Exploring “New Rocks”

Exploring “New Rocks”
di Walter Polidori
La passione per l’apertura di nuove vie è qualcosa che ti rimane dentro, se ce l’hai.

Nessuna ripetizione di via esistente potrà mai regalarti le stesse sensazioni, neanche la più bella e difficile, questo è ciò che penso.

Nella mia storia alpinistica purtroppo non c’è stato un maestro che mi abbia potuto aiutare in questo tipo di attività, che mi abbia portato con sé durante le aperture e rivelato i piccoli segreti che solo l’esperienza porta a metabolizzare.

Però di fronte ad una sfida che anni fa mi ero trovato davanti agli occhi, involontariamente, avevo deciso di provare ed ero arrivato ad aprire la mia prima via, a 47 anni (meglio tardi che mai…). Avere salito una nuova via, Sogno Infinito, aperta con l’amico Simone, mi aveva spalancato gli occhi, la Particella della Mutazione mi aveva contagiato. Da allora sono seguite altre aperture, più o meno difficili, più o meno belle (ogni scarrafone è bello a mamma sua…), alcune penso degne di nota.

Di errori da autodidatta, nelle aperture, ne ho fatti sicuramente. Nella logistica, nella preparazione, nella scelta dei materiali, nella gestione della sicurezza, ma sbagliando si impara. Ogni salita è stata sicuramente una avventura, una esperienza indimenticabile.

Con me ho sempre avuto alcuni amici-soci di cordata senza particolare esperienza in merito, ma insieme siamo cresciuti.

Poco tempa fa mi è venuta l’idea di costituire un gruppo che avesse come principale obiettivo l’apertura di nuove vie. La novità sarebbe consistita nell’estensione della partecipazione in queste avventure ad altre persone scelte, principalmente (ma non solo) nuovi giovani istruttori della Scuola di Alpinismo Guido della Torre, con l’intento di trasmettere questa passione e l’esperienza accumulata da parte di persone con all’attivo almeno qualche apertura.

Questo gruppo, “New Rocks”, punta all’alpinismo più creativo, quello dell’individuazione di nuove pareti, nuovi itinerari, in poche parole all’esplorazione.

Non è facile trovare adepti per una attività del genere. Se fare alpinismo, arrampicare, prevede una componente di pericolo non indifferente, ecco che aprire un itinerario nuovo esaspera questo aspetto e richiede di spendere parecchie giornate per ottenere, forse, il risultato.

Ognuno stabilisce le regole del gioco in apertura, questo è il bello. Le nostre? Utilizzare, lungo i tiri, principalmente protezioni veloci e chiodi tradizionali, senza però disdegnare l’uso di fix quando l’impossibilità di proteggersi diventa marcata. Per le soste usare fix, salvo condizioni che permettano l’uso sicuro di altro.

Come scritto sopra, l’apertura di una via nuova è una avventura, senza dubbio. Però ogni persona vive l’esperienza in maniera differente, perché nessuno è una copia esatta dell’altro, nell’intimo nascondiamo un mondo che da fuori non si vede, mostriamo solo la cosiddetta “punta dell’iceberg”.

Di seguito il racconto degli apritori delle due vie per ora aperte dal gruppo, per cercare di condividere le emozioni provate.

NB: alla data dell’articolo, il gruppo è formato da Alessandro Ceriani, Claudio Boldorini, Pietro Ceriani e Walter Polidori.

La Particella della Mutazione, Pietro Cerio 95 Ceriani al fix appena piazzato alla base, 1° tentativo

Parete di Padaro
via La Particella della Mutazione
Apertura di una nuova via alla Parete di Padaro (Arco)
(la prima esperienza del gruppo)

A fine autunno 2023 abbiamo provato la prima esperienza di questo nuovo gruppo. La mia idea era di andare a fare una via alla Parete di Padaro (Arco di Trento), per poi verificare una linea vicina che avevo individuato tempo prima. Un bel gruppo di persone aveva aderito alla mia proposta: con me Alessandro, già socio abituale in altre aperture, e i giovani Luca, Claudio, Pietro. Di seguito l’avventura vissuta dal mio punto di vista.

25 novembre 2023, arrivati alla base della parete, sulla strada, troviamo Alessandro ad aspettarci, con la guida di arrampicata della Valle del Sarca aperta, in mano. Sta studiando la parete.

Walter:
Ale, cosa stai guardando?

Ale:
Vedi, tra queste due vie c’è una larga fascia di parete vergine. Potremmo andare a vedere.

Walter:
Ok, vediamo dopo la via che stiamo andando a fare?

Ale:
Ma perché non proviamo subito ad aprire? Io ho dei chiodi.

Walter:
Beh, io ho anche il trapano e dei fix, li avevo portati per fare vedere ai ragazzi come si piazzano. Però non sono mica mentalizzato… Mi hai preso alla sprovvista!   

Ale:
Meglio, così hai dormito senza pensieri.

Walter:
In effetti hai ragione. Ok ragazzi, allora tentiamo!

Non ci è voluto molto a convincermi. Un attimo di silenzio statico cade sul gruppo, con qualche sospetto che la cosa sia stata premeditata; poi la curiosità prevale, come sempre.

Individuiamo una zona della parete interessante, poco dopo l’attacco della Via della Rampa, con dei punti logici da seguire. Un diedro sbarrato da uno strapiombo segna la direzione da prendere inizialmente. La linea che avevo adocchiato io, invece, si è rivelata poco fattibile.

La Particella della Mutazione, Luca Scotti, 1° tentativo

Ale oggi è in forma e determinato, tanto che si offre di partire ad aprire sul primo tiro. Come spesso capita in bassa quota, la roccia del primo tiro, vicina alla vegetazione, è sporca e spesso friabile. Alessandro parte per un viaggio dove utilizza pochissimi fix e tanto pelo sullo stomaco. Dopo un tratto per raggiungere un diedro, questo si rivela delicato, soprattutto per arrivare alla fessura sotto lo strapiombo che lo chiude. Poi un altro diedrino sporco e finalmente la sosta. Nel frattempo, a parte chi stava assicurando Alessandro, gli altri si sono dedicati ad un’opera costruttiva per creare dal nulla una bella cengia all’attacco, dove in precedenza c’era un tratto terroso scosceso e scomodo. Salendo da secondi abbiamo modo di constatare la difficoltà della lunghezza, almeno in queste condizioni. Ma nella mia testa vedo già la roccia pulita e il bel diedro dopo la pulizia che faremo. Claudio, ultimo a salire dei cinque, ha l’onore di disgaggiare un grosso masso in bilico nel diedro, che ha spaventato ognuno di noi durante la salita, col timore di farlo cadere sui soci che seguivano.

Un’altra lunghezza porta Alessandro ad una piccola cengia e a congiungerci con la Via della Rampa, dove facciamo sosta, cercando di studiare dove salire con una linea autonoma. Ormai è ora di tornare, ma un po’ più a sinistra della sosta dove ci trovavamo, un bel diedro dà buone speranze di apertura, e nella parte superiore, ricca di strapiombi, forse un tetto ad arco sarà la chiave per passare, lontano da altre vie.

La Particella della Mutazione, Alessandro Ceriani in apertura su L4

L’euforia è palpabile, soprattutto Claudio e Pietro hanno respirato quella piccola particella che, se trova l’ambiente adatto, può dare luogo ad una mutazione, quella che porta ad immaginare linee da salire su qualsiasi cosa di verticale troviamo nel nostro cammino. Pietro ha la possibilità di piazzare il suo primo fix, all’attacco della via, con grande soddisfazione.

Un weekend successivo ci vede tornare, per salire il diedro che abbiamo individuato a sinistra. Riesco a proteggermi con l’uso esclusivo di friend. Arrivato ad un albero secco, trovo un cordino con moschettone, che mi ha fa temere un tentativo da parte di altri. Continuando verso l’alto però non trovo segni di passaggio. Per evitare la zona dell’albero secco, con roccia polverosa, traverso a destra, raggiungendo una fessura dove posso godere della possibilità di piantare buoni chiodi tradizionali, fin sotto un tettino, dove seguo la fessura che forma con la parete, arrivando ad una zona molto vegetata. Anche qui trovo un cordino con maglia rapida, chissà chi lo ha utilizzato; più che soste di via, i due cordini trovati, su ancoraggi precari, sembrano testimoniare delle calate di emergenza o esplorative. Un provvidenziale traverso a destra, su roccia compatta, mi permette di evitare la zona vegetata. Proteggendomi con un fix, raggiungo un diedrino e arrivo finalmente al terrazzino sotto il tetto ad arco. Il tetto fa abbastanza paura, ma è anche esteticamente molto bello e costituisce la caratteristica principale della via. Alessandro inizia a salire su una bellissima lama, fino a raggiungere un primo tetto più piccolo. Le poche ore di luce però ci consigliano di scendere, per tornare la mattina dopo.

