Pubblichiamo il testo di Alberto Peruffo apparso su casadicultura.it l’8 marzo 2013 prima della sua partenza per la spedizione al Kangchenjunga (i Cinque Tesori della Grande Neve). Un testo che prende come pretesto una domanda specifica per rispondere a ciò che si nasconde dietro: una domanda universale, a cui l’autore prova a dare una risposta “memorabile”. Incontreremo Clarice Lispector, Fosco Maraini, Ma Jian, Murakami Haruki, Fernando Pessoa, Lawrence Ferlinghetti, Marlen Haushofer, Monika Bulaj, Guru Rimpoche, punte di un universo culturale che qui non possiamo del tutto svelare.
Che senso ha ex-pedire oggi
di Alberto Peruffo
«Il linguaggio è il mio sforzo umano. Per destino devo andare a cercare e per destino torno a mani vuote. Però – ritorno con l’indicibile. […] Ed è inutile tentare di abbreviare il percorso. Esiste la traiettoria, e la traiettoria non è solo un modo di procedere. La traiettoria siamo noi (Clarice Lispector, La passione secondo G.H.)».
Anno 2013. Che senso ha mettere il piede fuori di casa oggi, in un ambiente ostile, ma già esplorato? In questa semplice domanda postami da una persona molto intelligente – domanda da me rivisitata pescando nella radice della parola spedizione (ex-pedire, mettere il piede fuori) – sta racchiuso il senso di ogni cosa, non solo di una spedizione in terre estreme.
Zemu Peak, Porta Maraini e Pandim. Foto: Davide Ferro
Di fronte a una questione così importante proverò a dare una risposta memorabile, che possa rimanere impressa nella memoria, avvalendomi di una singolare intuizione di senso che accompagna da molti anni i miei studi e le mie esperienze. Una risposta che ci porti un passo oltre la celebre risposta di George Mallory di fronte all’inesplorato, all’Everest, «perché è là!».
Tuttavia – prima di affidare alla scrittura una risposta che potrebbe creare qualche spaesamento – suggerisco a tutti – me compreso – di seguire un breve percorso di avvicinamento mediante la lettura di alcuni passi significativi che ho incontrato, a riguardo, negli ultimi anni e che mi sono segnato in un quaderno, senza distinzione di discipline o di ambiti. Parole comprensibili anche a mio figlio adolescente. Fatta eccezione per alcuni strappi. Una specie di aratura prima di mettere il seme.
Ho scelto due passaggi molto semplici di letteratura. Anzi, non mi meraviglio mai abbastanza di come certi passi di letteratura valgano più di dieci trattati di filosofia.
Scrive Ma Jian in Polvere rossa:
«La vita in Cina è un buco nero e io mi ci voglio immergere. Non so dove sto andando, so soltanto che devo muovermi. Porto con me tutto quello che ero; tutto quel che sarò mi aspetta sulla strada che percorrerò. Voglio pensare camminando, vivere sempre in movimento. Non sono più in grado di reggere una vita chiuso dentro a una stanza».
Per facilitare la mia intuizione alla base della risposta memorabile che vi darò alla fine, prendiamo passo passo le parole dell’artista cinese, come fossimo impegnati in una difficile ascensione, gli 8586 metri del Kangchenjunga. Tutto diventerà più accessibile.
1. «La vita – non tanto e solo in Cina – è un buco nero e io mi ci voglio immergere».
Qui abbiamo il senso del limite. La consapevolezza del niente, del nero, che è fuori (e a volte dentro) di noi, fino a quando non diventi nostra esperienza, la nostra vita. È necessario che lo affronti, per vivere.
2. «Non so dove sto andando, so soltanto che devo muovermi».
Qui abbiamo la ricerca di senso. Senza alcuna utilità, se non il movimento. Il transitare da un luogo all’altro. Per propria volontà. Altrimenti è la morte. Ciò che distingue la vita dalla non-vita. L’animale dal vegetale. Il vegetale dal minerale.
3. «Porto con me tutto quello che ero; tutto quel che sarò mi aspetta sulla strada che percorrerò».
Qui abbiamo la costruzione della realtà attraverso l’esperienza personale. «Io ho – e poi sono – la dimensione di ciò che vedo», scrive in uno dei passi più formidabili della letteratura mondiale Fernando Pessoa.
4. «Voglio pensare camminando, vivere sempre in movimento».
