Flavio Ghio: la filosofia del fachiro
di Silvana Rovis (da Le Alpi Venete, primavera-estate 2015, per gentile concessione)
Sono a Trieste. Una città di mare che tiene in buon conto i suoi alpinisti. Alcuni di essi, poi, ha voluto ricordarli intitolando loro una strada, un luogo (piccolo belvedere sulla Napoleonica): Emilio Coniici, Napoleone Cozzi, Julius Kugy, Enzo Cozzolino.
Oggi incontro Flavio Ghio, che di Cozzolino fu compagno di cordata nella memorabile e ormai storica salita della via dei Fachiri, in Scotoni. Incontro inconsueto il mio, anzi no, inconsueta è la narrazione dell’alpinismo da parte del mio interlocutore, che mi parla sì di gradi, di difficoltà, ma il cui approccio alpinistico è più dello spirito, dell’anima anziché del gesto atletico, che c’è, eccome!, sia che si tratti di una sua salita in solitaria di VI, sia che si tratti di una via nuova ed una prima invernale, sempre di VI. Sono timorosa di avventurarmi in una intervista per me decisamente “nuova” ma, poco a poco, mi sembra che tutto rientri in una “normalità” che, oltretutto, mi coinvolge più di quanto prevedessi. Non ci sono esaltazioni, tecnicismi, avventure, ma scoperte, conoscenze in una dimensione dove la centralità di tutto ha un solo nome: montagna, cioè il nucleo, mentre l’alpinismo è solo un mezzo (la scorza come dice Flavio) per arrivare a calarsi nel suo intimo, tra le sue pieghe, sentire il pulsare della vita che in essa si cela. Intervista diversa, ma anche interessante e stimolante, per valutare (o rivalutare) da parte di qualche lettore il proprio modo di praticare l’alpinismo. A fare da filo conduttore c’è quasi sempre Cozzolino, la cui presenza aleggia intorno a noi durante tutto l’incontro, quasi una conversazione a tre. Flavio Ghio, alpinista quanto mai ritroso e silente, mi spiega subito cosa significhi per lui parlare di se stesso: “Dal punto di vista alpinistico, guardandomi dentro, quanto trovo non corrisponde tanto ad un autoritratto, ma è un anelito senza confini precisi. Questo sentimento è sempre rimasto tale, cioè selvaggio, oscuro, per nulla trasparente. In teoria vorrei dargli forma chiara e distinta. Ma mi ritrovo continuamente su sentieri interrotti, vuoi perché proseguire è impossibile vuoi perché a volte trovo cose che non m’interessano. Ma sono anche contento di avere dentro quel senso di vertigine da cui è iniziato tutto. Forse disinnescare quell’originaria vertigine non ha senso. Se nel mio racconto viene sempre fuori Enzo Cozzolino, non è riconoscenza. Ho trovato grazie a lui una parte di montagna che non osavo avvicinare. Per questo lo sento vicinissimo e lontanissimo. Il suo destino, poi, mi ha fatto incontrare un’altra vertigine, profonda quanto la prima. Per cui, a volte, le confondo“.
Flavio Ghio sulla prima traversata della via dei Fachiri (archivio Fam. Cozzolino)
Triestino, classe 1951, tre anni meno di Enzo. Laurea in Filosofia, e lo si arguisce nell’intera nostra conversazione e ancora di più dalle sue risposte quando gli chiedo di raccontarmi delle vie salite, che sono tante (oltre un centinaio), prevalentemente negli anni ’70: ripetizioni di vie classiche, aperture di vie nuove, solitarie. Meno male che a me aveva detto: “Sì, ho fatto qualcosa…”, solo che – avendo qualche sospetto – ho voluto indagare, scoprendo che invece non era proprio così…
Trenta solitarie, tra cui: la Fessura Buhl a Cima Canali; la diretta Simon-Wiessner alla Pala di San Martino e la Castiglioni al Sass Maor, la Costantini-Ghedina al Pilastro della Tofana di Rozes, vie queste che vanno dal V al VI, che superano i 600 metri di sviluppo. Inoltre gli Strapiombi nord al Campanile di Val Montanaia. Prime invernali tra cui: Canalone ovest alla Punta dei Tre Scarperi con Roberto Ive; la via dei Fachiri alla Cima Scotoni, con Enzo Cozzolino. Ed ancora l’apertura di nuove vie che vanno dal V al VI con compagni vari. Da primo: una via sulla Croda dei Róndoi, con Giorgio Ramani e Renzo Zambonelli; una via sullo Spigolo est del Pianoro dei Tocci, con Piero Mozzi; una sul Pilastro ovest della Cima Fanis di Mezzo con Riccarda de Eccher. A comando alternato: due vie sulla Seconda e sulla Quarta Pala di San Lucano, entrambe con bivacco, con Alessandro Gogna e Giovanni Favetti; la via Bruna sul Piz del Ciaval del Sass dla Crusc con Roberto Giberna.
