine ad un ramo agonistico: la competizione di arrampicata. Riassumendo, oggi ci troviamo di fronte a tre aspetti dell’arrampicata: l’arrampicata al servizio dell’alpinismo classico, l’arrampicata sportiva, l’arrampicata agonistica delle gare. Tutte e tre le specialità, pur risultando nettamente indipendenti fra di loro, mantengono e manterranno dei punti in comune che però non ostacoleranno delle singole evoluzioni tecniche separate.
La situazione attuale è positiva o negativa? Rappresenta un’evoluzione o un’involuzione rispetto all’alpinismo tradizionale? Quale futuro avranno queste forme? Non è semplice dare risposte a queste domande, anche perché il mondo degli alpinisti è spesso un mondo un po’ particolare e soggetto ad autosuggestione, un po’ chiuso ai fenomeni esterni e un po’ presuntuoso anche se in buona fede.
La figura dell’alpinista che si delinea agli occhi del lettore attento che scorre il mare di parole scritte nei racconti delle innumerevoli imprese, è quella di un individualista convinto di aver raggiunto uno stato di superiorità rispetto all’uomo comune perché conquistatore di un mondo ignorato dai più, e che dall’isolamento di questo mondo tende a guardare dall’alto i non alpinisti. Questo alpinista si autoalimenta di retorica che lo confina sempre di più nel proprio mondo rendendolo poco aperto alle evoluzioni e lo pone solo ai margini di quella carica di umanità che consente la visione universale delle cose e che apre l’accesso alle alte espressioni artistiche. In pochi campi si scrive tanto come in quello che ruota attorno all’alpinismo, ed in pochi generi di letteratura si arriva così di rado a rispettabili livelli artistici. All’incirca la stessa considerazione si può estendere ai film che hanno per soggetto l’alpinismo. L’alpinista emblema presume poi che certi sentimenti siano quasi esclusivi della propria attività, così quasi si offende sentendo accomunare allo sport la scalata delle pareti. Egli giudica in genere gli sport delle attività meno nobili della propria, che lo appassiona spesso per tutta la vita, ritenendoli attività prevalentemente fisiche limitate al periodo della gioventù. Basta un solo esempio per contestare questa tendenza presuntuosa: ho visto passare al seguito del Giro d’Italia Gino Bartali (75 anni) guidando una vecchia Fiat 127 (stante le ristrette possibilità economiche) all’inseguimento della passione della sua vita che sempre lo accompagnerà fino alla fine dei giorni. Tutti gli sport sono nobili come l’alpinismo perché arricchiscono la vita con passioni e ideali che spesso durano fino alla morte.
La pratica della scalata di montagne e pareti da sempre ha fatto discutere, sollevato problemi e acceso dibattiti alimentando contrasti e polemiche senza peraltro arrivare mai a verità assolute e a regole durature. Osservando del resto altri temi dell’attualità, ben più importanti dell’alpinismo, possiamo notare che il bene o il male non sta mai da una sola parte e che ogni fede, ideologia o regola, se non si evolve e quindi si aggiorna viene superata, perde la sua carica di verità e da promettente alba radiosa diviene buio antro da streghe.
Oggi il tema di attualità per lo scalatore del difficile è l’interpretazione della moderna arrampicata su roccia, l’arrampicata definita sportiva e i legami che questa ha con l’alpinismo classico, i punti di incontro e di scontro con quest’ultimo.
lo non voglio né esaltare né condannare nulla, voglio invece analizzare serenamente la situazione in atto nei vari aspetti, e con queste analisi sollecitare un dibattito che non creerà né perfezionerà fedi o regole assolute, ma che ampliando la conoscenza dell’attualità possa in qualche modo influire sulle tendenze privilegiando un po’ quelle che almeno oggi appaiono positive e rallentando quelle che sembrano negative.
L’arrampicata moderna su roccia, denominata “sportiva”, si scosta sempre più dai vincoli tradizionali che nei decenni passati avevano condizionato le scalate di elevate difficoltà. Per esempio l’antico concetto di tracciato logico che, sfruttando le fratture della struttura rocciosa, consentiva sia l’arrampicata che la posa di ancoraggi per l’assicuratore, nella moderna arrampicata è stato del tutto stravolto. La linea ideale di salita di una moderna via “sportiva” è là dove la roccia è più compatta e offre all’arrampicatore-atleta il massimo di concentrazione delle difficoltà e la massima eleganza nell’arrampicata, indipendentemente dall’esistenza di fessure utilizzabili per la posa di ancoraggi di sicurezza. Al vecchio chiodo infisso nella fessura viene sostituito l’ancoraggio inamovibile (spit).