Qui – per chi sa vedere oltre le parole – abbiamo per 2/3 la più alta definizione di uomo, di uomo non ancora deviato da una specializzazione verso uno dei suoi estremi: il vivere esclusivamente con la mente, il vivere esclusivamente con le altre parti del corpo; o con loro forti dominanze. Devo pensare e camminare, come fatti inscindibili per vivere bene. Se non mi muovo, se non esco da me, se non incontro l’altro, la difficoltà oltre il mio abito – sia esso luogo, mente, veste – non penso come si deve. E se non penso come si deve, non vivo. Ma vegeto.
5. «Non sono più in grado di reggere una vita chiuso dentro a una stanza».
Qui abbiamo la constatazione – quasi un’epifania – di ciò che è annunciato prima, dell’alterità, dell’altro, di tutto ciò che è al di là della nostra pelle, del nostro involucro, della nostra stanza, della nostra casa, del nostro paese, della nostra nazione, della nostra abitudine. Io sono in quanto faccio un passo verso l’altro. Altrimenti non sono. Potrei essere. Resterei un potenziale di vita. Inespresso. Un’immagine mentale. Una masturbazione di me stesso. Un sogno che potrebbe generare incubo.
Ma Jian – ricordo ancora – è un artista. Le arti classicamente intese, espressive, portano spesso al finale del punto 4. L’alterità è spesso un mero artificio. Ma sull’arte e le sue ossessioni non è questo il luogo per soffermarsi. Torneremo dentro a una stanza.
Abbiamo invece già fatto un piccolo passo oltre. Siamo usciti. Dalla stanza. Da casa. Ma che senso ha andare in ambienti difficili, ostili, per non dire estremi?
Semplicemente – si potrebbe rispondere senza sbagliare – tutti quei punti analizzati sopra si svilupperebbero all’ennesima potenza. Per chi sa gestire la complessità di ambienti non facili, potrà ricavare tutte quelle risposte all’ennesima potenza. Anzi, visto che si tratta di agire, di realizzare una possibilità, all’ennesima attualità. Vivrà una vita di grande intensità. Per questo si parte per «strade sterrate», incontro a «posti sperduti», per citare una suggestione di Lawrence Ferlinghetti.
Entriamo ora nel cuore della questione.
Leggiamo cosa scrive Maraini quando si affaccia sul limite dei Cinque Tesori, sul mondo estremo del Kangchenjunga:
«Ma adesso voglio avvicinarmici per davvero. Non tenterò la salita di colli o di cime, né intendo fare ricerche o rilievi: ho un unico desiderio, ed è vedere. Sarò come il pellegrino che giunto alla meta s’inginocchia e tace».
Qui siamo solo sul limitare dell’estremo. Si è usciti da casa e si è giunti sulla soglia del limite. Già il vedere, la contemplazione e l’azione che hanno portato a questa visione, è una grande cosa. Un’uscita fuori misura.
Chiedo ora aiuto ad Haruki Murakami per prepararmi al passo successivo, per andare oltre.
Dall’Arte di correre:
«Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la fatica riusciamo a provare almeno per un istante la sensazione autentica di vivere. Raggiungiamo la consapevolezza che la qualità del vivere non si trova in valori misurabili in voti, numeri e gradi, ma è insita nell’azione stessa, vi scorre dentro».
Alberto Peruffo in prossimità del primo raggiungimento del futuro Colle Sella, sul punto di attacco dello Sperone Zemu alla Parete sud del Kangchenjunga, visibile con una valanga sulla sinistra. Foto: Zemu Exploratory Expedition
Premesso che parole come autentico, verità, assoluto, qui vanno prese con la dovuta attenzione, senza pretesa di trascendenza, il pensiero di Murakami è un primo passo per capire che la fatica ci rende consapevoli del limite. Se poi la fatica viene espressa non solo in ambienti costruiti ad hoc – come quelli della corsa “sportiva” sottintesi dall’autore – ma in ambienti dove la complessità degli elementi e la grande ampiezza tra questi, l’oscillazione tra le situazioni, ad esempio la quota e le condizioni del terreno, dalla roccia al ghiaccio, quella fatica ci rende consapevoli non solo del limite nostro, ma del limite delle cose. E il limite oggettivo ci restituisce il valore, la qualità, la quantità non misurabile della vita. Di tutta la vita. Non solo la nostra. La sensazione autentica di vivere non si trova in valori misurabili, ma nella fatica di muoversi tra essi, nel coraggio di vincere la fatica, di affacciarsi al proprio limite, soprattutto se il nostro limite si compone con i limiti di ciò che non siamo noi, ciò che ci circonda. La complessità. Ci troviamo di fronte a una qualità all’ennesima potenza. La qualità nostra composta con la qualità delle cose. E siamo a metà della risposta.