Tutto ha inizio con Enzo Cozzolino, in Napoleonica, quella strada alla periferia di Prosecco, la palestra di roccia degli alpinisti triestini sul ciglione carsico. L’altra, si capisce, è la Val Rosandra; per i Triestini semplicemente la Valle.
In Napoleonica hai incontrato Enzo, in Napoleonica è cominciato il tuo alpinismo.
Un incontro di quelli che segnano per la vita. Avevo appena finito la scuola di roccia. Era il 1968. C’ero andato da solo, avendo inteso che, oltre che in Valle, si poteva andare anche lì, micro luogo particolare, con molte traversate, dove si può arrampicare anche se non hai il compagno. Stavo arrampicando e ad un certo punto ho visto arrivare un tipo. Non c’era gente, quel giorno di giugno. L’ho visto prepararsi in modo curioso. Noi ci vestivamo allora con un abbigliamento standard: calzettoni, braghe alla zuava, scarponi. Lui invece ha indossato dei pantaloni da ciclista, corti, e un paio di scarpe da ginnastica Superga. Dopo di che ha fatto una cosa stranissima, attaccando da una parte, salendo uno strapiombo con tecnica bavarese, passaggio che allora era conosciuto come “la bavarese” (oggi, su questo tratto di 15-20 m, ci sono circa 20 vie a spit); è ridisceso per attraversare
In bici sulla camionale SS 202: Enzo Cozzolino (a sin) con il fratello gemello Gino a dx e un compagno di scuola (archivio Fam. Cozzolino)
verso destra, fin oltre lo spigolo in fondo, per poi tornare indietro, salendo ora qui ora là… I movimenti che faceva mi colpirono molto anche dal lato estetico; capivo di essere di fronte a qualcosa che va al di là del fatto alpinistico, bello: un’esperienza per me apicale. Mi sono avvicinato, gli ho chiesto qualcosa. Lui mi ha risposto dicendomi che dovevo sgrezzarmi e fare così e così. Si è ripreso la sua moto, una Gilera 125 cross, e se n’è andato. Mentre lo guardavo ho avuto anche una strana percezione: “questo è come una divinità del luogo, però se va fuori da qui è in pericolo”; troppo profondo mi sembrava infatti quel suo legame con la pietra di Prosecco. Lui aveva cominciato ad arrampicare nel 1966 e già nel 1967 aveva fatto delle cose incredibili, tra cui la ripetizione del diedro Philipp alla Punta Tissi e a Natale la prima invernale della via Videsott alla Cima della Busazza (1050 m di sviluppo) con Franco Gherbaz, con due bivacchi in parete; salita che Gherbaz avrebbe voluto fare con Gianni Sferco, l’amico precipitato alcuni anni prima sulla via Castiglioni-Detassis allo Spiz della Lastia, sopra Agordo. Enzo aveva un amore per le invernali; non avrebbe mai mancato a un appuntamento con esse.
Da sin: Roberto Priolo, Luciano Corsi, Enzo Cozzolino (archivio Fam. Cozzolino)
A questo incontro ne sono seguiti degli altri?
Certo. Frequentando gli stessi ambienti, si ha modo di incontrarsi. Un giorno in Val Rosandra ero con altri amici e lui ci ha chiesto di arrampicare. Sono andato io e abbiamo fatto le vie più difficili, veramente dure: è stato il mio battesimo di roccia. Poi, con lui, sono andato in Valle altre volte: non portavamo più la corda. Eravamo una cordata “senza corda”. Ci si trovava anche a casa sua con altri amici, per parlare di montagna mentre andava la musica dei Pink Floyd, di Emerson, Lake & Palmer, dei Jethro Tull. Era un modo di stare assieme, con la montagna e le nostre passioni. Il tempo scorreva veloce perché profumava di futuro.
