Frenesia
(Piz Ciavazes, Dolomiti, 1978)
di Raffaele Lele Dinoia
La mattina era cominciata bene, cielo azzurro sul Pordoi, verde intenso dei pini, il sole non era ancora spuntato. Anche il Piz Ciavazes era in ombra, grigio e bellissimo, con le grandi strisce nere verticali a solcare la parte alta della parete, di roccia grigia e gialla.
Allora mi ha preso la frenesia, ho fatto colazione, le ho detto che non sarei stato via tanto tempo e che in ogni caso avremmo pranzato assieme.
Ho preso lo zaino con pochissima roba, ho avviato la macchina e sono andato in direzione del Passo Sella.
Nei pochi minuti che mi ha preso l’attraversamento del ghiaione alla base della parete per arrivare all’inizio dello spigolo Abram, ho avvertito come già altre volte quelle strane sensazioni. Le mani che improvvisamente cominciano a sudare sulle dita, la bocca che diventa asciutta senza saliva e quel senso di vuoto che si localizza alla bocca dello stomaco.
Allora mi sono immerso nell’azione senza pensare, ho accelerato il passo, mi sono rapidamente preparato e ho cominciato a scalare su una bellissima roccia grigia con un pezzo di corda lasciata libera a penzolare.
La fiducia è aumentata, i movimenti si sono sciolti e sono diventati molto naturali e anche quel tratto di roccia gialla e friabile per arrivare al tetto si è fatto superare senza difficoltà.
Per aggirare il tetto occorre fare una breve traversata a destra dove devo attaccarmi con le mani ai chiodi.
Il mio modo di salire, quando sono da solo, prevede di autoassicurarmi tutte le volte che devo usare i chiodi come appigli: un conto è sentirsi sufficientemente sicuri nella arrampicata da non ammettere alcuna possibilità di errore, un altro conto è affidare la propria vita alla solidità di un pezzo di ferro piantato da altri che, se decide di uscire, ti fa schiantare sul ghiaione alla base.
Effettuo il traverso, mi metto la corda sulle spalle e proseguo rapidamente fino alla cengia che segna la fine della via di salita.
Dopo pranzo ho proposto a Rossana di fare il giro dei quattro passi in macchina, avevo solo voglia di rilassarmi e stare assieme a lei.
Ci siamo divertiti, ci siamo guardati attorno, abbiamo fatto delle foto, abbiamo riso e scherzato. Poi ci siamo avviati verso il nostro albergo perché avevamo giusto il tempo di fare una doccia e scendere a cena.
È sera e il sole ha ormai abbandonato le pareti ma ecco che, di nuovo, mi prende la frenesia.
Calcolo che mi resta giusto il tempo per fare un’altra via. La decisione è presa al volo, mi preparo in fretta, devo fare presto.
Corro letteralmente per raggiungere l’attacco, attraverso ripidi pendii di erba e terra, inciampo, mi rialzo e ansimando riprendo a correre.
Arrivo sotto la parete, incrocio due alpinisti che scendono, non mi fermo neanche a salutarli e aggiro lo spigolo strapiombante di roccia gialla portandomi nel canale che inizia con facili balze rocciose.
Incomincio a salire lungo il fondo del canale e stimo veramente breve la distanza che mi separa dall’uscita: in realtà l’effetto è dato dalla prospettiva che, quando si osserva dal basso, tende a falsare, accorciandole, le valutazioni di distanza.
Dopo poco abbandono il fondo del canale perché la mia via va a destra, o almeno così credo perché non l’ho mai percorsa e inoltre non ho nessuna relazione tecnica con me. Arrivo ad una lama verticale e mi sento un po’ indeciso: sarà giusto di qua? Il tempo di afferrarne il bordo e sono già fuori: le difficoltà erano un bluff, gli appigli sono ottimi.
Proseguo su terreno più inclinato, vedo una macchia scura appoggiata su una cengia, la raggiungo e la esamino: è una giacca a vento, niente male come incoraggiamento.
La prendo con me e mi porto nella parte più interna del canale, che qui si raddrizza notevolmente, con diversi diedri, di solito chiusi da tetti.
Strano ambiente questo: chiuso da tre parti, la luce ce l’hai alle spalle e hai l’impressione di essere veramente isolato dal resto del mondo.
L’unico rumore è quello provocato dalle cascatelle d’acqua che scendono nel fondo del canale; ma è soprattutto un mondo tutto di roccia, tutto grigio, ormai quasi scuro nella bella serata estiva.
Forse, girandomi, potrei vedere la strada, le macchine, magari anche qualche escursionista a piedi. Però non mi giro perché ho fretta e sono anche un po’ preoccupato per la prosecuzione.
Poco distante, alla mia altezza, vedo una bella fettuccia nuova, molto lunga. Se non fosse tardi, se non fossi in questa forra, o semplicemente se ci fosse il sole, andrei subito a prenderla. Adesso non ci penso neppure.
Soprattutto questa strana penombra e la mancanza di conoscenza dell’itinerario mi procurano una tensione nervosa cui faccio fatica a sottrarmi.
Proseguo diritto ora, su belle placche verticali solcate da fessure non difficili, cercando di individuare più la logica dell’itinerario che non i chiodi.
Difatti, dopo averne raggiunto uno, ne vedo altri due appaiati una decina di metri sopra di me e decido di non andare a vederli da vicino.
