E’ stato un invidiabile privilegio per la rivista Uomini e Sport poter pubblicare in anteprima e in esclusiva le ultime pagine scritte dal fortissimo alpinista lecchese che ci ha lasciato all’improvviso soltanto un anno e pochi mesi fa. Questo testo di Gigi Alippi, assieme a pochi altri, avrebbe dovuto costituire, nelle intenzioni di lui, un’indispensabile aggiunta per integrare, in una prevedibile seconda edizione del suo volume Il profumo delle mie montagne (Alpine Studio, 2014), la raccolta delle sue memorie. La superba arrampicata, realizzata nel maggio 1960, qui viene raccontata con noncuranza e semplicità, lasciando intravedere l’eccezionale qualità dei due protagonisti che, al dì là dì quanto loro stessi ritenevano, sono riusciti a realizzare l’apertura di una via dal valore alpinistico inversamente proporzionale alla notorietà che in seguito questa salita ha lasciato dietro di sé.
Lettura: spessore-weight*, impegno-effort*, disimpegno-entertainment**
Gli autori della nuova via: Gigi Alippi (a destra), con a fianco il Det. Archivio: Giuseppe Alippi.
Forcellino 1960
di Gigi Alippi
(già pubblicato su Uomini e Sport n. 24, maggio 2017)
La mia, con il Det, era un’amicizia solida, basata sulla condivisione di impegnativo e faticoso lavoro in campagna, cui si accompagnava nei momenti di libertà la rincorsa verso le pareti di montagna dove sfogare la nostra passione per l’arrampicata. Quel mese di marzo del 1960 il Det, Giuseppe Alippi, classe 1934, era salito ai Piani Resinelli a tagliar legna: non pensiamo all’armeggiare leggero con la motosega, che a quel tempo non apparteneva nemmeno al mondo dell’immaginazione. Ci si confrontava con le piante di faggio a suon di scure, battendo e ribattendo con la fronte grondante di sudore, finché si riusciva ad aver la meglio sullo spessore della pianta, che crollava a terra. Il lavoro con la scure proseguiva con il sezionamento del tronco in modo di ricavarne quattro parti, e al quarto veniva legata alle estremità una bella frasca: solo allora il fass era pronto per affrontare la discesa lungo i sette tratti della teleferica. Arrivato ad Abbadia, veniva caricato su carri e portato a destinazione. Per noi ragazzetti, cresciuti in questo contesto di divertimento e fatica, era del tutto normale sopportare impavidamente tutti i disagi annessi, per nulla consapevoli che anche questa diventava una valida preparazione alla pratica dell’alpinismo. Mi ricordo che sulla Nord del Monte Disgrazia, mentre la piccozza roteava e incideva con una facilità estrema, mi chiedevo: “Che parete di ghiaccio è, se non trovi il ghiaccio?” Quanta inesperienza… Oltre all’alpinismo, entrambi
eravamo appassionati alla caccia. Dal nostro bosco ascoltavamo estasiati cantare sui “crap” le coturnici, commentando ogni volta: “È una; no, sono due, no, sono più di quattro: è la covata”. Quanta poesia in questi ascolti! Oggi le “coturne” lì non ci sono più, mentre gli stessi sentieri sono spesso lacerati da irriguardosi escursionisti vocianti.
Quella sera di marzo il Det, come altre volte faceva, venne a casa nostra, dove un piatto di minestra fumante non mancava mai, insieme alla cordialità di un’allegra famiglia. A un tratto mi dice: “Te, sono passato da Cunsei e ho visto una parete, una lavagna bellissima: andiamo a farla?”
“Si tratta sicuramente della parete del Forcellino”, l’ho capito, ma intanto
rifletto: se i nostri vecchi non l’hanno mai presa in considerazione è per puro caso, o ci sarà stato qualche buon motivo? Il Det invece ha già deciso: “L’etica è tutta qua: si attacca in una forra selvaggia, dove è difficile arrivarci: la parete è bellissima, arrampichiamo fino a una cima, il Forcellino. Cosa vuoi di più? Ero sicuro del tuo sì, e così ho già programmato tutto. Si farà nel mese di maggio, quando le giornate sono più lunghe. Dovremo andarci prima della fienagione del maggengo, e poi ci sarebbe anche il problema di mia madre: lo sai che non vuole cha faccia certe cose, e inoltre mi dovrebbe sostituire nella stalla. Sono comunque delle difficoltà che ho già risolto nella mia mente: si va dunque il mese di maggio, e acqua in bocca”.
Nessuna obiezione: “D’accordo, e sia per maggio”.