La comparsa di numerose vie di arrampicata realizzate con questi concetti ha portato quasi all’abbandono di vie di roccia che solo pochi anni fa apparivano splendide perché le nuove vie realizzate nell’ottica dell’arrampicata sportiva offrono all’arrampicatore possibilità sconosciute nel passato. Ma come si è pervenuti all’arrampicata sportiva? È stata una evoluzione o una involuzione?
Alla prima domanda penso si possa rispondere che il fenomeno è allineato a tutti gli altri che hanno caratterizzato la storia dell’alpinismo delle grandi difficoltà. Senza volermi soffermare sulla storia evolutiva dell’alpinismo che tutti conosciamo, vorrei solo richiamare l’attenzione su una costante presente in tutte le epoche dell’alpinismo e che è a mio avviso la molla che ha proiettato in orbita la moderna arrampicata sportiva. L’uomo è esploratore e creativo. Nel bene e nel male non si ferma mai ed esaurita una tappa subito ne comincia un’altra. Egli non accetta l’orizzonte chiuso, vuole andare oltre. Così nell’alpinismo vari orizzonti sono stati superati, ogni fase giunta all’esaurimento prima di chiudere ne lanciava un’altra successiva perché sempre lo scalatore di punta non si è mai accontentato del ruolo di sia pur bravissimo ripetitore di cose già fatte. Dalla fase di conquista delle cime si è passati alla conquista delle pareti, poi delle strutture più ardite delle pareti e ogni volta ogni generazione abbatteva il muro dell’impossibile eretto dalla generazione precedente fino a quando, restando sul filone classico, ci si è accorti di aver cancellato l’impossibile e di non aver più quindi terreno di conquista.
Ma allora per offrire nuovi orizzonti all’inarrestabile spinta dello scalatore verso nuovi limiti da superare non restava che reinventare l’impossibile in modo artificiale, ossia sportivo. Bastava crearsi delle regole sportive rispettando le quali si riscopriva l’impossibile e si ricominciava ad abbattere le barriere spostandolo ogni volta sempre più oltre. La regola base si dimostrò poi molto semplice: arrampicare senza mai usare l’ancoraggio se non come punto di arresto in caso di eventuale caduta. Con questa semplice regola sì che si è ritrovato l’impossibile con limiti che a prezzo di grande impegno lentamente sono stati spostati dal 6c fino all’8c. Ora l’impossibile si chiama 9a, ma non c’è dubbio che verrà superato verso limiti che come in ogni sport restano ignoti. Queste considerazione mi pare dimostrino che anche la moderna arrampicata sportiva è allineata sullo stesso filone evolutivo delle precedenti fasi della storia dell’arrampicata. Ma per darsi il proprio orizzonte e gli obiettivi ai quali tendere ha stravolto la filosofia di base dell’alpinismo così come abbiamo imparato a intenderlo. Da attività complementare all’esplorazione tesa alla conquista di cime e pareti difficili è diventata uno sport in tutti i sensi, pur mantenendo molto aspetti affascinanti dell’alpinismo classico, anche se obbligatoriamente non tutti.
Alla domanda se l’arrampicata sportiva moderna è una evoluzione o una involuzione si possono formulare varie risposte anche provocatorie. Personalmente non la ritengo una involuzione, anzi la considero una gran bella opportunità che si è offerta agli scalatori sia giovani che maturi, anche se ha perso parte degli aspetti più spirituali e mistici tipici dell’alpinismo classico. Aspetti che però la nuova attività non ha cancellato dall’alpinismo e che lo scalatore ritrova puntualmente se percorre per se stesso gli innumerevoli itinerari esistenti o ancora da inventare su un’infinità di pareti e montagne senza porsi come obiettivo la notorietà e il riconoscimento pubblico degli addetti ai lavori.