Ora, la fatica in ambienti difficili, l’esposizione continua al nostro limite dato dagli ambienti ostili, questo nostro limite può diventare il limite? Il limite oggettivo, esemplare per una classe intera, quella degli alpinisti, o per salti ampi, l’umanità? In altre parole, può il nostro limite essere il limite della storia? Salito una volta il Kangchenjunga – messo a confronto il limite di un uomo con il limite del luogo – perché salirlo un’altra volta? Ritornando alla domanda iniziale, che senso ha oggi, andare in Himalaya, quando queste montagne sono già state salite?
Qui ovviamente evito l’ambito del limite supremo, la morte, l’abisso, e di ciò che si pensa oltre, l’oltre assoluto, in un certo senso il Dio, gli Dei, e altri nomi generati dal vuoto, dall’ab-surdo, da ciò che è sordo, non parla e non risponde, al quale la risposta più saggia da dare è l’ascolto. Il silenzio. Non perché non è di nostra pertinenza – di colui che deve rispondere a quella domanda iniziale – ma perché quello non è un ambito, ma è lo sfondo di tutto, il ricettacolo delle domande. Chi viaggia con le punte dei piedi sull’abisso, in montagna, lo sa bene. Percepisce costantemente il limite ultimo su cui ci muoviamo. Quasi fosse un “presentimento del sacro”. Così io uso dire per secolarizzare – rendere agevole – con un’espressione e una parola un concetto fondamentale. Basti per questo quanto scrive l’amica Monika Bulaj. «Il sacro passa attraverso il corpo. Lo trafigge». Come a dire che la ricerca del sacro avviene attraverso un’estrema prova dei sensi. In ambiente ostili. Alla nostra mente. Che è corpo. E al corpo, che è fatto di mente. «Il sacro non mente» conclude Monika per aiutarmi a dare fine a un gioco di parole che nasconde percorsi etimologici di fondamentale importanza. Pericolosamente ascetici.
Allora, che senso ha oggi, andare in Himalaya, quando queste montagne sono già state salite?
Infatti per taluni non basta constatare quanto accennato sopra e detto prima, che salire una montagna porti comunque a una ricerca di senso, anche contingente, semplice, di trovare una via, seppure già fatta da altri, perciò sempre e comunque a vivere una libertà concreta, in ambienti esterni, non per forza estremi, fare perciò una sana esperienza individuale, che ti espone all’altro, che realizza una persona facendola uscire dalla sua stanza per andare incontro al mondo. Se ciò non è sufficiente per coloro che non trovano senso nel già visto dagli altri perché vogliono vedere assolutamente qualcosa di mai visto, da nessuno, vi affido questa intuizione che porterà alla risposta memorabile. Mi esprimerò in prima persona, ma l’io che seguirà è impersonale, valido per tutti.
«Io posso raccontare – grazie alla mia forma mentis, alla mia persona – una montagna come nessuno mai l’ha raccontata e quella montagna prenderà forma e realtà (attenzione, realtà!) grazie alla mia narrazione. Se io vedo e provo una cosa meravigliosa e non la condivido quella cosa morirà, non diventerà mai realtà, e se lo è già perché altri l’hanno narrata, io posso arricchire quella narrazione con cose e fatti che nessuno ha visto mai».
