Far pubblicare un romanzo è più difficile o più facile di una volta?

Questo problema riguarda quasi esclusivamente il primo romanzo, quando si tratta di rompere il ghiaccio, di spezzare l’incantesimo, di varcare la barriera che separa la folla anonima dalla cosiddetta classe degli scrittori. Dopo il primo libro, se proprio non si è avuto un catastrofico insuccesso, trovare un editore è una cosa molto più semplice.

Far pubblicare un romanzo è più difficile o più facile di una volta?
di Dino Buzzati
(pubblicato su La lettura, rivista mensile del Corriere della Sera, 1 giugno 1937)
Le illustrazioni sono originali.

Spessore 2, Impegno 1, Disimpegno 3

Un nuovo scrittore al giorno
Si può calcolare che in Italia ogni giorno, comprese le domeniche, nasca un nuovo scrittore, quando non ne nascono due o tre. Non c’è nessuna esagerazione: il numero di manoscritti che affluisce annualmente alle case editrici dimostra che questa media è inferiore alla realtà.

Centinaia di persone, delle più diverse categorie sociali, stanno oggi, a quest’ora, pensando intensamente al capolavoro che dovrà aprire loro le vie della gloria. Nessuna preoccupazione, come quella dell’aspirante letterato, è altrettanto acuta, insistente, inguaribile. Per mesi e mesi ogni altro pensiero passa in seconda linea. Mentre si sta vestendo al mattino, mentre passeggia per la via, mentre lavora in ufficio, mentre siede al cinematografo, spesso anche mentre dorme, la grande speranza si affaccia senza tregua al cervello dell’autore, riducendolo in uno stato mentale assai simile, per certi aspetti, a quello degli innamorati.

Il primo tentativo
Appena la parola fine è stata scritta sotto l’ultima riga del romanzo (consideriamo qui l’esempio del romanzo come il più diffuso e più tipico), si manifesta improvvisamente la febbre della pubblicazione, che eccita ancor più le speranze con il lievito dell’impazienza.

Ecco l’inesorabile affanno che può durare anche per anni se i vari editori respingeranno via via il manoscritto. Con una cieca fede nella propria opera, l’autore ha l’impressione che folle sitibonde attendano il suo romanzo e che a questa rivelazione si opponga, per misteriosi motivi, l’insipienza degli editori, che non sanno neppure badare al loro interesse.

Finito il romanzo, pare che non ci sia un minuto da perdere. Mentre si mobilitano gli amici influenti per le eventuali raccomandazioni e si infligge agli intimi la lettura dei brani più salienti, una dattilografa batte in doppia o tripla copia il romanzo.

E’ ormai pacifico che mandare un libro scritto a mano costituisce un gravissimo ostacolo preliminare. Oggi ormai anche gli autori più poveri scrivono o fanno scrivere a macchina. Non conviene poi, per dar l’impressione che il lavoro sia più ampio del reale, spaziare eccessivamente la scrittura sul foglio; ciò può apparire un tentativo di vendita di fumo.

Come criterio generale, ogni cartella deve contenere 24 o 25 righe, larghe 15 o 16 centimetri. Circa 300 di tali pagine costituiscono un libro di medie dimensioni. Con le copisterie, per lavori di mole così ampia, in genere si combina un forfait. Cento cartelle dattiloscritte, in tripla copia, possono costare una sessantina di lire.

E’ consigliabile che il manoscritto sia rilegato. Anche la comodità di lettura contribuisce a creare una benevola condizione di spirito nell’editore o nel suo incaricato. Non si esageri però nell’eleganza del manoscritto, si evitino decorazioni o disegni che sviano l’attenzione del lettore e lo inducono a diffidenza.

Quando l’autore, impacchettato meticolosamente il suo lavoro, lo consegna all’ufficio postale, reparto raccomandate, vive in lui una incrollabile certezza: che il romanzo sia un capolavoro e che la pubblicazione sarà per l’editore un affare lucrosissimo. Con l’andar del tempo questa seconda convinzione andrà attenuandosi. Solo più tardi, dopo mesi o anni, anche la prima comincerà a vacillare. Nulla come il tempo guarisce le false illusioni e cancella le prospettive sbagliate.

Oh. se gli scrittori, nessuno escluso, ignoti e famosi, prima di sollecitare gli editori, chiudessero i loro scritti in un cassetto e li rileggessero dopo quattro cinque mesi. Quante delusioni risparmiate, quanti libri inutili e brutti di meno sulle bancarelle.