La sera ci gustiamo una cena in compagnia, nel “Cameron” dell’amico Furly, una sorta di rifugio dove si trovano spesso alpinisti che arrivano da ogni dove. Questa volta abbiamo il piacere di divertirci con i battibecchi scherzosi tra Marco Furlani e Alessandro Gogna, e mangiare e bere alla grande.

Il mattino dopo torniamo al nostro progetto. Il tetto dà del filo da torcere ad Alessandro, nonostante l’uso di fix. Attraversa sotto l’arco che forma, ed arriva sul suo bordo sinistro, dove sale in un punto “debole”, meno pronunciato, fermandosi poco prima dell’uscita. Le giornate corte non ci aiutano, e tra risalita dei tiri, bagordi del giorno prima, difficoltà da superare, decidiamo di attendere giornate più lunghe per tornare. In queste due giornate abbiamo piazzato anche una corda fissa, per velocizzare la salita successiva. È ben complicato per Alessandro raggiungere la sosta dove lo aspettiamo, perché si tratta di tornare indietro in un traverso difficile e strapiombante. Anche questa operazione ci costa parecchio tempo.

La Particella della Mutazione, in arrampicata su L6 dopo la pulizia

Sarà necessario attendere giornate un po’ più lunghe, con grande “sacrificio”. Il tarlo della via si è insinuato nella mia testa, portandomi spesso a rivedere le foto della parete, per giocare con le idee sulla linea da seguire più sopra, dall’apparenza bonaria.

Dopo un mesetto ci ripresentiamo all’appello. La cordata, ormai collaudata, è costituita da Alessandro, Claudio e me. Claudio si sta dimostrando un ottimo elemento, assetato di avventura e con la voglia di imparare e dare una mano, la particella della mutazione lo ha contagiato definitivamente. Troviamo un weekend bello e soleggiato, ma purtroppo con temperature molto basse. Arrivati sotto il tiro del tetto ad arco, dei bei candelotti di ghiaccio pendono sopra di noi.

Grazie alla fissa, Alessandro sale abbastanza velocemente a raggiungere l’ultimo fix piazzato la volta precedente. Poi lavora per uscire dal tetto ed arrivare finalmente ad una zona meno aggettante. Io chiudo la cordata, svincolando la fissa dal tiro, perché scendendo in doppia sarebbe difficile farlo, visto l’andamento molto di traverso.

Sopra purtroppo si vedono molte zone vegetate, e non così facili come invece sembravano essere nelle foto fatte. Parto cercando i punti di roccia più bella e pulita, e con un andamento non lineare trovo una bella sezione che ci porta alla base del grande diedro che si vede anche dal basso. Purtroppo, anche questo è disturbato dalla vegetazione, ma molto bello. Piazzando qualche protezione riesco a salire, e abbandonare il diedro dove si presenta troppo invaso dalla vegetazione, superando un altro muretto duro. Davanti a me ora c’è terreno più facile, anche se friabile. Salendo in obliquo verso destra, trovo una sezione bella e poi un boschetto, dopo il quale una zona più pulita e facile (poi abbiamo scoperto che si tratta dell’ultimo breve tratto della via Cristallo) mi permette di raggiungere il bosco sommitale, dove parte una evidente traccia che porta alla discesa.

I miei soci, fermi da un po’ in sosta, salgono intirizziti dal freddo, ma siamo felici! Finalmente, dopo tanto lavoro siamo arrivati in cima, seguendo quasi fedelmente la linea che, dal basso, avevamo immaginato nella testa. È come ottenere la materializzazione di un pensiero, una cosa astratta che diventa concreta.

La discesa, nonostante l’incombente buio, la troviamo abbastanza agevolmente. Già fatta più volte per scendere da altre vie, individuiamo la linea di calate in centro parete e arriviamo alla macchina senza problemi. L’ultima doppia spettacolare, completamente nel vuoto, al buio e con i paesi illuminati dalle luci, è stata un po’ inquietante, ma spettacolare!

Penso che col tempo dimenticherò le fatiche e le paure provate in parete, ma gli abbracci scambiati in cima, le facce stanche piene di soddisfazione, l’euforia di avere fatto qualcosa di assolutamente inutile ma piena di significato per noi, quelli non li dimenticherò.

Una via del genere, in bassa valle, ha però il problema di essere spesso disturbata da vegetazione, foglie, zone terrose, massi appoggiati. Si potrebbe anche lasciarla nello stato in cui è stata aperta, tanto la soddisfazione rimarrebbe. Ma c’è un altro tipo di soddisfazione che si può ottenere: pulire la via e vedere venire alla luce del sole zone di parete, fessure, appoggi e appigli insospettabili è qualcosa che va al di là del miglioramento per l’arrampicata. Si tratta di estetica, di salire una linea bella anche da vedere. Come dice Alessandro Gogna, in questo caso si parla di “vie costruite”, nel senso che sono migliorate e la mano dell’uomo è evidente. Non si tratta però di scavare prese, solo di rendere più piacevole e sicura la progressione, per quella che Heinz Grill chiama “arrampicata ritmica”. Potrebbero nascere delle discussioni riguardo l’etica utilizzata. Questa è stata la nostra scelta, prima di tutto per godere noi stessi di qualcosa di bello, e poi per permettere ai possibili ripetitori di goderne altrettanto. Non ci si aspetti una via ripulita e in sicurezza come quelle di Grill, tanto di cappello a lui e alla sua squadra, fanno dei lavori fantastici. Nel nostro piccolo, con qualche giornata di lavoro abbiamo già fatto molto.

A proposito della prima giornata di pulizia, giusto il giorno seguente a quello della chiusura della via, abbiamo avuto un po’ di problemi: prima di tutto l’individuazione della traccia che passa sopra la parete, trovata solo al secondo tentativo, e poi l’individuazione dell’uscita della via, per calarci dall’alto. Dato che in apertura eravamo usciti dalla parete al limite delle tenebre, la traccia che sembrava scontata è stata difficile da trovare, così da impiegare tre ore (!) per raggiungere la sosta di fine via in vetta, da dove calarci per fare il nostro lavoro. Ma questa è un’altra storia, in seguito un’altra giornata piena è stata necessaria per mettere a nudo la bellezza di alcune lunghezze, con una soddisfazione speciale.

La Particella della Mutazione, cartelli di warning durante l’apertura

Voglio ringraziare i miei compagni di cordata, Alessandro Ceriani e Claudio “Boldo” Boldorini, e quelli venuti nella prima delle varie giornate, Pietro “Cerio 95” Ceriani e Luca Scotti.

Una salita, anche se bellissima, non conta nulla se non la effettuiamo con persone che stimiamo e a cui siamo affezionati, amici veri.

Commento di Alessandro Ceriani
Lunedì 23 gennaio, giorno successivo al weekend in cui abbiamo finito la via: entro in casa dopo il lavoro, scambio una battuta con Mariaelena che dal nulla commenta “sei leggero oggi, lo sei da quando sei tornato ieri sera, deve essere stato un bel weekend”. Mi domando, quindi, istintivamente se durante il fine settimana precedente mi sia divertito di più mentre alla base mi sono infilato di fretta il casco vedendo continuamente cadere sassi grossi come mele (che ho capito solo poi essere dei pezzi di ghiaccio che si staccavano dalle stalattiti sotto lo strapiombo), oppure quando nella traversata sotto lo strapiombo avevo l’insensata paura che tutta la montagna mi cadesse addosso. Ma no, probabilmente il momento migliore è stato quando avevo quello zaino così pesante e carico di materiale che su un passaggio di V+ ho azzerato il passaggio con un tale affanno che non avrebbe avuto nemmeno un Coreano sovrappeso impegnato sul collo di bottiglia al K2.

Sono perplesso dalle possibili risposte alla mia domanda.

Probabilmente la risposta vera sta nel nome di questa via. Difficilmente un fisico vi saprà dire quale sia l’interazione tra questa particella e l’umore umano. Di sicuro un alpinista “della domenica” che ne ha vissuto la mutazione vi potrà dire quanto faticosi ma estatici siano i lunedì in ufficio.

Punta Todeschini
via Z di Zarro
Apertura di una nuova via sulla Bastionata del Lago di Lecco

Dopo anni passati a guardare “col naso all’insù”, con la curiosità di vedere qualcosa mai vista ma che c’è da sempre, ho capito che non bisogna dare nulla per scontato. Mi riferisco a pareti e/o linee vergini (o quasi…). Anche se una parete è visibile dalla strada, anche se ci passa proprio sotto un sentiero, non è detto che non si trovi una linea da salire

Nel dicembre 2023, andando per la prima volta a fare qualche tiro alla falesia Promesse nel Sole, alla Bastionata del Lago di Lecco, mi sono imbattuto in una zona nuova per me. Per arrivare alla falesia, con un avvicinamento brevissimo dal parcheggio, si passa sotto la direttiva di una parete molto strapiombante, che culmina con una piccola torre. Alla sua sinistra sale uno spigolone che fa parte di una torre vera e propria, collegata al resto della parete. L’ho vista di sfuggita, e ho fatto una pessima fotografia, nella luce del tardo pomeriggio.