Lui prosegue: “Un’altra cosa: da primo si fa metà parete ciascuno”. Gli rispondo: “Lo sai benissimo che per me stare davanti o stare dietro non cambia niente, so fare altrettanto bene il primo come il secondo”. Se non fosse stato per sembrare irriverente nel confronto, avrei proseguito dicendo che Vittorio Ratti fungeva normalmente come secondo di Riccardo Cassin, pur essendo un eccellente primo, come lo dimostrò in cordata con Gigi Vitali sulla Ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey al Monte Bianco.
Mi misi subito ad allenarmi, preparandomi con gli amici del rifugio SEM. ai Resinelli. A Luciano Tenderini non potei tenere nascosto il nostro segreto: con l’immensa stima che avevo di lui, mi ero già messo sotto la sua ala protettrice, e ben presto aveva preso a considerarmi come suo allievo preferito.
Non dimenticai mai quanto mi fu prodigo di consigli, quelli di carattere tecnico ma ancora di più di quelli formativi sotto l’aspetto morale e umano.
Siamo giunti pronti alla data della partenza: abbiamo gli zaini stracarichi specialmente di attrezzatura per l’arrampicata, con moltissimi chiodi e con dei cunei di legno che il Det aveva ricavato dalle radici di una pianta di noce da lui stesso sradicata. Me li aveva presentati con una punta di orgoglio, dicendomi: “Vedi, le radici di noce sono morbide, per cui entrano nelle fessure con facilità e sono molto sicure”.
Giungiamo al colletto di Cunsei e scendiamo lungo il ripido canale, facendoci sicurezza di pianta in pianta. Ripensandoci ora, dobbiamo ammettere di essere stati davvero imprudenti, quando invece sarebbe bastato ricorrere a una serie di corde doppie. Nell’euforia del momento non ci eravamo resi conto che su quel terreno non si poteva essere tanto sicuri.
Giunti alla base, troviamo una specie di anfiteatro a guisa di grotta: un bivacco favoloso con morbida erbetta! All’alba siamo già in movimento: niente colazione, ci penseremo più in alto. Il Det attacca un canalino coperto d’edera. Lo avverto: “Stai attento, cosa posso fare se voli? Non c’è nessun ancoraggio intermedio”. Lui è laconico: “Cercherò di non cadere giù!”
La parete sud-ovest del Forcellino vista da Paré. Foto: Roberto Chiappa.
Il canalino verde ci porta in un altro canalino, roccioso: da qui si può partire per il centro della parete e, quando lo raggiungiamo, ci fermiamo a guardare in su, verso l’immensa parete. L’avventura inizia qui: la nostra mira punta a un diedro che muore sulla cengia erbosa che si trova sotto la cima: sarà una via a goccia d’acqua. Man mano che si sale volgiamo un occhio alla Statale 36 che si snoda sotto i nostri piedi: è trafficatissima, come ci conferma anche il rumore del traffico che ci raggiunge, in parte soffocato dal suono di un’autoambulanza. L’azzurro del lago confinante con la strada Statale sembra ci voglia accogliere con un bel tuffo. Questa parete al mattino è in ombra, con un clima piacevole, che non coincide con le difficoltà tecniche che sono invece molto elevate.
Proseguiamo nel silenzio assoluto, che viene interrotto solo dal martello del Det: sono i chiodi che ci assicurano oltre alla progressione. Quando tocca al mio turno, se c’è qualche chiodo che fa i capricci, lo lascio in parete: sarà la testimonianza del nostro passaggio. Nel frattempo il sole ci ha raggiunto e ora ci rosola, mentre l’acqua scarseggia: anzi, è finita e ci troviamo con la bocca impastata, illudendoci di rinfrescarla con un sassolino, un chiodo o un moschettone. Comunque questa sofferenza per noi non è un problema, abituati da una giovinezza costellata di tanti sacrifici.
Ci troviamo inoltre in un ambiente bellissimo, che si gusta nel silenzio che viene rotto solo da una specie di sordo ululato che ci perviene dal traffico sottostante e dal saltuario rumore metallico dell’impatto del martello con il chiodo, con il toc toc che cambia di tono quando il battito va a cadere sulla radice di noce.
Alpinismo lecchese a confronto generazionale: a destra un anziano Gigi Alippi abbraccia il figlio Stefano, che ne ha seguito le orme come noto climber. Foto: Luca Lozza.