Sulla scrivania dell’editore
Il fattorino della direzione deposita ogni mattina, all’arrivo della posta, sulla scrivania dell’editore, due, tre caratteristici plichi, stretti gelosamente da complicati spaghi e sigillati con grosse timbrature di ceralacca, riconoscibili a distanza per manoscritti di ignoti scrittori. Per quanto le statistiche non siano uniformi presso tutte le Case editrici, si può calcolare che un 50 per cento dei nuovi arrivi sia costituito da romanzi; il 30 per cento da raccolte di novelle; il resto da collane di poesie, da raccolte di articoli, eccetera. Negli ultimi tempi la proporzione delle opere non narrative è andata sensibilmente aumentando; in genere si tratta di compilazioni di origine giornalistica. I libri di scienza sono pochissimi (tenuto conto che le opere essenzialmente tecniche sono già assorbite dalle riviste e dagli editori specializzati). Pochi i libri per ragazzi.

Il porto d’arrivo

Non si può negare che di fronte a questa quotidiana pioggia di manoscritti, gli editori sono propensi allo scetticismo. L’esperienza ha loro insegnato che le sorprese gradevoli sono rarissime. E’ molto difficile che uno scrittore degno di tal nome sia completamente ignoto all’atto in cui presenta il suo manoscritto. Qualche novella comparsa sulle riviste, qualche segnalazione di critici letterari, qualche voce raccolta negli ambienti bene informati hanno già preceduto in genere la comparsa del postulante.

La disposizione d’animo degli editori di fronte a questa valanga di manoscritti è dunque di solito negativa. Per citare qualche esempio, da Mondadori i manoscritti di ignoti non hanno mai o quasi ottenuto la pubblicazione, per il loro basso livello qualitativo. Da Bompiani si calcola che solo il 10 per cento dei lavori sottoposti ad esame siano pubblicabili, nel senso che non pregiudicherebbero la serietà della Casa editrice; ma quasi sempre anche questo 10 per cento non offre alcuna prospettiva di guadagno.

La zavorra
Un primo vaglio dei manoscritti in arrivo, è facile. Bastano due tre occhiate per definire, senza possibilità di errore, gli scritti assolutamente inammissibili. Un buon 70 per cento viene così eliminato.

La retorica è il male che affligge la maggioranza di questi scarti: le frasi fatte, i luoghi comuni, le reboanti circonlocuzioni, le sfatte espressioni da canzonetta d’amore. Ben raro che qualcuno scriva di cose a lui adatte. Lo scrittore borghese ama praticare bassifondi e tuguri ch’egli non ha mai visto; lo scrittore del popolo non rinuncia a descrivere grandi alberghi, transatlantici, vita da milionario, con le grottesche conseguenze che è facile immaginare. Difetto quasi altrettanto diffuso è la mancanza o l’estrema debolezza del cosiddetto intreccio, che pregiudica a priori l’interesse della lettura. Nessuno poi o quasi che scriva con semplicità: appena prendono la penna in mano, quasi tutti credono doveroso impaludarsi in una prosa artefatta e barocca, che rende loro impossibile esprimersi efficacemente, nella rara ipotesi che abbiano qualcosa di interessante da esprimere.

Una categoria relativamente più favorevole è quella dei romanzi gialli, la cui qualità si affida soprattutto a requisiti tecnici. Da notare al proposito che i peggiori artefici di romanzi gialli sono proprio gli scrittori già affermati, i quali, per imporre la loro personalità, ci tengono a trascurare o a ignorare le regole canoniche del romanzo giallo, disorientando e irritando il lettore.

«In lettura»
Scartata preventivamente una forte percentuale, il resto viene consegnato ai cosiddetti lettori, persone di fiducia che per la loro competenza letteraria, il loro gusto, la obiettività di giudizio, possono dare un parere attendibile; qualche volta si tratta di amici personali dell’editore che prestano gratuitamente questa collaborazione; altre volte i lettori sono pagati, più o meno secondo la mole del volume, e compilano un responso scritto, affatto simile a una recensione letteraria.

Se il lettore risponde con un no reciso, il manoscritto viene restituito. Se il giudizio è incerto, il manoscritto viene dato in esame ad un secondo lettore per ottenere una sentenza più decisiva.