La mia curiosità mi ha portato a cercare sulle mie guide e sul web se questa parete è citata da qualche parte. Difficile individuarla nella guida CAI-TCI Le Grigne, dove vengono riportati una miriade di itinerari su strutture per lo più a me sconosciute; la mancanza di fotografie di insieme rende improbabile trovare risposte certe. Nel web e in una guida di Eugenio Pesci ho però trovato informazioni sul grande strapiombo della parete, chiamato Antro di Pradello. Lì sono nate, in tempi recenti, due vie sportive molto difficili: Hotel du’ lake e La banda del Mercoledì, ma sullo spigolone di sinistra sarà stato aperto qualcosa?

Z di Zarro, Claudio Boldo Boldorini in apertura su L1

Il giorno del mio compleanno, 26 gennaio 2024, mi sono regalato una giornata col mio fidato amico peloso, Tigro (si tratta di un cane, non di una persona villosa…). Dopo una camminata, sono andato alla base della torre, con lo scopo di fare fotografie da studiare e la speranza di non individuare segni di passaggio di altre cordate. Dopo aver fatto una miriade di foto, sono stato colpito per un attimo dal luccichio di un punto illuminato dal sole in quel momento. Di fretta mi sono messo a fare foto ingrandite, con l’amara sorpresa di vedere un chiodo con moschettone, a cui è fissata una corda. Tornato a casa, un po’ sconsolato, mi sono messo a studiare le fotografie, individuando un lungo tratto dove è presente una corda fissa. L’aspetto della corda fa pensare a qualcosa di molto vecchio, ma chi l’avrà messa? Ho quindi sentito Eugenio Pesci (grande conoscitore del lecchese, tra l’altro uno degli apritori all’Antro di Pradello). Da sue info, si sarebbe potuto trattare di un progetto di Fabio Valseschini, di almeno dieci anni prima. Contattato Valseschini, mi ha scritto testualmente “sì, ero andato anni fa per giocare un po’, ma se hai visto una linea vai a bomba”.

Potevamo esplorare la parete! Certo, Fabio Valseschini aveva già fatto tanto, ma sicuramente non avremmo utilizzato la sua fissa (anche perché veramente datata) e per la linea di salita avremmo avuto ampio margine di gioco per salire su terreno vergine.

Il gruppo per l’apertura ormai era stato battezzato, i New Rocks erano pronti a divertirsi.

La torre, con la sua roccia dal colore variegato, ha un fascino a cui non è facile sottrarsi. Placche grigie dall’apparenza bonaria la sorreggono, poi la roccia diventa verticale a difendere l’ultimo tratto strapiombante. Dalla base la prospettiva schiaccia la torre, e la fa sembrare più bassa rispetto alla realtà.

16 marzo 2024, Claudio Boldo ed io iniziamo l’avventura. Ale non c’è per impegni di lavoro, e Pietro Cerio 95 ha ricevuto nella notte una chiamata per un intervento di soccorso alpino; ci raggiungerà più tardi.

Con un avvicinamento ridicolo, e l’attacco a pochi metri dal sentiero, non mi sembra vero che stiamo aprendo una nuova via. Boldo mi dice che vorrebbe provare ad andare da primo in apertura. La cosa mi rende felice e orgoglioso del giovane amico, così che parte lui ad aprire le danze. Il tiro fila liscio, ma come ci renderemo conto anche nei successivi tiri, spesso non si riesce a chiodare o ad utilizzare protezioni veloci, così facciamo uso anche di fix, in maniera parsimoniosa. Fatta la sosta del primo tiro, arriva giusto in tempo Cerio per salire con me. La roccia non è male, ma ci sono detriti e prese da verificare, occorre mantenere alta l’attenzione.

Ora parto io. La parete qui comincia a verticalizzarsi, così mi trovo ad aggiungere protezioni: chiodo, fix, chiodo, friend, cordone, fix…, fino in cima ad un caratteristico masso arrotondato. Sarei tentato di andare a destra, ma vedo che la corda fissa del Valseschini passa da lì, vedo anche dei fix. Quindi esco a sinistra, con gli ultimi metri un po’ vegetati; sarà una zona da ripulire. Ora è la volta di Cerio aprire il prossimo tiro. Anche per lui è la prima volta da primo in apertura. Sale una zona friabile, dove in seguito abbiamo disgaggiato grossi massi, raggiunge un camino e opta per uscire a sinistra, su roccia molto bella. Il tiro è ancora da completare, ma preferiamo affrontarlo in un’altra giornata. Ci rimane del tempo, così Boldo ed io, mentre scendiamo in doppia, puliamo tutto il possibile, portandoci avanti col lavoro, e dopo un po’ raggiungiamo la base. Vista la parete dall’ultimo tratto raggiunto, non sembrava avessimo davanti un dislivello importante, ma raggiunta la macchina e guardando quel punto, ci rendiamo conto che avremo molto lavoro ancora da fare!

L’importante è avere iniziato l’avventura, così da innescare quel meccanismo, quasi maniacale, che fa continuamente pensare all’apertura in corso, e desiderare di tornare a continuare la salita.

Z di Zarro, Pietro Cerio 95 Ceriani in apertura su L3

Infatti, dopo una settimana, con tempo previsto abbastanza buono, decidiamo di proseguire. La risalita della corda fissa piazzata la volta prima ci permette di raggiungere velocemente la seconda sosta, da cui Cerio riparte per finire il terzo tiro. Ne viene fuori una bellissima lunghezza, la seconda parte del tiro è su roccia magnifica, con un traverso ascendente ed uno strapiombo in uscita che portano questo tiro al primo posto in bellezza nella via. Riparte Claudio, su tratto verticale e arrivando alla cengia alberata intermedia. Da qui raggiunge la parete passando per un camino molto marcio e pieno di blocchi in bilico. In questi ultimi metri ha seguito la corda fissa del Valseschini, che fino ad ora avevamo evitato, arrivando a fare sosta sui fix dove è legato l’ultimo tratto di fissa. Il tratto finale è troppo pericoloso, per cui decidiamo di calarci alla cengia e provare a salire più a destra.

Individuo una buona zona e salgo su gradoni, ma purtroppo anche qui trovo una sosta, che penso essere del Valseschini. Mi fermo qui a sostare, poi proseguo su un tratto logico di parete verticale, con lame. Non vedo protezioni sopra di me, ma salendo più sopra trovo due chiodi e un fix e arrivo ad un’altra sosta già pronta. Peccato per questo tiro che abbiamo ricalcato, però in questa zona di parete non è facile trovare altro, si passa dal molto friabile al molto compatto, con poche vie di mezzo.

Siamo stanchi, decidiamo di scendere e pulire parzialmente quanto fatto, arrivando alla base della torre belli cotti.

6 aprile 2024, potrebbe essere la volta buona per chiudere la via. C’è anche Alessandro, così che il gruppo è al completo. Dopo la risalita delle corde, sale Alessandro in esplorazione, con il timore di trovare altri segni di passaggio. Dopo un breve tratto facile, Ale sale in una zona difficile a destra, dove sicuramente nessuno è passato, evitando una zona più vegetata a gradoni a sinistra (probabile linea dei primi salitori). Un traverso lo porta poi ad una piccola cengia, dove purtroppo trova un’altra sosta. Ormai abbiamo capito che qualcuno ci ha preceduti sulla cima, ma continuiamo. Saliamo su una bellissima placca con fessure, ricalcando il tiro presente, fino alla sosta successiva. Rimangono solo un piccolo zoccolo friabile e la torre finale da salire. I fix dell’altra via salgono, su roccia compatta, l’ultimo tratto verticale/strapiombante della torre, ma per orgoglio salgo più a sinistra, puntando ad una zona con diedri che si dimostrerà molto friabile e pericolosa, ma almeno raggiungiamo la cima con una lunghezza autonoma. In cima vedo, leggermente più in basso, un fix dell’ultima sosta dell’altra via.

Z di Zarro, Boldo e Cerio 95 alla S5

Arrivati tutti e quattro in cima siamo comunque soddisfatti: alla fine la nostra via è indipendente, salvo due lunghezze. Inoltre, alcuni dei nostri tiri sono molto belli; c’è da festeggiare!

Il resto della giornata lo impegniamo a scendere in doppia, togliere le nostre fisse, sistemare qualche particolare, e… risalire le corde in un tratto dove si sono bloccate… (grazie Cerio!).

La festa a Valmadrera Valma Street Block conclude degnamente la giornata, proprio di fronte alla nostra via.

Complimenti ai miei amici-soci di cordata, ognuno di noi ha aperto dei nuovi tiri, spesso impegnativi e mai troppo chiodati, un bel lavoro di gruppo!