Qui ci sta un’intuizione filosofica (preferirei dire gnoseologica ed esistenziale allo stesso momento: la filosofia come la conoscenza prese per sé, per riempire la bocca di chi parla, sono termini spesso arroganti), dietro a quel passo – dicevo – ci sta un’intuizione filosofica, di grande rilevanza, anche se sfugge nella banalità del quotidiano, perché connaturata al nostro vivere. Fa parte di noi e non ce ne rendiamo conto. È il concetto della condivisione delle cose, il concetto di realtà che si costituisce e diventa condivisa altrimenti andrebbe perduta, concetto che trova forza attraverso un senso di libertà concreta, di sentirsi in vita nella “lotta con gli elementi” (su questo “principio di realtà” ritornerò con Maraini). In parole più sottili, la condivisione di un’esperienza soggettiva diventa esperienza oggettiva assolutamente originale attraverso la forma della mia mente: una storia soggettiva diventa storia universale attraverso un racconto inedito che neppure il primo esploratore è stato in grado di fare, perché cercava o guardava da altre parti. Magari solo l’altimetro per arrivare a 8586 metri, trascurando le parole di Guru Rimpoche (che presto vi dirò). Questa possibilità di narrare in modo nuovo le cose, che si costituiscono a realtà grazie alla nostra esperienza, ci fa vincere ogni ritrosia sulla storia, sul presunto già visto, perché nessuno mai vedrà con i nostri occhi e nessuno mai potrà comunicarlo come lo farà la nostra persona. Io potrò vedere cose che tu non hai visto. La storia del soggetto vince sul mondo oggetto, il quale, senza condivisione, cade tragicamente nel nulla.
Le cose esistono, ma diventano realtà solo grazie alla nostra esperienza condivisa.
In sintesi, non trascuriamo mai la nostra esperienza personale, potrebbe essere fondamentale e parte costitutiva del mondo, scoprire cose e vedere aspetti che nessuno ha mai visto. Parti, sempre, compagno! Molti alpinisti hanno scalato montagne attratti solo dalle altezze, dimenticando tutto il resto e narrando spesso solo l’aspetto tecnico delle loro ascensioni. Non so se intendete la potenza di queste parole? Quanto ancora c’è da fare e da raccontare! Potrei costruire una provocazione e forse il Kangchenjunga – grazie a Fosco Maraini e ai miei interlocutori – è l’esempio più eclatante: il migliore che la storia contemporanea dell’esplorazione possa offrire all’immaginazione. E ai miei piedi.
Considerate quanto segue come ipotesi provocatoria. Che chiama a sé una voce. Niente di trascendente. Solo una voce fuori dal coro. Da ciò che la nostra mente è abituata a vestire.
L’Everest, il K2: montagne belle, altissime; ma non bellissime, per certi aspetti. Per certi, dico. Quelli a noi più cari per la nostra ipotesi. Anzi, ipotizziamo che gli alpinisti che le hanno scalate con un certo sentimento, hanno sbagliato montagne, o meglio non hanno trovato niente sulla cima di quello che si aspettavano: solo sassi, pietre e neve. Peggio, affermiamo che molti altri hanno speso migliaia di dollari per essere portati su, magari intossiccati dall’ossigeno e dalle loro manie di grandezza. Ma non hanno trovato niente. Solo sassi, pietre, neve… Forse ghiaccio. E, a volte, bianca o nera, la morte.
Il Kangchenjunga invece…
Leggiamo con trepidazione il passo cruciale di Maraini nel momento in cui ci presenta il Kangchenjunga:
«In tibetano cang vuol dire neve, cen significa grande, dzö lo si può tradurre con tesori e nga sta per cinque; dunque Cang-cen-dzö-nga letteralmente equivale ad “i cinque tesori della grande neve”, nome che viene dato nel Sikkim ad una delle più alte montagne della Terra, ch’è inoltre, senza dubbio, una delle più belle. Alcuni pensano che per “tesori” s’abbiano ad intendere vette e s’ingegnano a contarne cinque; pare invece che i “tesori” corrispondano a cinque mitici tesori sacri che Padma Sàmbava (detto in tibetano Guru Rimpoche) abbandonò sulla cima del monte, ove resteranno nascosti fin quando l’umanità non sia giunta ad un tal grado di evoluzione spirituale da poterli comprendere».
I cinque tesori della grande neve! A parte che la Grande Neve – per chi si domanda il perché si scalano montagne – potrebbe essere tradotta senza mezzi termini in alpinismo; a parte questa immediata traduzione, cosa consegue da questo funambolico passo?