Quando il manoscritto di ignoto – e i casi sono ben rari – ha sostenuto vittoriosamente questo primo esame, se ne interessa personalmente l’editore. I suoi familiari lo vedono giungere a casa con un plico sotto il braccio, un plico che andrà a raggiungere altri manoscritti sul tavolino da notte.

Ogni sera, quando sta per coricarsi, l’editore getta un’occhiata diffidente a quella montagnola di capolavori e ne assaggia qualcuno. Se è la sera buona, può accadere che egli ne legga d’un fiato uno intero. In quello stesso istante l’autore, chissà dove, non sospetta neppure vagamente che si sta decidendo della sua massima aspirazione, della sua stessa vita. Oh, se potesse scorgere l’editore, giunto alle ultime pagine, scuotere scoraggiato la testa, posare il manoscritto nuovamente sul comodino, poi raggomitolarsi fra le coperte, spegnere la luce, addormentarsi saporitamente.

Può capitare che la stessa moglie dell’editore, o anche i figli più grandi, prendano in mano incuriositi uno di questi manoscritti e si mettano a leggiucchiarli. Può capitare che la lettura inaspettatamente li assorba, che alla sera, quando torna il padre o il marito, gli dicano: mica male il romanzo del Tale. Può capitare che questo giudizio, casualissimo ma non privo di importanza, decida per il sì o per il no.

L’assedio alla Casa editrice
E’ inevitabile che l’esame di un manoscritto richieda qualche mese. L’autore freme di impazienza, impreca contro la neghittosità degli editori, li accusa di infingardaggine, di mancanza di umanità, concepisce per loro un vero odio, ricorre a tutte le possibili risorse per affrettare, favorevolmente per sé, la procedura. E’ quello il periodo in cui lettere di raccomandazione di personaggi influenti si ammucchiano sul tavolo dell’editore; in cui il postulante ogni due, tre giorni arrischia, col cuore in gola, una telefonata d’assaggio, sentendosi invariabilmente rispondere dalla telefonista, la quale ormai lo riconosce immediatamente alla voce, che «il signor direttore è in seduta e sarà occupato fino a sera».

A proposito, servono le raccomandazioni? E’ questa una questione delicata, che mette troppo sovente in imbarazzo gli editori. Sarebbe stupido negare che una buona raccomandazione può servire, se non altro, ad affrettare la lettura del manoscritto. Ma non è molto più dignitoso per uno scrittore affidarsi unicamente alle proprie forze e non doversi poi domandare, qualora il libro venga pubblicato, se ciò sia dovuto alle reali qualità del lavoro o non piuttosto all’autorità del compiacente amico che se ne è interessato?

Pubblicare o no?
Ammesso che il manoscritto di ignoto (ma come si è detto ben raramente si verifica purtroppo questa ipotesi), ammesso che il manoscritto abbia notevoli pregi, l’editore si trova di fronte a un problema di carattere finanziario. La pubblicazione di questo libro sarà o non sarà vantaggiosa?

Non è detto che la convenienza materiale sia l’elemento indispensabile per la pubblicazione. Qualche editore intelligente e coraggioso ama talvolta affrontare il rischio o una sicura perdita, pur di presentare al pubblico un autore veramente significativo, che faccia onore alla propria Casa editrice; egli sa bene che a lungo andare la perdita finanziaria potrà essere compensata dall’accresciuta fiducia e stima del pubblico per la Casa, con i conseguenti benefici materiali. Ma occorre anche in questi casi che il lavoro si distingua nella marea dei romanzi mediocri per spiccate doti di originalità, di personalità, di novità, anche se non apprezzabili dalla grande massa.

Gli esperimenti però in genere non si fanno. Si preferisce, ed è umano, contare su di una vendita sicura, vendita che potrà essere assicurata soltanto dalla qualità della mercé offerta; il semplice nome dell’autore, le sole critiche favorevoli, il solo buon mercato del libro non serviranno mai a far vendere quello che al pubblico non va a genio.

Quanto si vende un romanzo
Quando di un romanzo si sono vendute 2000 copie, in Italia si può già parlare di buon successo. Vi sono stati libri di scrittori stimati che negli ultimi anni non hanno raggiunto neppure il mezzo migliaio di copie vendute. Non raro il caso che questa cifra non superi due o trecento.