Ma ora è venuto il momento di pensare al prossimo progetto. Quando arrivi in cima continua a salire…

NB: solo dopo aver pubblicato sui social alcune foto e commenti sulla via aperta, chiedendo anche se qualcuno avesse informazioni sulla via che arriva in cima, ho saputo che le corde fisse arrivano al culmine di un vecchio progetto (circa 10 anni fa) di Fabio Valseschini, Claudio Cendali e C. Clozza, abbandonato al termine della fissa.

Fino a quel punto abbiamo salito una linea indipendente, più a sinistra (primi 4 tiri).

Claudio Cendali, con Fabio Todeschini, hanno proseguito la via nel novembre 2013, fino in cima, denominandola Colonne Doriche. I primi salitori hanno dato alla torre il nome di Punta Todeschini. Poi, nell’ ottobre 2014, hanno fatto qualche miglioria/variante.

Per motivi legati alla conformazione della parete, abbiamo replicato alcuni tiri di quella via:
– nel V tiro;
– qualche metro nel VI tiro, dove abbiamo però continuato su una linea autonoma più verticale a destra;
– nel VII tiro;
– l’ottavo tiro sale una linea indipendente a sinistra, che però si svolge su roccia pericolosa, nonostante la parziale pulizia (i primi salitori dovrebbero essere saliti ancora più a sinistra nella salita del 2013, raddrizzando in seguito la via a destra, su pilastro compatto).

Per quanto possibile abbiamo ripulito le lunghezze percorse, comprese quelle della via Colonne Doriche che abbiamo seguito.

Z di Zarro, Alessandro Ceriani agli ultimi metri della L8, poco sotto la cima

Commento 1
di Claudio Boldorini
Che cos’è la felicità? Felicità è sdraiarsi nel proprio letto la sera e addormentarsi senza neanche rendersene conto, vista la fatica fisica o mentale che ha riempito la giornata. È l’aver vissuto una giornata da ricordare, una di quelle che si segna nel calendario della coscienza e che non finirà nell’oblio della mente, qualsiasi cosa possa accadere nella propria vita.

Ogni essere vivente ha un modo personale per vivere questo percorso. Quello di noi mutati dalla particella tanti lo definirebbero folle, un hobby rischioso, da non incentivare. Ma è una mutazione casuale e fulminea, che ti colpisce senza preavviso.

Ci svegliamo la mattina alle cinque, affrontiamo ore di viaggio in macchina per andare a sudare e faticare, prendere sassi in testa e tornare a casa sfiniti la sera. Non lo facciamo per la gloria, per i soldi o per cos’altro possa passare nella testa di ogni umano, ma è semplicemente la ricerca di un brivido che ti elettrizza e che ti conduce alla gioia.

La mattina del 16 marzo, in compagnia di Walter e in attesa dell’arrivo del Cerio, sceso dalla macchina guardo il mio zaino notevolmente carico, con più di un centinaio di metri di corda fissa ad accompagnare tutto il materiale che potrebbe servire per aprire una nuova linea di roccia, fix, chiodi, martello e quant’altro; questo intimorisce i miei muscoli freddi, ancora addormentati per il freddo e l’orario decisamente mattutino. Ma una volta caricato in spalla il grosso macigno, la fatica non la sento, l’adrenalina che scorre nelle vene rende lieve ogni fatica, la carica è tantissima, le aspettative molte, paura poca, nascosta in un angolo del cuore.

In breve giungiamo sotto alla parete individuata da Walter, sappiamo dove partire e sappiamo vagamente dove arrivare, ma il percorso ce lo dobbiamo inventare, senza conoscere il grado, la solidità della roccia, la proteggibilità o qualsiasi altro dettaglio che di solito possono rendere piacevoli queste nostre piccole avventure. Davanti alla muraglia il sentimento che emerge nel mio profondo è il sublime, che il grandissimo filosofo Arthur Schopenhauer definisce “il piacere che si prova osservando la potenza o la vastità di un oggetto che potrebbe distruggere chi lo osserva”. Ma approfitto del ritardo del Cerio, che avrebbe voluto aprire il primo tiro e dico a Walter:

“Vado io sul primo”.
“Sei sicuro? Te la senti?”.
“Sìsì, certo”.

Negli occhi di Walter si intravede orgoglio, forse anche un po’ di gelosia nel lasciare a me le prime manate su quella roccia grigia apparentemente buona e compatta. Ma capisco che è la cosa giusta da fare, voglio partire per sbarazzarmi di tutti i pensieri che affastellano la mia mente.

L’imbrago è molto carico, alla fine di ognuna delle tre giornate mi lascerà due bei segni sui fianchi per il peso eccessivo che non sono abituato a sopportare, ma infilo le scarpette e parto. Ci vuole qualche metro di arrampicata per prendere confidenza con la nuova attività che sto svolgendo, devo sciogliere i muscoli, ma soprattutto sciogliere i pensieri. Pochi metri, vedo poca roccia proteggibile, credo sia più ansia e inesperienza che roccia realmente brutta, ma mi forzo, contro i miei principi etici arrampicatori, e salgo. Walter dal basso mi dice “metti uno spit”. Vorrei non farlo, mi piacerebbe fare un qualcosa di più tradizionale, ma capisco che mi devo calmare se voglio proseguire. Va bene. Spit sia. Da quel momento in poi, solo divertimento.

Gli occhiali, che errore da pivellino aver dimenticato le lenti a contatto, smettono di appannarsi; significa che il mio corpo sta smettendo di reagire alzando la temperatura e facendomi sudare. Il mio cervello capisce che sono nella mia dimensione verticale, quel luogo in cui riesco a fondermi con la natura e a diventare un tutt’uno con la roccia.

Questo è il mio stile di arrampicata: i risultati migliori li ottengo quando sviluppo un sentimento panico con la montagna, quando mi rendo conto che lei è mia amica; non sono un uomo che lotta con l’alpe, non mi sento in dovere di conquistare nessuna cima, parete o montagna. Quando mi metto in testa di voler sconfiggere il tiro, di dover conquistare il grado, inevitabilmente vengo respinto e rimango frustrato. Ma quando il panismo prende vita in me, allora la montagna capisce che sarò gentile con lei, che saremo amici. Apre le sue porte e mi permette di passare, in un’arrampicata gentile e amichevole, in cui le chiedo di andare più in alto solo per potermi divertire, non per il vanto della conquista, ma per tornare a casa e sentirmi felice.

Rannicchiata nell’angolino del cuore la paura è sempre pronta a emergere, ma quando divento un tutt’uno con la parete, quando la tratto con cortesia e amore, quando la considero un’amica cortese e imponente, mi rallegro e non penso ad altro.

E così concludo il tiro: un chiodo dentro male, su cui non si può cadere, ma sono consapevole che la mia amica mi terrà attaccato a lei; così fino alla sosta, dopo circa una quarantina di metri su roccia abbastanza instabile, di cui prenderò consapevolezza solo nei giorni successivi di apertura quando salirò da quarto e ripulirò il tiro.

Le giornate di ascesa proseguono con il bellissimo lavoro di Walter e di Cerio, che aprono delle bellissime linee. Ancora una volta poi tocca a me: nuovamente roccia marcia, da disgaggiare. Ma anche questa volta, dopo i primi tre metri, mi tranquillizzo e, pur rendendomi conto dei blocchi instabili, mi sento tranquillo. Quando Walter e Cerio arrivano alla sosta, decidiamo di scendere qualche metro e cambiare un poco linea perché il diedro non appena percorso è realmente troppo precario e pericoloso per i futuri ripetitori della via; ma io stavo dialogando con un’amica, non ho avuto di che preoccuparmi.

Ancora Walter e poi anche Ale, che apre due lunghezze, di cui la seconda stratosferica, solo a friend. Che forza mentale. Si arriva a poche decine di metri dalla vetta. Decido di tentare l’ultimo tiro, anche se davanti a me la roccia appare ancora più brutta dei tiri precedenti. Inizio, nei primi metri sono tranquillo. Ma poi giungo a una cengettina da cui parte un diedro che in questo momento, con la mia poca esperienza, è davvero troppo. Ci voglio comunque provare. Primo avvertimento della montagna: “Dodo, di qui non passi”. Dodo è il nome che utilizza la mia famiglia, una storpiatura che mio fratello mi ha assegnato il giorno che sono nato e che mi segue ancora oggi, a quasi trent’anni di distanza, tra le persone che mi vogliono bene e che mi conoscono nel profondo. La montagna me lo dice gentilmente, lasciandomi un pezzo di se stessa in mano, ma senza farmi cadere. Però ci voglio riprovare. “Dodo, oggi no…”, mi riavverte una seconda volta, senza però voler infierire su di me. Lo capisco. Non sono un alpinista eroico, non sono un conquistadores o un comandante; io credo nella gentilezza, nel trasmettere i messaggi, le emozioni e gli insegnamenti con pacatezza e amore, creando rapporti di cortesia con ciò che mi sta intorno. Ma non la considero una sconfitta, sono veramente felice comunque, capisco il limite, non posso tirare la corda più di ciò che ho fatto. In più c’è dietro Walter, su cui posso fare affidamento cieco.