Ritengo che l’arrampicata sportiva moderna possa convivere benissimo con l’alpinismo classico e che non alteri affatto i valori di quest’ultimo che ognuno di noi, se vuole, può trovare intatti salendo pareti e montagne al limite delle proprie capacità, anzi troverà sempre più spazio perché l’arrampicata moderna, attirando la maggior parte degli arrampicatori su itinerari nuovi e diversi, fa cadere nell’oblio innumerevoli tracciati del passato favorendone in seguito la possibilità di una riscoperta. Le moderne vie “sportive” su roccia non è che danneggino i vecchi itinerari, ma sul piano della soddisfazione per l’arrampicata sono ad un livello talmente superiore che di fatto monopolizzano in gran parte l’attenzione degli scalatori. Chi però vuole invece vivere l’emozione della ricerca di un itinerario, della posa degli ancoraggi, dei bivacchi è sempre libero di farlo e credo che nessuno attenti a questa libertà. È evidente che i valori in gioco sono cambiati rispetto ai decenni passati, restando nel campo dell’alpinismo strettamente classico, l’esaurimento dei problemi evidenti rende molto più difficile raggiungere la notorietà e diventare soggetti interessanti per la pubblicità dei possibili sponsor. L’arrampicata sportiva moderna consente molto più spazio per questo obiettivo, lì i problemi sono evidenti e indiscutibili e appena risolti si apre lo spazio per altri successivi. Alcuni esempi: il 9a su monotiri, l’8b/c a vista, il concatenamento di più lunghezze dei gradi 7 e 8 infine trasportare le medesime difficoltà con lo stesso stile in alta montagna. Qualunque valutazione venga espressa della moderna arrampicata sportiva è innegabile che essa sta avendo un successo travolgente. Questo successo significa tante nuove vie sulle falesie conosciute, scoperta di nuove falesie, proiezione di questa arrampicata verso l’alta montagna con apertura di vie conformi alle esigenze di questa attività. È proprio nell’estensione all’alta montagna che si accentua l’incontro (o lo scontro) con l’alpinismo classico. Se nelle falesie e strutture brevi in genere l’arrampicata sportiva ha di fatto scoperto e reso accessibile agli arrampicatori un terreno dalle infinite possibilità finora poco conosciuto o del tutto inutilizzato, traslando verso l’alta montagna viene a svilupparsi sulle stesse strutture ove è stata scritta la storia della scalata classica. I rischi di scontri ideologici sono più che evidenti. Fedele ai propositi iniziali, non voglio entrare nel merito di nessuna polemica su questo tema, tanto meno voglio scoprire o proporre regole vincolanti. A chi è contro questa attività proiettata in alta montagna posso ricordare che non ha senso (e non solo in alpinismo) credere di arrestare un’evoluzione con scomuniche e regole ufficiali. A chi è pro, vorrei far notare che tutto quello che avviene su ciò che è patrimonio comune, ed in questo caso è l’Ambiente nella veste delle montagne e delle pareti, per non essere negativo deve essere rispettoso e deve allora sapersi autoregolamentare. Una autoregolamentazione intelligente dettata dal buon senso ed evolutiva con l’obiettivo primario di salvaguardare l’ambiente e mantenere il rispetto della storia che in questo ambiente si è sviluppata. Non è che su questo tema possiamo chiedere aiuto all’alpinismo classico, che in fatto di conservazione dell’ambiente si è macchiato di innumerevoli colpe.
Per citare qualche esempio: rifugi in posti assurdi e di dimensioni irragionevoli, abbandono sconsiderato di rifiuti sulle più alte cime del mondo, aggressione di molte montagne con vie ferrate o attrezzature stabili, bivacchi fissi in cima alle montagne e tante altre belle imprese di cui non conviene andare fieri. Ma ormai ciò che è stato è stato, occorre salvare il salvabile e far sì che gli errori del passato servano a promuovere forme di sviluppo atte a creare un futuro migliore. Per aiutare tutti a comprendere le differenze tra i fenomeni che ci interessano è utile confrontare alcuni aspetti delle vie di arrampicata in stile classico e delle nuove vie di arrampicata sportiva. Il problema di una via in stile classico è che occorre pervenire alla soluzione con mezzi limitati, condizionati dalle possibilità che la roccia offre per fissare gli ancoraggi (fessure, buchi, eccetera). Il primo salitore è tanto più bravo quanto più è difficile il tracciato realizzato con i limiti all’assicurazione imposti dal materiale che può essere utilizzato. La sua prestazione è sottoposta al confronto competitivo con i ripetitori; così, quanto il tracciato rimane inalterato dalle condizioni originali, tanto più il confronto è omogeneo. La rimozione di tutti gli ancoraggi (chiodi) impiegati nella prima salita aiuta a pervenire a questo confronto omogeneo. Un itinerario aperto in questo stile ha senso anche se non avrà mai dei ripetitori: in fondo l’obiettivo primario era la vittoria dello scalatore sulla parete vergine e non il costruire una perfetta via di arrampicata ad uso dei ripetitori. Vedremo invece che una via moderna aperta con i concetti dell’arrampicata sportiva non ha senso se non avrà numerosi ripetitori. Una via aperta per l’applicazione dei concetti dell’arrampicata sportiva non è più condizionata dai mezzi limitati, il primo salitore ha la possibilità di bucare per piazzare degli ancoraggi fissi (spit), e quindi può passare, almeno in teoria, dappertutto. Il problema diventa quello di tracciare una via superabile in libera senza punti di aiuto piazzando, dal basso, gli spit indispensabili alla sicurezza in modo tale da rendere obbligatori i passaggi in funzione del livello di difficoltà che si vuole imporre alla nuova via. Sempre riferendosi a vie aperte dal basso, la prestazione del primo salitore è unica, non potrà più essere ripetuta perché chi seguirà troverà gli ancoraggi fondamentali già sistemati.