Dato l’andamento del mercato, è comprensibile come gli editori vadano assai guardinghi, nel campo della letteratura narrativa. Al prezzo di copertina, per calcolare l’utile, essi devono sottrarre il costo vivo (carta, stampa, correzione e rilegatura) che varia dal 25 al 30 per cento, le spese di spedizione, i diritti d’autore (dal 5 al 20 per cento in media), lo sconto ai rivenditori e le spese generali. L’aliquota delle spese generali aumenta quanto più grande è la Casa editrice e perciò ne deriva che la vendita minima, per evitare una perdita, cresca col crescere dell’organizzazione editoriale. Il libro fortunato deve pagare anche quello sfortunato. Se un editore modesto, con poche spese generali può accontentarsi di vendere 800-1000 copie, vi sono invece grandi Case che hanno bisogno di collocarne almeno 3000. E quanti scrittori sono in grado di garantire un simile successo?

Corollario: la pubblicazione di un romanzo in Italia è, per i grandi editori, molto spesso in perdita.

Non si vogliono novelle né poesie
Assai peggiore è la situazione per le raccolte di novelle. A meno che non si tratti di autori famosi o di specialisti in tale genere letterario, il pubblico rifiuta i libri di novelle; è troppo facile, con meno di una lira, procurarsi un giornale o una rivista che ne contenga sei o sette, anche di buoni scrittori. Nella maggior parte dei casi poi le novelle raccolte in volume sono già state pubblicate in riviste o giornali e la merce di seconda mano incontra poco favore.

In fatto di poesie poi la mancanza di richiesta è quasi completa. Se uno dei nostri maggiori poeti moderni raggiunge le 1000 copie di vendita, è avvenimento tale da potersi festeggiare con cerimonie e lapidi commemorative. E non si creda che questo significhi disinteresse del pubblico per la poesia; di Carducci, di D’Annunzio, di Pascoli, di Cozzano, di Ada Negri, si vendono ancora annualmente migliaia e migliaia di copie. Si adattino, gli ermetici cantori dell’età nostra: il pubblico non li ama.

L’editore risponde di no
La risposta negativa è accompagnata dalla restituzione del manoscritto, a spese dell’autore.

Gli editori, in queste lettere, preferiscono attenersi a generici formulari, piuttosto che entrare nel merito e dimostrare le manchevolezze del lavoro. Grande infatti è la suscettibilità degli scrittori i quali si offendono, o replicano per difendere la loro opera, dando luogo a noiose polemiche.

Naturalmente anche i formulari di risposta vanno variati a seconda dei casi. C’è una grande Casa editrice che ha preparato una lista di 12 lettere tipo, in successive gradazioni di gentilezza e di lunghezza, denominate i «No grazie». Dalla prima, che si estende per un foglio e mezzo mettendo in rilievo il vivo desiderio dell’editore di pubblicare il volume, desiderio ostacolato tuttavia da questa e quella circostanza, che esalta i pregi del libro, assicurando lo scrittore che la risposta negativa non investe i pregi intrinseci e indiscutibili del suo capolavoro, ecc., si passa a un modello di letterina nuda e cruda che informa come, dati i molti impegni a cui deve attualmente far fronte, la Casa editrice non possa neppure considerare in via d’ipotesi la pubblicazione del libro, astenendosi comunque dal discuterne il contenuto. C’è poi un tipo di «No grazie» per l’autore che insiste, un altro tipo per lo scrittore che propone un libro di poesie, un altro ancora per le traduzioni e così via. Si evita così di scervellarsi volta per volta a trovare espressioni abbastanza diplomatiche e inoffensive.

Un altro refuso!

L’autore propone un contributo
Spesso, di fronte a un diniego, l’autore è persuaso che le difficoltà siano esclusivamente di indole finanziaria e non gli passa neppur per l’anticamera del cervello che l’editore abbia risposto di no perché il romanzo è brutto. Eccolo quindi proporre alla Casa editrice un contributo, per facilitare la stampa del volume.

Le Case editrici di una certa fama respingono invariabilmente queste offerte, anche se dal lato economico possano essere convenienti. E’ infatti questa una delle regole essenziali per tenere alto il prestigio di un editore.

Altri invece, purtroppo, non solo non rifiutano simili offerte, ma chiedono di loro iniziativa un contributo all’autore postulante, tentando una vera e propria speculazione. Una volta ricevuto il contributo, essi stampano il libro nella forma più economica e praticamente si disinteressano della vendita, avendo già ottenuto un sufficiente guadagno. Deplorevole ma vero.