“Walter, non so come passare. Prova tu e vedi se riesci”, consapevole che nel giro di un’ora sarò al culmine di Z di Zarro, passando per un diedro che solo un mutato potrebbe pensare di scalare.

La sera Valma Street Block, birra per festeggiare, sorriso stampato e occhi cadenti. Ma quando mi infilo sotto le coperte, da lì a poche ore, sono felice.

Questa è la felicità, la mia felicità.

Z di Zarro. Da sinistra, Cerio, Ale, Walter e Boldo dopo l’apertura

Commento 2
di Pietro Ceriani
Devo dire che l’idea di aprire una nuova linea è qualcosa che mi ha sempre incuriosito, specialmente dopo che a novembre ho avuto modo di assaggiare in piccolo questo mondo, partecipando con Walter, Claudio, Ale e Scotti alla prima giornata di apertura della via La particella della Mutazione a Padaro; linea a cui non ho più dato seguito perché nel periodo successivo mi sono ritrovato impegnato nell’inseguire altri due progetti (gli ultimi moduli del corso Operatore Soccorso Alpino ed il viaggio in Patagonia).

Però quella particella in effetti aveva scavato e stava germogliando, complice forse anche l’entusiasmo del ben riuscito viaggio. Così, quando durante un mercoledì sera Walter propone di andare a mettere mano a quel pilastro vicino alla falesia di Pradello accetto subito, e forse un po’ per spacconeria, un po’ per entusiasmo, un po’ perché, se c’è da aprire nel lecchese (terra dove sono alpinisticamente cresciuto e a cui mi sento particolarmente legato) non posso tirarmi indietro, e un po’ per incoscienza la butto lì: “Raga, andiamo, ma il primo tiro lo apro io!” (nota, non sarà così). La mia unica condizione: “andiamo solo se fa una settimana di asciutto e se non c’è vento”, purtroppo da buon frequentatore della zona sono ben conscio che in tali situazioni le pareti del lago diventano dei bellissimi poligoni di tiro per le rocce che cadono dall’alto. Così tutto è deciso, il 16 marzo metteremo le mani sulla parete.

Sfiga vuole che il giorno prima, verso mezzogiorno, venga chiamato per un intervento di soccorso abbastanza impegnativo che mi vedrà tornare a casa alle 3.30 di mattina, completamente stremato. Però ho speso parola, ci sarei stato e non avrei voluto rinunciare a questa opportunità. Anche se a malincuore, o forse sollevato dalla cosa, avviso gli altri: “raga sono abbastanza tumefatto, voi iniziate e lasciatemi una fissa che vi raggiungo”.

Alla fine, da buon Alpinista EroTico, devo essere fedele al mio mantra, e quindi “Fico il Nuovo Mattino, ma vuoi mettere con una notte in After?”. Dormo una manciata di ore, faccio lo zaino al volo e corro a Lecco, giusto in tempo per salire assieme a Walter il primo tiro aperto da Claudio. Poi è il turno di Walter, ed infine il mio; non è il primo della via, ma almeno in parte mantengo la parola, e sono super entusiasta di questa esperienza. Senza neanche saperlo mi trovo ingaggiato nel tiro più duro della via, partendo ragliando in un bel squeezing chimney yosemitico (o almeno così l’ho poco elegantemente affrontato), uscendone sulla sinistra attirato da una splendida linea su calcare compatto. Completerò questo tiro la settimana dopo, corredandolo da numerose lamentele per (a mio dire) aver tirato su una “ciodera”. Peccato che dopo averlo percorso l’ultima volta con la fissa abbia pensato “io da qui non so come farò a passare!”. Va beh, lo scopriremo, magari ripetendola tra qualche tempo sarò il primo apritore a giocarsi un B&R (battere in ritirata) sul proprio tiro.

Il racconto dettagliato dell’apertura di tutti i tiri lo lascio alle parole di Walter. Di mio posso dirmi veramente soddisfatto di questi tre piccoli giorni grandi d’avventura tra le pareti che mi hanno visto crescere, dove sicuramente ho ancora molti altri progetti e poco importa se alla fine non siamo stati i primi a salire quella torre che attira l’attenzione di tutti coloro che si trovano a transitarvi sotto per andare a fare due tiri a Pradello. Quello che conta è che ci siamo messi in gioco, abbiamo vissuto questa bellissima esperienza, tra imbraghi troppo pesanti, disgaggi da veri pro, musica techno in sosta, dark humor di dubbio gusto (chiedete a Claudio e Ale se sanno cos’è l’esorcismo al contrario) e otto tiri aperti o riscoperti stando sospesi nella bellissima cornice del Lario, facendo quello che più ci piace.

Sperando di aver fatto un bel regalo anche a chi come noi, attirato da quella torre, deciderà di farci un giretto verticale per vederla da una diversa prospettiva.

Commento 3
di Alessandro Ceriani

È sabato 6 aprile, è mattino presto, siamo in centro a Lecco, colazione vista lago. Una sensazione di serenità mi pervade.

I miei soci hanno già fatto gran parte del lavoro aprendo cinque tiri e sono convinto che oggi ci sarà una bella conclusione. Percorriamo il breve avvicinamento e saliamo il percorso che hanno già disegnato.

Mi sento sereno. La vista di un lago che non vedevo da un po’ mi dà buone sensazioni. E intanto saliamo. Alcuni tiri sono davvero belli e il fatto che li stia scalando da secondo amplifica la sensazione di serenità. Nemmeno il traffico della strada sottostante può disturbare questa sensazione. Dopo cinque tiri, arriviamo al punto più alto raggiunto dai miei soci. Ci guardiamo e ci rivolgiamo vicendevolmente la domanda fatidica: “chi va!?”. Mi offro volentieri, solo con un po’ di timore che i miei compagni non ne abbiano a male visto il lavoro che hanno già svolto e a cui non ho partecipato. Mi concedono di buon grado di andare.

La serenità si interrompe. Nonostante la vicinanza alla civiltà, nonostante l’imbrago pieno di protezioni mobili e nonostante il trapano, l’incognita del terreno sconosciuto e la tensione verso una non meglio definita “estetica della linea”, interrompono la serenità a favore di una bolla di intensità. Dura un paio d’ore. Non la so descrivere. So per certo di averla vissuta. Ed in quel momento esiste solo quella. Termino due tiri di corda, lascio il comando a Walter per l’ultimo tiro.

La serenità riprende. C’è un bel sole e una brezza che lo rende piacevole. Solo per un attimo la bella sensazione è disturbata da un tiro che anche da secondo è talmente marcio da essere un po’ pauroso. Ma poi siamo in cima, buttiamo le doppie, ci scattiamo un po’ di foto ignoranti alla base, andiamo a berci un paio di birre.

E la serenità con cui la giornata è iniziata ci porta anche al suo termine.

Conclusione
di New Rocks
Cosa ci rimane di tutto questo? Di fatiche e paure, di levatacce, di sguardi complici e abbracci, di condivisione pura?

Tanto, ed è difficile da spiegare. Il suo valore non è estimabile, perché non è materiale, ma ti riempie anima e corpo, ti completa, ti rende felice e soprattutto ti fa sentire vivo in una maniera che non riusciamo a provare diversamente.

Ci rimane essere noi stessi, veri e senza filtri, l’essenza che nella vita di tutti i giorni fa fatica a emergere.

Avrà lunga vita questo gruppo? Non lo sappiamo, ma il presente sta regalando grandi emozioni.

Primi salitori
– 25 novembre 2023, 1° tentativo, I° tiro + tratto 2° tiro, Alessandro Ceriani, Walter Polidori, Pietro Ceriani, Claudio Boldorini, Luca Scotti;
– 9 dicembre 2023, 2° tentativo, 2° e 3° tiro + tratto 4° tiro Alessandro Ceriani, Walter Polidori, Claudio Boldorini;
– 10 dicembre 2023, 3° tentativo, 4° tiro, non completato, Alessandro Ceriani, Walter Polidori, Claudio Boldorini;
– 20 gennaio 2024, chiusura via, Alessandro Ceriani, Walter Polidori, Claudio Boldorini;
– 21 gennaio 2024, pulizia e sistemazione parte finale;
– 3 febbraio 2024, pulizia e sistemazione di tutta la via.

Accesso stradale
Autostrada del Brennero Mi-VE, uscire a Rovereto sud. Seguire per Mori- Arco di Trento, fino al paese di Arco.
In alternativa si può arrivare anche dalla strada Gardesana Ovest che porta a Riva del Garda e da lì ad Arco.
Provenendo dalla zona di Trento, si utilizza la strada che collega Trento alla Valle del Sarca.
Ad Arco individuare la strada che sale verso San Giovanni. Dopo il paese di Padaro, si va avanti in auto fino a quando la strada passa proprio sotto l’evidente parete. Si lascia l’auto in uno degli slarghi sulla strada.