Il primo salitore deve superare grandi difficoltà per progredire e fermarsi per praticare i fori necessari per gli spit; per fare ciò deve spesso ancorarsi a mezzi estremamente precari ostacolato da un’attrezzatura sempre pesante. Per questo nei tratti molto difficili ha poche opportunità di salire in libera nei canoni dell’arrampicata sportiva. Il ripetitore non ha riferimenti di confronto con chi ha tracciato l’itinerario, egli sì che può salire nel pieno rispetto delle regole dell’arrampicata sportiva e la sua bravura viene misurata dalla difficoltà dei passaggi che riesce a liberare.
L’opera completa per chi crea un itinerario moderno sarebbe quella di aprirlo salendo dal basso, poi ripeterlo concatenando in libera tutte le lunghezze senza mai ricorrere a punti di aiuto.
Questa analisi dimostra che una via moderna aperta con questi concetti è un’opera rivolta soprattutto a numerosi ripetitori, altrimenti senza ripetitori sarebbe inutile e priva di senso. Queste vie perciò, oltre ad offrire una splendida arrampicata, debbono essere attrezzate bene con ancoraggi sicuri posti in modo coerente con le difficoltà espresse dalla via. Se non sono rispettate queste condizioni, l’opera risulta inutile e viene dimenticata, chi l’ha realizzata invece dell’ammirazione si attira il biasimo degli scalatori.
L’arrampicatore sportivo moderno non può però sentirsi libero di esprimersi come meglio gli aggrada, altrimenti rischia di arrecare dei gravi danni. Vorrei paragonarlo nell’immagine ideale che mi viene di proporre all’artista che vuole creare un’opera originale nuova e, consapevole che la propria arte deriva da un’esperienza storica, la crea in armonia con la tradizione, senza distruggere le opere del passato per ricavare il materiale necessario alla realizzazione della propria.
In falesia e su tutte quelle strutture rocciose che non si identificano con l’alta montagna, l’obiettivo fondamentale è la creazione di itinerari perfetti atti all’arrampicata sportiva e questo lo si ottiene in modo ottimale mediante l’infissione degli ancoraggi con discesa dall’alto. Questa soluzione perciò è consigliabile su questi terreni altrimenti si corre il rischio di sprecare aree di bella roccia con brutte vie. Naturalmente va benissimo anche in questi luoghi attrezzare salendo dal basso, salvo poi correggere la posizione di quegli ancoraggi che non risulta ottimale. Sulle pareti d’alta montagna invece, ove si è svolta la storia dell’alpinismo, ritengo opportuno lasciare le vie del passato così come sono senza aggiungere ancoraggi fissi. Chi ripete queste vie ritorna nella dimensione classica e ritrova tutti i valori (e i disagi) tipici di questa dimensione.
Per le nuove vie moderne aperte nell’ottica dell’arrampicata sportiva, credo valido l’impiego dello spit e dei mezzi che ne consentono una rapida infissione. Credo però che in alta montagna le vie vadano aperte dal basso e vadano banditi tutti i possibili aiuti esterni (esempio, elicottero); viene così rispettata la tradizione classica che vuole nel primo salitore lo scalatore che eccelle per spirito di iniziativa, per abilità e per coraggio. In questo modo mi pare non si corra il rischio di alterare i valori della tradizione storica dell’alpinismo.