Fino alla salita della via dei Fachiri sulla parete sud-ovest della Cima Scotoni, con bivacco, un’impresa straordinaria in pieno inverno, nel gennaio 1972, una pietra miliare nell’alpinismo per lo stile e l’etica con cui la via fu aperta.
Il diciassettenne Flavio Ghio in cima alla Punta Frida, dopo la via Comici (corso roccia 1968, foto P.G. Marassi)
L’idea dei Fachiri nasce in autunno inoltrato. Le vie da fare Enzo le partoriva per suo conto. Un giorno mi disse: “verresti quest’inverno a fare una via nuova sulla Scotoni?”. La Scotoni? per me era un mito, il paradiso terrestre. Se poi mi diceva di fare questa parete in libera, voleva dire che si poteva fare, che potevo farlo anch’io, creando così per me quel ponte che mi mancava. Il suo sogno era aprire una nuova via su di una parete dalla roccia talmente compatta da non consentire nessun tipo di chiodatura, la parete perfetta. Cominciarono così intensi allenamenti in Val Rosandra. Il 13 gennaio partiamo da Trieste. Arriviamo al Passo Falzarego verso sera, carichiamo gli zaini sulla funivia che va al Lagazuoi. Per essere veloci e leggeri ci mettiamo dentro pochi chiodi, qualche cordino, dei cunei di legno, il fornelletto e pochi viveri, e per quest’ultimo fatto decidiamo che avremmo chiamato la via “dei Fachiri”. Il giorno dopo con gli sci ci portiamo alla base della parete. Risaliamo le prime rocce ancora innevate e poi finalmente posso togliermi gli scarponi e calzare le scarpe da ginnastica. Inizio con un tiro. Vorrei mettere un chiodo ma non mi riesce e proseguo. Enzo mi raggiunge e riparte. Arriva in cima a un pulpito, che chiameremo Pulpito del Fachiro. Poi obliquiamo per delle rocce fino a uno strapiombo giallo. A questo punto Enzo decide di attraversare verso il centro della parete. C’è una piccola cengia che diventa cornice. La segue, mi sorride e poi sale verso l’alto. Sono solo in terrazzino, le corde dondolano nel vuoto, Enzo mi chiede di legare lo zaino. Lo lego e poi mi giro dall’altra parte per non vederlo risucchiato nel vuoto. Resta ora a me constatare quanto sia duro questo tratto (circa 40 metri, dove tornare indietro sarebbe stato difficile. Quelli che l’hanno fatto hanno patito le pene dell’inferno. Vedo che adesso attraversano più sotto). Dicevo: obliquiamo due lunghezze di corda sin sotto la parete gialla. Enzo parte, mette alcuni chiodi. La roccia non è buona e fa sicurezza in una nicchia. Lo raggiungo. La nicchia è proteggibile solo con due cunei di legno.
Flavio Ghio anni ’70 (arch. Riccarda de Eccher)
Enzo riparte in silenzio sulla roccia rossa. Sale alcuni metri e poi mette un chiodo. Attraversa in obliquo fino alla lingua di rocce nere. Le raggiunge e sparisce. Io so che due cunei di legno non possono tenere una caduta. Ad un certo punto, arrivato ad un terrazzino, mi chiama. Parto, il chiodo esce ed io volo: non sarò io quello che farà il VII. Quando arrivo sul terrazzino ormai comincia a fare buio. Velocemente prepariamo un bivacco e anche una bevanda calda. Mi tiro giù il passamontagna, chiudo gli occhi e anche se è il mio primo bivacco mi addormento perché sono molto stanco. Il mattino riprendiamo la salita. Fa freddo. Con due lunghezze di corda giungiamo in cengia e lì sappiamo che l’impresa è ormai compiuta. A quel punto attraversiamo una ventina di metri e raggiungiamo una rampa, la seguiamo e poi imbocchiamo un camino che scende dalla cima. Lo risaliamo e a un certo punto questo diventa canale. Si comincia a vedere la neve e capisco che siamo arrivati. La cima, una sosta, la più meritata per questa salita. Poi scendiamo. Più in alto possono salire solo i pensieri.