Avvicinamento
Salire verso la parete, con un sentiero che si trova nei pressi del tornante a sinistra (guardando la parete). Seguire poi una traccia marcata che va a destra (non la prima che si incontra nella ghiaia), in corrispondenza di un sasso con indicazione del nome di alcune vie. La traccia porta alla base della parete, passando in prossimità dell’attacco della via Apollo e della Via della Rampa (scritte alla base). Continuare brevemente fino ad una zona dove la parete è leggermente più in alto. Entrare nel boschetto e raggiungerla.
Tempo: 15’.

Attacco
Nei pressi di una piccola cengia terrosa, a sinistra di una bella placconata. Alla base scritta rossa col nome della via e sosta su un fix con cordone.

Discesa
Dalla sosta finale seguire la traccia che va a sinistra. Poco dopo è visibile, più in basso a sinistra, una zona pulita con la sosta finale, della via Apollo. Salire nel bosco seguendo la traccia, che porta ad un breve salto roccioso. Salire lì, uscendo a sinistra (passi III), quindi traversare ancora a sinistra su roccette facili ma esposte, raggiungendo una traccia più marcata. Seguirla fino ad incrociare una traccia orizzontale, con ometti. Si continua traversando a sinistra (ometti e tracce), fino ad un certo punto dove la traccia scende verso la parete, arrivando ad un roccione con la cassetta metallica contenente il libro di parete di alcune vie. A destra di essa, su un altro roccione (poco visibile), si trova la prima sosta di calata, su due fix con cordone.

Indicazioni faccia a monte:
– doppia da 20 m fino ad una grossa cengia;
– si seguono tracce e indicazioni blu verso la successiva sosta di calata, che si raggiunge andando in discesa verso sinistra. Dopo un tratto nel bosco e zone con roccette facili da arrampicare in discesa si trova la sosta di calata (due fix con cordone);
– doppia da 40 m fino alla successiva sosta di calata, leggermente a sinistra in corrispondenza di un albero su una cengia (cordone su albero + fix);
– doppia da 50 m impressionante nel vuoto, fino ad un grosso intaglio che deve essere superato per raggiungere un avancorpo staccato dalla parete;
– si scende nel bosco verso destra e si arriva alla base della parete ed al sentiero che porta, a sinistra, alla strada dove si è parcheggiato.
Tempo: circa 1h.
In caso di emergenza è possibile calarsi sulla via (sconsigliato):
– scendere con attenzione da S8 a S7;
– doppia 1 da S7 a S6;
– doppia 2 da S6 a S5;
– doppia 3 da S5 a S4 (diretta, non sulla linea di arrampicata);
– doppia 4 da S4 a S3. Scomoda, la calata porta sui rami di un albero, da cui poi raggiungere S3;
– doppia 5 da S3 alla terza sosta della Via della Rampa, qualche metro a destra rispetto S2;
– doppia 6 direttamente alla base della via.

Difficoltà: VI+ e A2 obbligato (in libera fino VIII+?). I gradi indicati nella relazione sono da confermare.

Proteggibilità: R3, alcune zone S2.

Attenzione: Zone con roccia delicata a cui prestare attenzione.

Sviluppo: circa 245 m.

Materiale
Serie di friend fino al numero 3 BD (utilizzabile anche il n°4 BD). Soste attrezzate su due fix con cordone e maglia rapida (tranne quella di S1, senza cordone), l’ultima su albero.
Nei tiri qualche fix, chiodi e qualche cordone. Attenzione, fix da 8mm x 60mm.

Esposizione: est.

Tipo di roccia: buon calcare, qualche presa da verificare. Alcune zone sono state ripulite e presentano ancora roccia delicata, a tratti friabile (zone facili).

Periodo consigliato: fattibile tutto l’anno, ma in estate fa troppo caldo e in inverno occorre evitare le giornate con vento freddo.

Tempo di salita: circa 5 h per l’arrampicata.

Riferimenti bibliografici: al momento non esiste bibliografia contenente questa via, ma possono tornare utili, per conoscere le altre vie presenti, i seguenti riferimenti:
http://www.arrampicata-arco.com
Arco Pareti Vol. 1, Diego Filippi, Ediz. Versante Sud.

Relazione
Lunghezza 1: dalla sosta iniziale a salire verso sinistra una rampetta, raggiungendo la parete più compatta. Stare un po’ a sinistra (chiodo) e salire fin sotto uno strapiombino, quindi traversare a destra e salire verso un evidente diedro (passo difficile per entrarci). Continuare nel diedro, per poi spostarsi leggermente a destra in parete e raggiungere la fessura sotto un tettino (difficile). Uscire a destra e continuare in un diedrino meno compatto, con roccia più rotta (attenzione), al cui termine si trova una piccola lista rocciosa e la sosta sue due fix (35 m, VII e A1, max VIII? Nel tiro tre chiodi e diversi fix, alcuni con cordone);

Lunghezza 2: salire una rampetta a sinistra (albero con cordone), fin sotto un murettino (fix), da superare per arrivare ad una stretta cengia. Traversare a sinistra, non considerare un cordone (Via della Rampa, che sale verso destra) e arrivare alla base di un diedro con lame. Salire il diedro (nessuna protezione in loco), fino alla sosta, poco sotto un albero (40 m, V+).
NB: in corrispondenza dell’albero sopra la sosta è visibile un cordone con maglia rapida (calata di emergenza, tentativo di apertura?);

Lunghezza 3: traversare a destra e raggiungere una fessura verticale articolata. Salirla (chiodi), fino a quando si esaurisce, poco sotto uno strapiombo con lama. Raggiungere lo strapiombo e seguire la lama verso destra, contornando lo strapiombo, per poi salire verticalmente. Sotto un fix con cordone traversare a destra su parete compatta, raggiungendo una cengia erbosa. Qui salire un breve diedro articolato (chiodo con cordone), che porta ad un grande terrazzino, dove si trova la sosta su placca abbattuta (30 m, VI, breve tratto VI+).
NB: sul terrazzino è possibile traversare verso destra, su cengia con sassi, per raggiungere, dopo circa 20 m, una sosta su due fix (sosta del 4° tiro della Via della Rampa e del 4° tiro della Via del Cristallo).

Nell’albero sotto la sosta abbiamo trovato, fra i rami, un cordone con maglia rapida (calata di emergenza?), mentre sulla parete di fronte alla sosta della via è presente un isolato fix (?);

Lunghezza 4: salire verso il diedro, chiuso in alto da un tetto. I primi metri sono caratterizzati da una bellissima lama, poi la roccia diventa compatta (fix sotto il tetto). Superare il tetto, arrivando ad un muro verticale sbarrato in alto da un grande tetto ad arco da sinistra verso destra, che presenta una fessura alla sua base. Salire in diagonale verso sinistra, quindi raggiungere il tetto. Traversare a sinistra sotto di esso, fino a qualche metro dal suo termine. Un fix indica dove superarlo, in una zona dove è meno sporgente. Salire ed uscire leggermente a destra, raggiungere un tratto più facile e salire alla sosta (35 m, VI+ e A2, in libera VIII+? Sul tiro presenti un chiodo e diversi fix);

Lunghezza 5: salire a destra della sosta (chiodo). Più sopra, a sinistra di uno spigoletto, si trova un chiodo con cordone. Salire a destra rispetto al chiodo (albero con cordone), fino a raggiungere un bombamento con una breve ma bella fessurina (chiodo e due fix). Dopo di essa si traversa a sinistra, in placca compatta (pianta con cordone), fino a raggiungere rocce articolate (chiodo) ed entrare in un grande diedro, dove si sosta alla sua base, a sinistra (30 m, V, tratto VII);

Lunghezza 6: salire nel diedro sopra la sosta (chiodo e poi fix). Proseguire raggiungendo una parete a sinistra con fessure (chiodo). Tornare nel diedro e, arrivati quasi sotto lo strapiombo che lo chiude (due chiodi e un fix), traversare a destra fino ad una paretina verticale. Salire lì (due fix), raggiungendo la sosta subito dopo, a sinistra (25 m, VII);

Lunghezza 7: salire a destra della sosta per roccette facili ma delicate (fix), raggiungendo poi a destra una bella paretina con fessure e canne (cordino in clessidra). Dopo di essa si raggiunge una zona abbattuta e terrosa, si passa attraverso un boschetto (cordone su albero a destra, libro di via sotto gli alberelli a sinistra), e si raggiunge una sorta di canale ripulito tra gli alberi, ultimi metri della via Cristallo. Poco sotto, a destra, si può vedere l’ultima sosta di quella via. Salire nel canale e raggiungere la sosta, su un roccione a destra (35 m, IV+);

Lunghezza 8: seguire il canale terroso per gli ultimi metri, fino a trovare una traccia orizzontale. Sosta su albero con cordone (15 m, II).

Note
Via con linea molto bella, individuata da Alessandro Ceriani. La lunghezza del tetto ad arco la contraddistingue e la rende particolare ed esposta.