Il Kanchenzonga assumerebbe le fattezze di un tempio dell’alpinismo: diventerebbe i “cinque tesori dell’alpinismo”. E l’alpinismo vestirebbe le sembianze di una vera e propria disciplina. Una disciplina sui generis della conoscenza. I Tesori abbisognano infatti di un “evoluzione spirituale” per poterli comprendere. Diciamo, per non usare termini che conservano troppo aloni di trascendenza e che possono sembrare elitari, i tesori abbisognano di una predisposizione d’animo. Ciò a cui ognuno può aspirare – con vari modi, tecniche e attitudini – ma non tutti raggiungere. Comprendere quei tesori sarebbe una gran cosa. Per sé, per l’uomo che li raggiunge, ma anche anche per gli amici. Un bene per tutti. Per l’umanità, se a questa grande parola diamo il concreto significato del consesso degli umani che si sono trovati insieme in questo pianeta a vivere l’esperienza che chiamiamo vita.
Ecco, che io sappia, nessuno (o presumo pochi, a me sconosciuti), nessuno di coloro che sono stati sul Kangchenjunga ha portato a casa uno solo di questi tesori. Pensavano ad altro. Alla cima. Forse il passaggio obbligatorio per quei tesori.
Io parto in cerca di questi tesori.
Spero di portarne a casa almeno uno.
Per vivere bene.
Per gli amici.
Per i miei figli.
Dite questo a chi fatica a capire. Ora abbiamo le parole. Senza liquidarle come fossero una suggestiva metafora. Potrebbe anche non esserlo. Dite… «è partito alla ricerca di un tesoro, non ho capito che tesoro sia, ma sai, i cercatori di tesori… ori… gli ho sempre ammirati… Lui – che sarei io, lo scrivente, e i miei compagni – fa circa lo stesso. È che i suoi tesori sono nascosti in alta montagna, e si fatica molto di più per raggiungerli. Ce ne sono ben cinque in quella montagna. I Cinque Tesori della Grande Neve. Che nome magnifico! Contento lui… forse ci racconterà grandi cose. Certamente tribola, ma si diverte, e magari tornerà pure ricco. Di cosa, non saprei dirti… Non conosco l’argomento, la montagna, i suoi tesori. Preferisco ascoltare e sentire cosa mi racconta. In bocca al lupo e buon divertimento».
Ecco la parola chiave dell’alpinismo. La più nascosta e difficile da capire. Divertire. Di-vergere. Diversione? Volgere lo sguardo altrove! Portare sé in altri luoghi senza alcun motivo se non il vedere, l’affacciarsi puro e semplice al limite. Con andatura da diporto. Da sportivo. Diportivo?
Sì. L’alpinismo è sport, anzi, vorrei dire l’unico autentico – etimologicamente – sport. Diciamo pure, per non essere esclusivi, tra i pochi all’ennesima potenza. Che diventa atto senza modificare l’altro con cui si confronta. Quel divergere che non crea a proprio uso e consumo, a propria immagine, i luoghi del proprio agire. Che esce addirittura dall’agone – e dai suo artificiosi competitori – per affrontare l’ambiente. La natura selvaggia ed entropica. Ciò che diverge radicalmente.
Attenzione cosa dice Fosco Maraini con una semplicità disarmante:
«Io credo che il suo segreto sia appunto questa gioia di violare, percorrendoli, luoghi che non sono fatti per l’uomo. […] L’alpinismo è anzitutto una questione spirituale; nessuno si sognerebbe di sobbarcarsi a certe fatiche, e d’esporsi a certi pericoli, se l’animo non vi trovasse un indiscutibile appagamento. L’alpinismo è un’affermazione della propria personalità sulle forze avverse della natura: l’alpinismo è un combattimento senza nemici, un combattimento infine ove anche le vittorie più belle non sono macchiate dal dolore causato ad un vinto».
Concettualmente magnifico. L’alpinismo è tra le massime nostre affermazioni (guardate come è composta la parola af-ferm-azione) contro il divenire entropico delle cose. Un passo fermo di fronte al nulla. Un lampo di gioia nel divenire irreversibile delle cose. Un tesoro non sottoposto ad omologazione.
Il team, composto di Alberto Peruffo, Anindya Mukherjee, Cesar Rosales Chinchay, Francesco Canale, Davide Ferro, Andrea Tonin ed Enrico Ferri, alla fine della spedizione
Partirò dunque in cerca dei cinque tesori. Per divergere dal solito andare. Da quel divenire che tutto mangia e uniforma. Sia esso quotidiano, nelle cose di casa, sia esso universale, nelle cose del mondo. Entrambi inevitabili, ma non per questo affrontabili… a modo mio. Sub specie mia vita. Io, libero e consapevole, affacciato sui limiti del mondo e della conoscenza.