La via l’abbiamo aperta con uno stile da pionieri, non da modernisti. Abbiamo piantato 12 chiodi, lasciati lì, meno uno che m’è venuto via. La gioia per questa via è stata grande, aumentata dalla consapevolezza di aver tracciato una linea di salita di massima difficoltà in piena coerenza con quelle che erano le idee di Enzo in fatto di alpinismo, superando in libera passaggi di VI/VI+. Enzo: indifferente all’altezza, sembrava non cercare l’appiglio, sembrava crearlo lui stesso con i suoi movimenti man mano che saliva. Inimitabile.
Hai detto che non facevi altri sport, a differenza di Enzo, però in qualche modo ti allenavi?
Sono un pelandrone: l’allenamento asciutto, diciamo non in situazione, non faceva per me. Qualche corsa, qualche dieta, per poi passare sicuri dove altri hanno il respiro affannato e le mani tremanti.
Flavio Ghio in traversata sulla via Micheluzzi al Piz Ciavazes
E anche il tuo modo di fare alpinismo esce un po’ (solo un po’?) dagli schemi tradizionali, quelli almeno più praticati, specie oggigiorno…
Per me, più che la difficoltà delle vie conta il modo, che si esprime soprattutto con le solitarie. C’è qualcosa a monte: esiste la montagna e poi l’alpinismo. L’alpinismo è la cosa più vicina alla montagna, la scorza, il guscio, però non è la montagna. Per fortuna che esiste, e così ci permette di conoscere e la montagna e quello che le sta dentro, il nucleo. Fu mio nonno a insegnarmi a “guardare” le montagne, un’esperienza che si perde nell’infanzia: le montagne erano quelle che si vedono da Trieste nelle giornate di bora: il Carso, le Dolomiti. A casa, poi, sbirciavo e leggevo libri per scoprire anche chi c’era andato “dentro”; come la storia di Georg Winkler sulle Torri del Vajolet con quel colore rosa, che mi sembrava la luna, lui che andava da solo… Alle superiori un compagno mi portò in Valle e mentre lui saliva con un altro, legati, dapprima li ho guardati ma poi son salito anch’io, da solo, slegato: una via di III con strapiombo. Eravamo alle Rane.
La solitaria in libera è il modo ideale. Son cose difficili queste e ancor più difficile mi sembrava che ci potessi arrivare anch’io. Ed è a questo punto che c’è l’incontro con Enzo: sono andato dietro a lui su vie difficili, e ho capito essere quello l’alpinismo più vicino anche alla mia indole.
Flavio Ghio in arrampicata, negli anni ’70: riconoscibili le sue “Superga ” (arch. Riccarda de Eccher)
Precauzioni nelle solitarie?
All’inizio ci si porta la corda perché non si sa mai, ma poi non l’ho adoperata né più portata. Se vado in solitaria devo andare in libera, non devo scimmiottare qualcosa con i rinvii. Si entra in una tale simbiosi con la roccia, con la parete: faccio una salita e arrivo ad un canale (ho fatto anche cose semplici in solitaria) e mi fermo e sono solo; vedo la vasca scavata dall’acqua, un po’ di muschio, che sembra siano là ad aspettarmi; non sono lì per caso e non è un caso che io sia finito qui; è una vita che si scambia reciprocamente, io con i miei pensieri questi con la loro presenza, però mi stanno facendo festa, e io sono contento di questa cosa…
Likoff (festa in grotta): con Enzo Cozzolino, Adelchi Casale prepara il Gran Pampel mentre gli astanti cantano “Odino, Odino, no stame mandar piova, manda vino”. In basso a ds, Tiziana Weiss (foto Adelchi Casale)
La scelta delle vie come avveniva?
Diciamo due cose. Una cosa è una parete vergine, dove si può andare da una parte piuttosto che dall’altra (questo per un paio di vie che ho aperto). Altra cosa è essere su una via già aperta, dove non si ha bisogno di niente, né di relazioni né di altro: vai, perché se chi l’ha aperta è andato per il logico tu trovi il logico. Enzo non leggeva le relazioni, andava. Di solitarie ne ho fatte una trentina (pareti anche notevoli: oltre 500 m di sviluppo). Ero un po’ iconoclasta in quei momenti, nel senso che non volevo conservare memoria di quanto facevo. In questo contatto che si realizza c’è sempre qualcosa di intimo. Quando fai le solitarie entri in un’altra dimensione (per come l’intendo io)… Perché bisogna con la testa essere già in cima prima di affrontare la parete. A quel punto se già ci sei sopra hai una parete amica, ed eviti così di aderire alla procedura per arrivarci. Si ha l’istantaneità, e l’istante non ha tempo, non è né presente né passato né futuro: un’altra dimensione insomma, non analizzabile a pezzi.