Nonostante diversi fix presenti, è da ritenere una via alpinistica classica, perché dove possibile sono stati usati chiodi e protezioni veloci.

Rispetto a come è stata trovata dai primi salitori, la via è stata ripulita da una buona parte di rocce e massi instabili e da arbusti e alberelli che ostacolavano la progressione.

Complimenti a Claudio Boldo, alla sua prima esperienza di apertura. La particella della mutazione ha dato i suoi effetti…

– 23 marzo 2024, 2° tentativo, fine III° tiro + IV e V tiro, Claudio Boldorini, Pietro Ceriani, Walter Polidori.

– 6 aprile 2024, chiusura via, Claudio Boldorini, Pietro Ceriani, Alessandro Ceriani, Walter Polidori.

Prima ripetizione: Fabio Valseschini e Irene Arlati, 14 aprile 2024.

Accesso stradale
Da Lecco seguire il lungolago sulla SS36, in direzione Colico. Dopo circa 1,5 km da Lecco, uscire a destra passando sotto alcune arcate ferroviarie. La strada continua brevemente a sinistra, dove si parcheggia verso la fine, in uno slargo sterrato.

Avvicinamento
Prendere un sentierino sulla destra (indicazioni per le falesie Promesse nel Sole e Pungitopo). La traccia porta oltre le reti paramassi, passa nel greto secco di un piccolo torrente e lo segue, per tornare su sentierino, che porta in direzione dell’evidente Antro di Pradello (grande parete fortemente strapiombante). Lasciare il sentiero per le falesie, che sale a sinistra, e dirigersi verso lo spigolone arrotondato a sinistra dell’Antro, nella zona che costituisce la base della torre.
Tempo: 5’.

Attacco
In corrispondenza di un piccolo terrazzino sopra un roccione, da raggiungere da sinistra, circa nel centro dello spigolone. Visibile più in alto un cordone. Scritta “Z” rossa alla base.

Discesa
Si effettua in doppia sulla via.
Per evitare di avere intoppi con le corde si consiglia di non saltare le soste dei tiri della via, sono tutte attrezzate con cordoni e maglia rapida/moschettone. Saltare solo S6.
Tempo: circa 1h.

Difficoltà: VII+ max (6b+), tratti alpinistici intorno dal V+ al VII-. Obbligato VI+ e A1.

Proteggibilità: R3, alcune zone S1, S2.

Attenzione
Zone con roccia delicata a cui prestare attenzione, soprattutto nell’ultimo tiro. Alcuni blocchi da evitare.

Sviluppo
circa 255 m.

Materiale
Soste attrezzate su due fix 8x75mm (l’ultima 1 fix da 8x75mm e 1 fix da 8x60mm), con cordone e maglia rapida. Nei tiri fix 8x60mm / 8x75mm, qualche chiodo e qualche cordone. Verificare i chiodi in via, per sicurezza.
Le soste della via Colonne Doriche sono su 2 fix 10mm o 1 fix 10mm + chiodo.
Portare una serie di friend fino al n° 3BD, eventualmente una staffa se non si passa in libera/A0.
Martello e un paio di chiodi per emergenza potrebbero tornare utili.

Esposizione: ovest.

Tipo di roccia: buon calcare, a zone ottimo, ma con tratti friabili e alcuni blocchi a cui fare attenzione, nonostante la pulizia fatta. L8 si distingue per la friabilità.

Periodo consigliato: primavera e autunno, in estate fa troppo caldo. Il sole arriva verso fine mattina.

Tempo salita: circa 5 h per l’arrampicata.

Riferimenti bibliografici: al momento non esiste bibliografia comprendente questa via, ma possono tornare utili, per conoscere le altre vie presenti in zona, i seguenti riferimenti:
Lario Rock Pareti, Pietro Buzzoni ed Eugenio Pesci, ediz. Versante Sud.
https://larioclimb.paolo-sonja.net/falesie_lecco/hoteldulake/hoteldulake.pdf

Relazione
Lunghezza 1: salire circa linearmente su rocce gradinate, fino ad un fix poco visibile da sotto. Continuare verso una radice con cordone, dove la parete diventa verticale. Si prosegue individuando i punti deboli, fino ad una piccola cengia dove si trova la sosta, sotto una fascia di roccia bianca (45 m, VI-). Nel tiro pochi fix, chiodi e cordoni;

Lunghezza 2: salire verso destra una zona ripulita, quindi direttamente su una bella fascia di roccia compatta. Si raggiunge una fessura da seguire fino ad arrivare sulla testa di un grosso masso (cordone). Non andare a destra (visibili alcuni fix di Valseschini-Cendali), ma traversare a sinistra (esposto), raggiungendo una fessurina verticale. Si continua per gradoni ripuliti, in prossimità del roccione con fessurina, fino ad una cengia erbosa dove si sosta (30 m, VII-). Nel tiro alcuni fix e chiodi;

Lunghezza 3: salire a sinistra della sosta (roccia ripulita, ma fare attenzione), per raggiungere un evidente camino. Si sale nel camino, fino a quando è possibile traversare a sinistra ad un bel piano inclinato sotto uno strapiombo con cannelleurs. Continuare a salire verso sinistra su una specie di rampa ripida su roccia compatta e granulosa. Al suo termine, non andare verso un diedro liscio a sinistra (fix da rinviare a sinistra, ma allungare il rinvio per attriti della corda), affrontare invece direttamente un tratto strapiombante con buone prese. Dopo di questo, un difficile tratto su roccia compatta verticale porta alla sosta, un po’ scomoda (30 m, VII+, 6b+). Nel tiro presenti diversi fix e 1 chiodo;

Lunghezza 4: salire sopra la sosta, in una spaccatura, per poi andare verso sinistra per salire su coccia più compatta. Si salgono dei gradoni e ci si sposta verso destra, per uscire su una cengia alberata dove si trova una corda fissa per superare questo tratto, che sale in obliquo a destra fino a raggiungere la parete (qui si trovava, più in alto a sinistra, la fine della corda fissa di Valseschini-Cendali). Salire ora dei gradoni fino a raggiungere la sosta (35 m, VI+, poi IV+). Nel tiro presenti pochi fix e chiodi.

Gli ultimi gradoni e la sosta di questa lunghezza sono in comune con la via Colonne Doriche;

Lunghezza 5: appartenente a Colonne Doriche. Salire una serie di lame grigie su parete verticale (25 m, VI). Nel tiro due fix e due chiodi;

Lunghezza 6: salire sopra la sosta verso un albero, quindi continuare su muro verticale a destra (attenzione, ripulito ma con roccia a tratti friabile). Traversare poi nettamente alla sosta a sinistra, su piccola cengia, sosta su fix + chiodo della via Colonne Doriche (20 m, VII-). Nel tiro pochi fix e chiodi.
La via Colonne Doriche sale questa lunghezza stando più a sinistra;

Lunghezza 7: appartenente a Colonne Doriche. Su per bellissima placconata grigia con fessure e lame, fino ad arrivare ad una crestina. Salire ora per gradoni verso destra, fino alla sosta della via Colonne Doriche (35 m, VI+). Nel tiro presente un fix, utili friend;

Lunghezza 8: la via Colonne Doriche sale su parete compatta a destra, la nostra lunghezza cerca un punto debole della torre, salendo più a sinistra. Dalla sosta salire stando leggermente a sinistra, su gradoni friabili, arrivando ad una zona abbattuta sotto la torre. Individuare un fix sopra un gradone, salire e poi andare verso destra, puntando ad un evidente diedro. Salire il diedro, nel ramo di sinistra, facendo attenzione a dei blocchi in uscita. Si raggiunge un alberello e si sale su un grosso roccione a destra, dove si trova la sosta (35m, VI). Nel tiro qualche fix.
Libro di via in un barattolo a destra della sosta, sotto alcuni sassi.
Poco più sotto, a destra, si vede 1 fix di sosta della via Colonne Doriche.
Lunghezza decisamente friabile ed alpinistica. Si consiglia di evitarla, fermandosi a S7, oppure salendo la lunghezza di Colonne Doriche (ma soluzione non verificata, inoltre il primo tratto sotto la parete finale è comunque friabile).

Note: bella struttura, che gode di una vista spettacolare sullo strapiombante Antro di Pradello e sul lago di Lecco. La linea è molto bella; nonostante siano stati usati diversi fix per la protezione, è comunque da considerare alpinistica per il tipo di parete e la chiodatura spesso distanziata.

Nell’occasione dell’apertura della via, anche Boldo e Cerio 95 sono saliti da primi, per la prima volta in apertura! Il gruppo New Rocks sta decollando…

Purtroppo, la parete è esposta al rumore della strada statale Lecco-Colico. Inoltre, in due occasioni, abbiamo avuto modo di “subire” la musica “zarra” ad altissimo volume della discoteca poco più sotto.

Z di Zarro deriva proprio da questo sound, oltre ad evidenziare lo zigzagare tra le linee esistenti.