L’odissea dei cattivi romanzi
Respinto dalle maggiori Case editrici, il neo romanziere non si darà per vinto. Genio incompreso, egli batterà alla porta via via degli editori sempre meno noti e accreditati, nell’immutabile convinzione di offrire un affarone. Giù, giù, fino alle tipografie che stampano quasi alla macchia, fino al più basso grado di mortificazione che è quello di veder scritto a piedi del frontespizio «Presso l’autore», di dover stampare il romanzo totalmente a proprie spese, senza possibilità di diffusione, senza neppure la speranza che i giornali se ne interessino.

È troppo facile trovare un editore
Da ciò che si vede giornalmente, dalla nostra piccola esperienza di autori, da ciò che dichiarano gli stessi editori, bisogna onestamente convenire che oggi è troppo facile far pubblicare un romanzo. Non c’è sfogo di grafomane, si può dire, che non trovi il suo stampatore. O di riffe o di raffe, sarà questione di tempo, ma i torchi finiscono sempre col gemere.

In verità un romanzo, un libro che possa chiamarsi libro, dovrebbe in un certo qual modo costituire la giustificazione di un’intera vita o almeno di anni di travaglio e di lavoro, dovrebbe soprattutto essere scritto per una reale necessità interiore e non per desiderio di fama, per speranza di lucro o per non farsi dimenticare.

Si guardino le mostre dei librai, dalle più lussuose vetrine alle più sudicie bancarelle. Quanti di quei libri hanno una sia pur modesta ragione d’essere? Quanti di essi dicono qualcosa di nuovo o di interessante? Eppure i libri si moltiplicano vertiginosamente, ogni giorno sono risme di volumi freschissimi che si ammucchiano nelle librerie e nelle biblioteche.

La facilità di pubblicare un romanzo sembra anzi farsi sempre maggiore. Oggi è più facile di ieri e domani lo sarà più di oggi. Questo almeno secondo il parere di alcuni editori, che scorgono ormai affievolirsi il morboso interesse del pubblico per la letteratura straniera: il periodo d’informazione, per così dire, sta per chiudersi, e la gente ricomincia a rivolgere gli occhi in casa propria. Da ciò un nuovo incoraggiamento agli scrittori nostrani, i quali non domanderanno di meglio per riversare addosso agli editori la valanga dei loro romanzi, tutti capolavori, ben s’intende, tutte altissime opere d’arte, destinate a mondiale e immortale rinomanza.

Dino Buzzati

Pubblicazione
Se il romanzo però ha qualcosa di veramente buono, si può scommettere cento contro uno che verrà pubblicato. A un editore, a due, potranno sfuggire i reali pregi del lavoro, ma il terzo o il quarto finirà inevitabilmente per accorgersene. Ed ecco una lettera, la lettera tanto sospirata, recare il felice annunzio allo scrittore macerato dalla lunga attesa. Non qui però saranno finite le sue pene; comincerà anzi un periodo di più trepidi affanni. Perché l’editore, dopo aver detto di sì, tarda tanto a pubblicare il capolavoro? Perché non ha ancora mandato un regolare contratto? Perché quelle risposte evasive quando lui, l’autore, telefona? Forse la Casa editrice si è già pentita e sta temporeggiando per evitare un netto rifiuto? E poi, quando arrivano le bozze, quei caratteri che sembrano vecchi e ineleganti, che paiono assorbire voracemente la faticata prosa facendo figurare il romanzo molto più corto del reale, quei refusi sparsi senza risparmio, che sembrano studiati malignamente da un tipografo maligno. Altrettante trafitture al cuore. Ma che dire, in compenso, delle ineffabili soavi delizie di questa nuova esperienza? Come descrivere il palpito d’emozione all’arrivo del postino che reca il pacco delle prime bozze? Come esprimere l’incredula felicità alla vista della prima copia, fragrante di inchiostri? E il dolce turbamento che invade l’animo dinanzi alla vetrina del grande libraio che espone il nuovo romanzo in un posto d’onore? E il senso di benessere che si prova alle rare lodi degli amici? E quel vago profumo di gloria che vi inebria all’apparire della prima recensione? E il luciferesco orgoglio che vi infiamma allorché l’editore – fosse vero! – vi annuncia in tono compiaciuto e deferente che le prime due edizioni sono già esaurite, che se ne sta già preparando la terza e che varie Case straniere si contendono i diritti di traduzione?     

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Far pubblicare un romanzo è più difficile o più facile di una volta? ultima modifica: 2019-02-03T04:55:17+01:00 da GognaBlog

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