Partirò perciò in cerca di nuove vie. Del corpo, della mente, dello sguardo. Chissà mai cosa capiterà, o vedrò? E che conseguenze avranno queste mie esperienze, queste mie visioni… sulla mia vita. E su quella dei miei cari.
Siamo alla fine. Sulla soglia di una scoperta che sorvola le discipline, l’alpinismo.
Ritorniamo con forza su Mallory, al suo «perché l’Everest?», l’Himalaya, il Kangchenjunga?
Rispondo: «Perché è là, ma Edmund Hillary e compagni non hanno visto tutto ciò che si poteva e doveva vedere». Si sono dimenticati dei cinque tesori, o almeno di buona parte, e io non posso restare quieto, accontentarmi della loro visione. Chi non mi dice – se non la mia fatica e la prova sul campo – che io vedrò qualcosa di più? Che troverò – io, me stesso – parte di quei tesori nascosti da Guru Rimpoche?
«Posso fare questo, ma anche devo».
Non è solo un potere dell’uomo. Ma anche un dovere.
Il dovere di continuare ad affacciarsi sui propri limiti e su quelli del mondo, con occhi nuovi; seppure dalla stessa cima! Il punto di vista può essere lo stesso, ma la visione diversa.
Se sarò di ritorno – e avrò visto qualcosa di nuovo, uno di quei tesori – sarà mio dovere raccontarvi qualcosa.
Se non racconto, quel tesoro morirà con me e io morirò con lui, e la mia stessa esperienza potrebbe essere nient’altro che un sogno. Che non ho realizzato. O che non saprò veramente se sia stato reale, accaduto, perché non l’ho condiviso. Comunicato. Messo in comune. La scoperta filosofica finale: l’uomo ha bisogno di comunicare per essere reale. L’altro da noi è fonte di realtà. È un principio di realtà che non possiamo mai trascurare. Anche se ci trovassimo a vivere da soli separati dal mondo come nel capolavoro assoluto di letteratura – proprio per questa intuizione – di Marlen Haushofer, La parete, ambientato guarda caso in montagna.
Parto, mi metto in viaggio – alla resa dei conti – per un principio di realtà. Per avere nuove visioni. Per poter continuare a credere di poter vedere ancora. Anche cose che forse nessuno ha mai visto. E raccontare questa straordinaria avventura a qualcuno. Fosse questo qualcuno anche una parte di me, che lascerò dopo di me. Un quaderno. Un confronto leale con me stesso e con il mondo. Non vorrei infatti che tutto ciò che ho visto fosse un sogno. La mia stessa vita. Perciò parto soprattutto per difendere la mia misera, sincera, straordinaria, condizione di uomo. Misera, sincera, straordinaria, condizione di uomo. Ecco il punto: voglio continuare a pensare; camminando; insieme.
Il Kangchenjunga dallo Zemu Glacier
Ma Jian aveva ragione. Mancava solo l’ultimo terzo.
Su questo e altro sto completando L’ARTE ARMATA E LA RELIGIONE DISARMATA – Sequenze teoretiche e conseguenze pratico-politiche della Prima Formulazione del Realismo Costituito.
Sono, siamo, finalmente alla risposta memorabile, articolata in tre varianti a seconda che l’interlocutore abbia una predisposizione materiale, geografica, filosofica. Ogni risposta ha una dominanza, ma contiene le altre due.
Dunque, che senso ha una spedizione in Himalaya oggi?
1. Parto in cerca dei cinque tesori della grande neve, ancora non trovati.
2. Parto perché l’Himalaya (l’Everest, Il Kangchenjunga) è là, ma colui che ci è stato prima di me (coloro che ci sono stati) si è dimenticato di guardare dove era necessario.
3. Parto per zone remote e ostili, in parte esplorate, perché voglio continuare a pensare. Camminando. Insieme.
Ogni risposta è valida e aprirà l’immaginazione del nostro interlocutore.
Tutto il resto è paura.
Montecchio Maggiore, 8 marzo 2013
Per un resoconto della spedizione leggi qui.
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Bisogna darsi il tempo di leggere e bisogna prendersi il tempo per riflettere… e non è così semplice come potrebbe sembrare. A suo tempo ho letto questo scritto e poi ho seguito la spedizione e il suo rientro. Ora l’ho riletto e aumenta il rispetto verso la coerenza e l’onestà intellettuale di Alberto Peruffo.