Via nuova sulla Croda dei Ròndoi: Flavio Ghio (a sin) con Renzo Zambonelli (foto Giorgio Ramani)
Mi piacerebbe ampliare il discorso su alcune di queste tue salite (tutte vie nuove), a cominciare dalla Croda dei Ròndoi, nel 1974, con Ramani e Zambonelli.
La via sulla Croda dei Ròndoi è in linea con alcuni pensieri che avevo in mente, e che si rifacevano allo stile della mia ricerca di vie nuove: la cima non era alla moda; la parete non era intasata da vie; la struttura (un diedro) invitava a salire. Mi sembrava arrampicabile in libera (non si faceva uso di nut e friend). Volevo offrire agli amici la soddisfazione di salire per una via nuova. Il clima doveva essere quello di una via classica di cui si è perduta la relazione.
Tra i tuoi compagni di cordata anche Riccarda de Eccher.
Con Riccarda ho fatto una via che credevo nuova in Giulie, quel diedro in Cima Alta di Riobianco che poi è risultata non esserlo (ma prima femminile sì). Infatti Buscaini ci ha fatto poi sapere di uno sloveno che l’aveva già salita; e poi un’altra via nuova, e prima femminile, sulla Cima Fanis di Mezzo, dove non abbiamo piantato alcun chiodo (eravamo legati ma non era il caso di mettere chiodi). Ricordando quest’ultima via mi trovo a pensare: se improvvisamente questo equilibrio si spezza, e l’aria intorno diventa la mia angoscia? Molte salite nascono dalla composizione di due forze: timore e desiderio. A volte, e non per nostra volontà, riusciamo a collocarci nel punto dove si toccano. Lì, soggiornare e guardarci. Mi vedo salire piano, pronto a rifare i medesimi movimenti in senso contrario, in qualsiasi momento. Dice Eraclito, e sembra di sentire Paul Preuss: “La strada all’in su e all’in giù è una sola e la medesima“.
Flavio Ghio in vetta a Cima Scotoni, dopo l’apertura della via dei Fachiri (Archivio Fam. Cozzolino)
Ed ancora quelle due vie sulla Seconda e Quarta Pala di San Lucano, con Favetti e Gogna, dove avete bivaccato.
Due salite individuate da Gogna. Si apre il libro della Natura e si trovano due grandi pareti ancora libere da vie. Si dorme in un tabià e si guarda stupiti il volo senza rumore di una nottola. La notte successiva si bivacca sotto le stelle. Un alpinismo alla Kugy o alla Dougan, che dalle Giulie attraversa incredulo la Valle di San Lucano.
Flavio Ghio sulla via dei Fachiri, alla seconda cengia (archivio Fam. Cozzolino)
Kugy sì, sappiamo chi è, ma Dougan…
Vladimir Dougan (1891-1955), un alpinista dimenticato dalla grande quantità di triestini, figuriamoci fuori. Con Antonio Marussi pubblicò nel 1932 una guida sul Gruppo del Montasio. Alpinisticamente nasce sotto l’ala di Julius Kugy, con cui fa delle salite e Kugy nei suoi libri lo incensa apertamente. Quello che si intuisce guardando le sue vie, che per la maggior parte non sono ripetute, è che sono state aperte seguendo la linea del monte. Era riconosciuto che nessuno fosse in grado di individuarne la linea ideale come Dougan: una vera dote. Facendo un parallelismo, anche Enzo supera Comici, di cui è considerato l’erede naturale, dal punto di vista del grado, pur conservandone lo spirito di lettura del monte e usando attrezzi non dissimili da quelli usati da Comici. Troppo facile superarlo grazie a una cassetta degli attrezzi più ricca.
Enzo Cozzolino sul secondo traverso della via dei Fachiri (Archivio Fam. Cozzolino)
E anche tu hai seguito la filosofia di Cozzolino…
Secondo Cozzolino, infatti, anche se il primo impulso davanti a un tratto di roccia apparentemente insuperabile in arrampicata libera sarebbe quello di chiodare, cadrebbe – cedendo a questo impulso – uno degli elementi essenziali che costituiscono il pilastro, il vero fascino dell’arrampicata: l’enigma del passaggio e la sua eventuale soluzione in base a un ragionamento e a un’intuizione, sfruttando cioè razionalmente gli appigli più o meno marcati che la parete stessa offre per essere salita.