Aggiornamento
Relazione a cura di Walter Pres Polidori, Claudio Boldo Boldorini, Pietro Cerio 95 Ceriani e Alessandro Ceriani.

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Exploring “New Rocks” ultima modifica: 2024-11-05T05:05:00+01:00 da GognaBlog

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17 pensieri su “Exploring “New Rocks””

  1. Cominetti, allora speriamo che il Capo li cancelli tutti, commenti e articolo.
    Speriamo intervenga Crovella!! Almeno con lui ci si manda affanculo e si alza il livello dell’interesse.

  2. Riassunto delle puntate pre..eccedenti..gli innutili conquistatori. dell ‘utile innutile

  3. Ciao Alberto.
    Mi rifacevo a Terray in quanto siamo una bella espressione dei conquistatori dell’ inutile. Pochi di noi passeranno alla storia, forse kosterliz e non per le sue vie… Ma il nostro non è un inutile da leggere come  fosse un fallimento è  un inutile che diviene sommamemente utile facendo del bene prima di tutto a noi stessi è che nasconde un agire nobile e gratuito lontano da molte delle logiche che regolano il vivere comune.
     

  4. Grazie.Io ho amici che sono “militanti” dell’esplorazione e dell’ apertura di vie , a prescindere dalla bellezza e dalla qualita’ della roccia.

    Expo, ho aperto vie dove la roccia non è delle migliori, dove bisogna stare all’occhio,  ma nonostante questo mi hanno dato grande soddisfazione.  Sicuramente non diventeranno super ripetute, ma non è questo l’importante.

  5. @ Alberto
    .
    .
    Grazie.
    Io ho amici che sono “militanti” dell’esplorazione e dell’ apertura di vie , a prescindere dalla bellezza e dalla qualita’ della roccia.
    .
    .
    Io ho “aperto” solo due stupidate a spit , e ad intrigare me era soprattutto la linea , che doveva essere ecidente , la qualita’ della roccia , ed il piacere ludico per gli eventuali ripetitori.

  6. Di fatto cosa rimane ?  Nel nostro caso delle nuove vie !  Utili a noi stessi forse si utili al prossimo o alla storia dell’ alpinismo probabilmente no. Il sottoscritto di cose inutili ne ha fatte parecchie

    ciao Elio, posso chiederti cosa intendi per vie  utili e inutili e perchè?

  7. Mi sembra che quando si fanno questi commenti, quasi sempre  si tende a considerare solo le vie di roccia, mentre ci sono anche quelle di ghiaccio e misto. Sono stato da sempre un amante dell’alpinismo invernale, in Apuane mi sono dedicato molto all’apertura di vie su questo tipo di terreno aleatorio, che appare e scompare. Linee che ci sono in determinati momenti e non esistono in altri. Vie che  hanno permesso di salire cime, pareti o settori di parete,  altrimenti completamente trascurate perchè rotte ed erbose, di norma evitate, dandogli il valore che si meritavano.

  8. Certo! l’apertura di nuovi itinerari, la divulgazione degli stessi il confrontarsi con cosa fatto da altri per capire dove collocarsi, sono cose che passano attraverso al filtro del proprio Ego.  E l’ego di ognuno di noi visto da altri hà sempre delle sfaccettature che si prestano a critiche impietose. Di fatto cosa rimane ?  Nel nostro caso delle nuove vie !  Utili a noi stessi forse si utili al prossimo o alla storia dell’ alpinismo probabilmente no. Il sottoscritto di cose inutili ne ha fatte parecchie e  anche se trovo stucchevole dare troppe informazioni in una seconda fase della mia attività, al contrario di molti anche durante  l’apertura oltre a pensare di non fracassarmi ho sempre pensato ai potenziali ripetitori nella speranza che fossero molti e che apprezzassero cosa avevo fatto.  Il Pesce è un icona di stile e se oggi molti più pescatori che nel 1988 sono in grado di prenderlo all’ amo probabilmente per arrivarci sono passati anche attraverso ad una formazione fatta  su delle banali vie a spit di 6b+.  Nel mondo c’è molto più relativo che assoluto…N’est pas ? 

  9. Expo, prima di tutto deve essere una linea che vedo, e non è detto che avvenga. Magari guardi la parete tante volte,  ma non vedi una possibilità di salita. Poi la riguardi in seguito e quello che prima non vedevi, ti si materializza davanti ai tuoi occhi. E questo è bello! Mi è capitato diverse volte. Per mia mentalità deve essere una linea logica, salibile il più possibile, con mezzi da non forzare troppo la roccia. Cosa che ho maturato nel tempo.  Anche se in pochi casi ho aperto vie (poche) dove ho forzato parecchio la roccia forandola in modo sistematico. Ma mi sono reso conto che non è il mio stile. Possibilmente dovrebbe essere su una parete che offre ancora la possibilità di aprire linee indipendenti. E non meno importante c’e l’aspetto egoistico e autocelebrativo, cioè essere il primo a fare quella prima.  Inutile negarlo!

  10. @ Alberto Benassi
    .
    .
    Che cos’ e’ che piu’ ti intriga quando vedi una nuova linea potenzialmente arrampicabile e su cui non sembra essere passato nessuno ?

  11. . Esplorare significa anche mettersi sulle tracce di qualcuno più bravo e lungimirante di noi.

    E’ vero anche questo, e mettersi sulle tracce di qualcun’altro ci può fare aprire la mente per crescere, evolvere, dandoci un esempio, una spinta, un punto di partenza per andare oltre . Però è sempre una ripetizione, è seguire una strada che altri hanno tracciato. Naturalmente  se siamo in grado di poterla seguire. Non è sempre scontato.
    E’ anche per questo che credo sia bello e utile raccontare l’alpinismo.

  12. Personalmente ho trovato questo articolo autocelebrativo di una noia mortale.
    Quando ho ripetuto la Via Attraverso il Pesce nel 1988 ero così felice che non avrei assolutamente voluto essere stato l’apritore di una qualche via a spit di 6b+. Esplorare significa anche mettersi sulle tracce di qualcuno più bravo e lungimirante di noi.

  13. Arrampicare su ghiaccio potrebbe risolvere il problema: il ghiaccio si modifica, si assottiglia o si ingrassa, più asciutto o più bagnato, i chiodi sono sempre da mettere e togliere.
    Ogni salita potrebbe essere una prima. 
    Un vero peccato che ho regalato le picozze!!! 

  14. partendo dalla esaltazione dell’apertura, come vera esperienza dell’alpinismo, per arrivare ad un dettato micrometrico del percorso, azzeramento totale dell’avventura,  si compie un percorso, se non nella follia, almeno nella contraddizione. 

    Questa è un’interessante osservazione. E’ giusto relazionare in modo dettagliato una scalata, togliendo, azzerando ogni sorpresa ai ripetitori?
    Da una parte cerco l’avventura, quindi l’inceretezza. Dall’altra do tante e dettagliate  informazioni che l’azzero completamente o quasi per gli altri.
    Da riflettere…

  15. Articolo interessante. 
    Il titolo potrebbe essere:
    “Autopsia come ritratto della donna amata”
    L’immagine è un po forte: pensare ad un tale che fa brandelli la donna amata per fare un quadro dettagliatissimo della sua bellezza.
    Certo, siamo un poco oltre Peter Greenaway, però, partendo dalla esaltazione dell’apertura, come vera esperienza dell’alpinismo, per arrivare ad un dettato micrometrico del percorso, azzeramento totale dell’avventura,  si compie un percorso, se non nella follia, almeno nella contraddizione.
     

  16. Nessuna ripetizione di via esistente potrà mai regalarti le stesse sensazioni, neanche la più bella e difficile, questo è ciò che penso.

    Come Walter Polidori, anche io nella mia attività alpinistica mi sono dedicato all’esplorazione aprendo diverse vie, sia su roccia che su ghiaccio e misto. Tutto è personale, le sensazioni , le emozioni cambiano,  ma concordo con Polidori quando afferma che una ripetizione, pur prestigiosa che sia,  non portà mai darti le stesse sensazioni di una nuova via.  Esplorare terreni nuovi, per me, è la massima epressione di questa passione per il verticale, una forma di completezza, come chiudere un cerchio. In una ripetizione ho cercato il più possibile di immedesimarmi nell’apritore, rispettandone lo stile con il quale ha aperto la via. Se non ero in grado di fare questo ho sempre preferito rinunciare.  Nell’aprire una via nuova non mi sono  posto più di tanto cosa si sarebbero poi aspettati i possibili futuri ripetitori. Non ho aperto una nuova via pensando di farla, di attrezzarla, di pulirla, di scrivere nomi e freccine,  perchè avesse più ripetizioni possibili, cercando quindi di adattarla alle esigenze dei ripetitori.  Sicuramente questo atteggiamento da molti verrà ritenuto un atteggiamento egoistico. Io dico che invece è semplimente uno stile alpinistico. Nulla di più.

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