Vedo l’arrampicata sportiva distinta dall’alpinismo classico, con un prossimo futuro di grande successo in grado di attirare molti appassionati di ogni età.
Ritengo però il confine sfumato e non netto, e se è vero che la maggioranza degli arrampicatori sportivi non praticherà mai l’alpinismo, ci sarà un gran numero di alpinisti e arrampicatori che si sposteranno dall’una all’altra di queste attività o le praticheranno entrambe contemporaneamente.
Ciò fa sì che l’arrampicata sportiva arrivi a influenzare molto l’alpinismo classico, al punto di determinarne importanti evoluzioni. Un discorso completamente diverso è quello dell’arrampicata agonistica, per intenderci quella delle gare. Questa, pur mantenendo dei legami tecnici con l’arrampicata sportiva, è diventata sport competitivo e segue le leggi di tutti questi sport.
Avrà fortuna? Diventerà uno sport importante e seguito? Troppo presto per dirlo, i grandi sport hanno avuto successo perché attirano tanti praticanti, ma soprattutto perché si sono imposti come spettacolo, sia in modo diretto sul terreno di gara che attraverso la televisione. Difficilmente l’arrampicata agonistica diventerà un grande sport spettacolo, ma un buon impulso le verrà da un eventuale riconoscimento come specialità olimpica. Anche in questo caso però credo che pur prosperando rispetto alla situazione attuale si collocherà tra gli sport di secondo piano che pur presentandosi agli impegni competitivi internazionali in modo degno e autorevole, manterrà sempre con fatica i propri campioni a livello professionistico. Credo che la sua strada sia ormai indipendente da quella dell’arrampicata sportiva e il successo o l’insuccesso dell’una poco può influire sulle fortune dell’alta. A maggior ragione le competizioni d’arrampicata non hanno più nulla da spartire con l’alpinismo classico, nemmeno il terreno poiché si svolgono su strutture artificiali per cui ogni polemica o critica da parte degli alpinisti purosangue è infondata e priva di senso.
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Questi venerdì, sabato, domenica e lunedì in Civetta ho visto 3 cordate sulla Trieste e due sulla Valgrande, poi tanta gente sulle ferrate.
L’alpinismo è fuori moda, ma tanti aprono dovunque e comunque, magari bucherellando in sicurezza 🙂
Non capisco che gusto si provi a imbrogliare se stessi, si badi bene che non dico illudere se stessi.
E si pubblicano quasi sempre i “grandi”, ma solo se son brocchi 🙂
@Emanuele Menegardi: Le vie che descrivi sono definite plaisir e l’interprete di maggior spicco nella valle del Sarca è quel genio di Heinz Grill. Emanuele hai fatto molto bene a mettere in evidenza la mancanza descrittiva di questa categoria di arrampicata che ritengo fondamentale al giorno d’oggi perché perfetto anello di congiunzione tra l’arrampicata sportiva e quella Trad. In questo modo tanti arrampicatori sportivi si sono potuti avvicinare alle emozioni donate dall’Alpinismo senza per forza di cose esporsi eccessivamente al pericolo o all’impegno richiesto da una avventura non strutturata. Se poi qualcuno dovesse utilizzare gli anelli di calata per abbandonare la via non lo riterrei disdegnoso anzi… tale persona essendo cosciente dei propri limiti, invece di cimentarsi in una arrampicata Trad che avrebbe potuto concludersi con la chiamata sei soccorsi, ha preferito testare le proprie capacità o perché no allenarsi per qualcosa di più impegnativo in futuro.
Ma la situazione oggi è cambiata cioè non ci sono solo l’alpinismo e l’arrampicata sportiva, ci sono sempre più itinerari che superano pareti verticali grazie a buchi(trapanati) con cordoni o rari spit con anello, che permettono di salire un pò ovunque; secondo me non si tratta di arrampicata sportiva ma di una attività che ha alcune caratteristiche di questa e anche aspetti in comune con l’alpinismo, come il posizionamento di friends e nuts; il vantaggio(o difetto) di queste vie è che ne puoi salire solo qualche tiro perchè poi c’è sempre lo “spitannello” che può servire per calarsi; in questi anni noto tra l’altro che per es. in Dolomiti(in Val del Sarca anche di più), queste vie “semi-sportive” o se volete “semi-alpinistiche” sono preferite e le alpinistiche classiche sono purtroppo(o per fortuna) snobbate!