Abbiamo ancora a disposizione molte ore di luce, ma gli occhi, che sono sempre puntati in alto, trovano che il diedro sognato sembra allontanarsi. Superiamo traversi e diedrini e arriviamo proprio a perpendicolo sotto il diedro, con la speranza di superarlo e bivaccare in cengia. Le ombre però stanno ormai calando quando siamo giunti ad attaccarlo. Ci dovremo accontentare di disporre della fessurina che lo solca, che ci permette di chiodare: non avremo nessun appoggio per i piedi, ma sperimenteremo quanto utile attrezzo rappresentino in questo caso le staffe. Il buio ci ha sorpreso a una ventina di metri dall’uscita sulla cengia: che goduria preparare un bivacco sulle staffe! Saranno provvidenziali per la notte i numerosi chiodi che riusciamo a far entrare nella fessurina, in quanto saremo costretti a trascorrere un bel po’ di tempo in queste condizioni. Come orologio notturno ci affideremo al rumore del traffico che si svolge sulla Statale, e che per ora è parecchio intenso. Lungo la notte assisteremo alla sua evoluzione, che si modificherà in rapporto all’orario, passando da intenso a medio, fino a ridursi al solo brusio dei camion. La notte è tranquilla, tipica del mese di maggio, ma per noi è drammatico semplicemente il pensiero di doverla passare con il peso del corpo affidato al gradino di una staffa. Vedremo che la stanchezza avrà la meglio anche sulla concentrazione: si precipitava alle volte nel vuoto, con un breve volo che si riduceva a 40-50 cm tra sicura al chiodo e alla vita. Il risveglio è violentissimo, e ciao al sonno…
Quando avvertiamo che il traffico sulla 36 è ridotto a quello dei camion, comprendiamo che ormai rimangono poche ore di sofferenza. Arriva finalmente la luce, e l’alba è un’esplosione di colori: sulla 36 c’è il lento rincorrersi di rare fiammelle che stanno ormai scomparendo, mentre le loro luci, proiettate nel lago, si dissolvono verso Lecco. Noi cominciamo a muoverci con molta cautela: durante la notte abbiamo parlato pochissimo, limitandoci a sussurrare i nostri lamenti. Il Det riparte chiodando la fessurina del diedro: a lato della fessura c’è solo roccia liscia. Per i piedi ci si affida alle staffe, non esiste altro appoggio. Non sogniamo altro che arrivare in cengia, potersi sedere sull’erba fresca e finalmente riposare. Mi coglie inaspettato il grido liberatorio di Det: “Sono arrivato, tocco l’erba!” Poco dopo il piacere, che adesso non sono in grado di descrivere, di posare il sedere sull’erba morbida e fresca, lo potrò provare anch’io. Le rare piantine, che crescono rubando quel poco di humus di un arido terreno, stanno appena sbocciando: è maggio. Vediamo che la cima della Punta Forcellino adesso non è molto lontana: mancheranno non più di 200 metri. Mentre gustiamo le sensazioni che si fanno sempre più piacevoli, sentiamo provenire dall’alto dei richiami festosi, e intanto nel vuoto fa pure capolino un sacco promettente. Mi rendo conto una volta di più quanto sia grande l’amicizia che mi dona Luciano Tenderini: lui ha pensato a tutto, e passando da mia madre con altri amici, ricordo Romano Merendi e Mimmo Maida, lo ha riempito di molte leccornie. Da parte nostra l’accoglienza più festosa e abbondante l’abbiamo riservata all’acqua! Soddisfatte le esigenze corporali, possiamo metterci seduti e dare il meritato riconoscimento alla vista incantevole che da quassù spazia verso il Monte Moregallo e i Corni di Canzo che ci stanno di fronte, mentre a sinistra, oltre al Monte Barro, ci colpiscono i laghi di Oggiono e di Pusiano. Scorriamo lo sguardo anche verso l’Adda che lascia il lago di Lecco, sulla stessa nostra città con il suo inconfondibile campanile, ritornando poi su quel tratto azzurro del lago che sta ai nostri piedi e sulla Statale che ci ha accompagnato con i suoi rumori e che è ancora punteggiata da tante formichine che si rincorrono. È una visione che si gode dalla vasta costiera del San Martino/Monte Coltignone e che fa traboccare il cuore di gioia: non ci si vorrebbe mai più allontanare da qui.
La parete liscia è ormai sotto i nostri piedi: il diedro che ci porta alla cima non è più così strapiombante. In cima poi scoppia un tripudio di gioia che ci fa dimenticare ogni fatica e stanchezza: sono abbracci a non finire, che fanno vibrare il mio giovane corpo di un’emozione mai prima provata.
Solo più tardi ci fu consentito di comprendere che questa nostra ascensione avrebbe conseguito un valore alpinistico che oltrepassava enormemente quanto era stato nella nostra immaginazione: il nostro Forcellino, la ciclopica e verticalissima parete sud-ovest, alta 450 metri (VI – e A2/A3), che precipita verso il lago fra la Bocchetta di Val Verde a sud-est e la Bocchetta di Cascèe a nord-ovest, sarebbe entrato nei testi storici nell’evoluzione dell’arrampicata nel gruppo delle Grigne, indicato come una via grande e ardita! Noi due non avevamo fatto una delle tante arrampicate: avevamo risolto uno dei grossi problemi che fanno gola a tutti, ma sono alla portata di pochi.
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