Questo era anche un cozzare contro i compagni di cordata, che pure le marce per arrampicare con lui le avevano. Un chiodo in più – per Cozzolino – significava
Riccarda de Eccher, compagna di cordata di Ghio (anni ‘70, archivio Riccarda de Eccher)
rovinare tutto. Evidentemente a questi compagni mancava lo spirito di Enzo, quel quid cioè che ha in più colui che fa la storia. Infatti quando Enzo apre la via nuova sulla Busazza con Adelchi Casale, a un certo punto fa una considerazione: “Adesso tenteremo di uscire da questa via senza bivacco così come hanno
Tiziana Weiss in cordata con Enzo Cozzolino sul Crinale di Val Rosandra (archivio Fam. Cozzolino)
aperto la via più in là Gilberti e Castiglioni” (usando 10 chiodi). Loro ne hanno usati e lasciati 8 più 2 cunei. Enzo vuole uscire in giornata: è il suo modello ideale del VI, con un bivacco se si vuole. Non si può fare una via in 10 ore dove normalmente se ne impiegano 5: evidentemente non si è fatta quella via, ma un’altra
Enzo Cozzolino (a sin) con Luciano Corsi, dopo l’apertura di una nuova via sulla Punta Chiggiato in Antelao (archivio Fam. Cozzolino)
roba. Egli non solo rifiuta l’uso sistematico del chiodo come metodo di progressione, ma anche come assicurazione. Un’altra cosa da puntualizzare: sulle vie nuove si possono piantare fino a un massimo di 10 chiodi, qualsiasi sia la via; se ne pianto di più non vale, e bisogna anche salirla in giornata. E una ripetizione
Enzo Cozzolino (a ds) con Luciano Corsi in cima alla Torre Fanis, dopo la prima invernale della via Castiglioni (archivio Fam. Cozzolino)
ha valore se la si fa con i chiodi che già si trovano; di nuovi Enzo non ne metteva. C’è una certa affinità con quanto faceva Messner quando ripeteva le vie di Aste (e fu uno dei primi a ripeterle), e sappiamo pure che Aste schiodava le sue vie, itinerari in cui si trovano dei passaggi incredibili. Scorrendo l’attività di Enzo,
Enzo Cozzolino (a ds) posa con Luciano Corsi presso Capanna Trieste, prima di partire per la sua prima solitaria di VI grado: via Tissi alla Torre Venezia (archivio Fam. Cozzolino)
si nota che le vie ripetute sono davvero poche; a lui non interessavano, ne apriva invece una vicino. Ad esempio, la “Comici” alla Grande non voleva farla. Non gli interessava che l’avesse aperta Comici, perché non aggiungeva niente al suo alpinismo. Non era da lui seguire i canoni comuni. Se possiamo, diciamo che Enzo è l’etica, mentre Comici è l’estetica: basta guardare lo Spigolo Giallo, non si può non riconoscerglielo.
Enzo Cozzolino in solitaria, ripreso all’attacco della Torre Venezia (archivio Fam. Cozzolino)
Enzo Cozzolino è scomparso nel 1972. Hai aspettato 40 anni ma alla fine, nel 2012, gli hai dedicato un film: Fachiri, echi verticali.
La storia per il film nasce perché “un’amicizia rimane impegnativa anche quando l’amico scompare”. Tanto per Enzo, come fu per Comici, il filmato non rende. Si intuisce che è agile. Non c’è però il senso della fluidità mentre sale i Falchi di Spiro: l’unico filmato, in bianco e nero, che abbiamo trovato. Per il resto assieme al regista Giorgio Gregorio, che è anche direttore della Scuola “Emilio Comici” della SAG (Società Alpina delle Giulie), siamo andati fin sotto la Scotoni e la Torre di Babele. Gino Cozzolino, suo fratello gemello, ci ha consegnato alcune delle diapositive che Enzo teneva dentro una valigetta metallica. A Enzo infatti interessava documentare quanto aveva fatto.
Seconda Pala di San Lucano: Flavio Ghio a poche lunghezze dalla vetta dopo la 1a ascensione della parete est (8 aprile 1974)
Fatale la Torre di Babele.
Enzo era a Moena, alla Scuola Alpina della Polizia di Stato: in montagna, tra le montagne, avrebbe avuto tante possibilità. In una lettera (diretta forse a un amico, non spedita perché non ne ha avuto il tempo), scriveva: “Qua sono in un Paradiso terrestre, non pensavo ci fosse un posto così bello: arrampico ogni giorno. È troppo bello. Penso che non durerà…“. Non durò, infatti. Voleva aprire una nuova via sulla Torre Trieste, in Civetta. In attesa dell’autorizzazione da parte del Comando Centrale, per allenarsi arrampicava intanto con Mario Zandonella, anche lui alla Scuola Alpina. Durante una salita della via Friederichsen-Giordani alla Torre di Babele in Civetta, in uscita, a soli venti metri dalla cima, dove c’è il passaggio più difficile della via, Enzo cadde. Arrampicavano in solitaria, non legati in cordata, non assicurati, distanti qualche metro uno dall’altro: ognuno arbitro della propria vita. Era il 18 luglio 1972 ed Enzo aveva 23 anni. Mario morirà esattamente tre anni dopo, in Pelmo, anche lui ventitreenne.
Hai continuato ad arrampicare, e con te anche Tiziana Weiss; entrambi avete avuto un legame privilegiato con Enzo.
Ci ho messo molto per pacificarmi per questa perdita. Non mi sono fermato, tutt’altro. Era tanto grande la trasmissione dell’arrampicata che lui ancora mi dava, che quella di fermarmi era l’ultima roba a venirmi in testa. Pensa che con Tiziana cercavamo addirittura di ricordarlo il più possibile, quando arrampicavamo in Valle o anche su una via, come per esempio sulla Torre del Camp, in Moiazza: non volevamo che il dolore ci bloccasse, anche se mi ero imposto che mai avrei dato il nome di Enzo a una via che avessimo aperto. Mai, proprio io che valgo quello che valgo… E prima di scrivere qualcosa su Enzo ci ho messo parecchio, non mi era facile. Con lui in montagna ho fatto quella via, la più emblematica del suo alpinismo. Ma non è solo la montagna, Enzo mi ha permesso di conoscermi. A qualcuno aveva detto: “quando vedo Flavio me par di vederme mi de muleto“. Nelle mie difficoltà vedeva le sue per trovare la strada.
Flavio Ghio sulla Quarta Pala di San Lucano, prima ascensione della parete sud, 14-15 aprile 1974
Prima di lasciarci parlami anche degli altri tuoi compagni, di altre tue vie …
Ricordo Aldo Anghileri, uno dei nomi sacri dell’alpinismo lecchese, padre degli sfortunati Marco e Giorgio. Con lui, Gogna e Pierre Biedermann siamo andati in Corna di Medale, sopra Lecco, una bella parete (7b+). Aldo era un tipo incredibile: facciamo la “Gogna-Cerruti”, torniamo giù, andiamo al Rifugio e lui va a ordinare da bere perché eravamo tutti e quattro assetati. Esce con quattro bicchieroni di vino e aranciata con sopra un grosso gelato alla panna: “trovato solo questo per raffreddare il vino…!“.
Le mie vie? Più che dei passaggi, vorrei dire delle sensazioni che ancora adesso, ad anni di distanza, affiorano. Sulla via nuova al Pianoro dei Tocci ero con Piero Mozzi: “Sul filo dello spigolo. Non so dove potrei passare. Allungando lo sguardo, la parete sembra un grande arabesco che scende dalla volta turchese. Salgo dove gli ornamenti sono più serrati“. Mentre alla Solleder del Sass Maor: “Una voce mi chiama dall’alto. Sono attratto da quel girare per la parete. I colori, poi, hanno il fascino delle antiche pitture rupestri. Un desiderio di slegarsi e salire in libera mi pulsa dentro. Il rispetto del compagno mi trattiene. Ma il cuore sanguina“. E sulla solitaria della Castiglioni: “Dopo una rampa la parete s’impenna. È bello lasciare la rampa per entrare in una verticalità architettonicamente sublime“.
Sull’altra solitaria allo Spigolo del Velo: “In cima, un improvviso dolore porta via la gioia di un’arrampicata solitaria. Enzo non può vivere questa gioia. Un mare di dolore galleggia nell’aria. Decido di scendere. Lo farò per lui, anche se non servirà a nulla. Scendendo scopro che lo Spigolo del Velo è un sentiero che si snoda tra pareti verticali. Riesco ad arrampicare sempre sul suo filo. Non perché lo voglio ma perché viene così“. E alla Punta Frida: “Sono le cinque del pomeriggio. Scarpe da ginnastica, jeans, cordino e due coppie di moschettoni. Mi sto dirigendo verso la “Delvecchio” alla Punta Frida. A Forcella Lavaredo incontro una ragazza di Trieste con i suoi genitori. Li conosco appena. Ci scambiamo solo un cenno, come prima di sparire dietro l’angolo di un marciapiede. La mia utopia? Che l’arrampicare diventi una serena quotidianità“.
Forcella del Lago: Flavio Ghio, oggi
Quotidianità… Sembra che per Flavio arrampicare sia proprio così: una serena quotidianità. Fatta eccezione per la via dei Fachiri, le sue risposte non hanno mai fatto cenno a dati tecnici, difficoltà delle vie salite. Mi ha risposto con aforismi, una sintesi di sensazioni, pensieri di chi in via più che guardare all’attrezzatura e ai passaggi, dialoga con la parete, la montagna, il “nucleo”. Mi congedo da Flavio e vado sul Molo Audace sostando accanto alla Rosa dei Venti, per vedere il Carso, che si allunga sulla penisola istriana. Le Dolomiti, invece, sono oggi nascoste da una leggera foschia: ma tornerò e ci sarà un po’ di bora che mi permetterà di ammirarle anche da Trieste.
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Storie di un tempo che provocano forti emozioni: ritornare indietro nel tempo per rivivere un po l’alpinismo di una volta, riscaldarsi a un focolare che sembra non esserci più. Che tempi quando si arrampicava con i pantaloni alla zuava, con pochi chiodi forgiati in officina e cunei di legno costruiti in falegnameria. Scarponi ai piedi che ti costringevano a usare tanta tecnica per salire. Era una gara aprire una via e ancor di più farlo con il minor uso di materiale, infilare e martellare un chiodo il più distante possibile – anche se potevi fare altrimenti e più facilmente – . Scalare era un’arte che si tramandava di alpinista in alpinista. Tutto s’imparava con grande tenacia e umiltà. Quante notti ho trascorso in un sacco di naylon sul poggiolo di casa per abituarmi al bivacco, quanto mi sono allenato nella chiodatura, quante ore in parete, quanti sogni, tensioni e paure prima della scalata, ma soprattutto quanto tempo ad ascoltare i miei maestri, per rubare i loro segreti della loro lunga esperienza. Insomma era una sfida non con la parete, bensì con se stessi. Oggi non più la stessa fatica, ma nemmeno la stessa gioia in vetta!
Conobbi Flavio in Valle tantissimi anni fa… forse 25 o più… ricordo che era da un bel po’ che non arrampicava, noi invece a quei tempi ogni momento era buono per scalare, anche solo un paio d’ore prima del buio, finito il lavoro, e quindi eravamo ben allenati.
“Dai che femo qualcossa insieme…!” aver l’occasione di arrampicare con uno dei miti che aveva scalato “I Fachiri” per noi era un onore, un’occasione appunto, da non lascarsi scappare… “Ma non voi se bravi…! Xé tanto che no rampigo…” ci disse col suo classico fare schivo e timido. Un po’ inorgoglioisiti da questo apprezzamento ci sentimmo ancor più autorizzati a proporre qualche tiro assieme. Eravamo in ferrovia, la sezione alta della Valle, quella più ricca di vie e probabilmente anche di storia.
Alla fine Flavio si convinse e posò le mani sulla roccia cominciando a salire… ci aspettvamo di vedere almeno un po’ di difficoltà nel movimento, visto che lui stesso ammisse di essere fermo da un bel po’…invece… ciò che i vecchi raccontavano di lui lo vedemmo con i nostri occhi e fu una gran bella esperienza! Leggerezza e classe!
Non mi è più capitato di arrampicarci assieme, ma per un ragazzo che cominciava ad apprezzare questo mondo fu una grandissima esperienza, di quelle che rimangono nei ricordi.
Niente di ché in questo ricordo, soltanto una piccola testimonianza dell’incontro con un “Grande alpinista” poco conosciuto al di fuori dei circuiti locali, che mi faceva piacere raccontare…