Mi porto invece in un diedro verticale a sinistra, bellissimo e lo salgo finalmente tranquillo perché i chiodi cominciano ad esser più frequenti. Ogni volta che ne vedo uno sento una piacevole sensazione di fiducia e di sicurezza, anche se in realtà non li tocco neppure.
Raggiungo un terrazzino con un chiodo di sosta: fin qua sono giusto.
Ora so che da queste parti ci dovrebbe essere una traversata, che però non mi risulta evidente, perciò proseguo fino a un altro terrazzino, nella parte più selvaggia della gola, in mezzo a diedri gialli o grigi e spesso strapiombanti.
Davanti a me una fessurina bagnata incide uno strapiombo. La logica mi dice che bisogna salire di qua.
Attacco la fessura ma forse non sono abbastanza deciso: non passo.
Scendo al terrazzino e considero la possibilità di traversare a questa altezza: niente da fare.
Mi viene il dubbio che la traversata andasse fatta più in basso, comunque non ho molto tempo da perdere e riprovo il passaggio.
La roccia leggermente bagnata non è amica delle suole delle mie pedule, ma soprattutto non sono convinto di essere in via. Il risultato è un altro tentativo fallito.
Ora mi decido sul serio, mi incastro nella fessura con un braccio, la testa fa fatica a portarsi oltre lo strapiombo, mentre le suole tendono ancora a scivolare.
Alla fine riesco a passare, ma sono molto teso, spero proprio di accedere ad una zona più facile e non ad uno dei tanti diedri strapiombanti.
La fortuna è dalla mia, trovo un terrazzino, poi un chiodo mi indica sulla destra la traversata giusta, che risolvo con facilità, ma ancora agitato per il precedente passaggio.
Un’ultima fessura mi porta fuori, sono sul sentiero pianeggiante, ma anche qui non si vede anima viva.
Per forza, sta diventando proprio tardi, anche per me è ora di scendere.
Sono tornato tantissime volte sul Piz Ciavazes. È una parete che amo particolarmente, è per me quasi il simbolo delle Dolomiti, anche se la vicinanza della strada e l’altezza modesta la relegano al rango di una palestra di lusso.
Oggi sono alla base con Umberto, questa mattina ho già scalato in solitaria 600 metri su vie di media difficoltà ed ho voglia di fare la via Micheluzzi.
Umberto è un buon amico, abbiamo fatto assieme la Scuola allievi ufficiali degli Alpini ad Aosta e per sei mesi ci hanno fatto neri con tutta la disciplina, lo studio, la mancanza di sonno e il freddo che abbiamo patito. Però ci siamo anche tanto divertiti, abbiamo vissuto episodi di grande amicizia e spensieratezza, abbiamo condiviso veramente tutto e certe volte abbiamo riso che di più non si poteva.
Anche lui è come me, un vero patito dell’alpinismo, ma questo pomeriggio è come se fosse assente. È innamorato perso. La sua ragazza è in Friuli e chissà quante volte ha pensato che sarebbe stato meglio stare con lei invece di accettare il mio invito a passare qualche giorno assieme ad arrampicare.
Ma è corretto e non me lo fa pesare.
Mi dice però che oggi non ha proprio voglia di scalare e mi lascia libero di fare quello che mi pare.
Peccato solamente che ci siano già cinque cordate in parete, scalando in solitaria la velocità è molto superiore, è necessario effettuare i sorpassi e queste manovre quando si è slegati sono sempre fastidiose.
Decido quindi di aspettare che l’ultima cordata attacchi la traversata di metà parete. Poi partirò.
Fino ad adesso ho arrampicato con le pedule a suola liscia che qualcuno comincia a dire che qui in Dolomiti sono meglio degli scarponi e che tra un po’ le useranno tutti.
Sarà, ma io non ne sono convinto e quando si scala da soli non c’è spazio per gli esperimenti.
Mi sfilo le pedule e calzo gli scarponi a suola rigida, aspetto che l’ultima cordata inizi la traversata e parto.
Oggi va proprio tutto bene, salgo tranquillo e veloce e quando arrivo all’inizio della traversata mi accorgo che l’ultima cordata ha percorso nel frattempo una sola lunghezza. Stanno tutti e due abbarbicati in sosta, vicini, con i piedi appoggiati su un minuscolo terrazzino. Sono appesi ai chiodi con le corde e in più mi sembra che si tengano agli ancoraggi con le mani.
Li sento parlare tra loro e mi sembrano tedeschi, mi guardano fisso e non si muovono, mi viene un po’ da ridere pensando che in questo momento dovrei essere io molto più preoccupato di loro, allora riprendo a scalare e li supero.
Sorpasso anche le altre cordate e sono tutti gentilissimi con me, mi salutano o semplicemente mi sorridono, si fermano, si fanno da parte e mi lasciano passare.
Vivo un bel momento, la roccia calda è bellissima, la arrampicata altrettanto, io mi sto proprio divertendo e poi era tanto tempo che volevo fare questa via in questo modo.
Arrivo alla fine della scalata e sono sul sentiero; non mi sento stanco, mi guardo attorno e incrocio lo sguardo di un alpinista altoatesino che avevo già superato su una via questa mattina.
Mi guarda anche lui, mi guarda ancora e mi riconosce. Poi, con una pronuncia che non lascia dubbi sulla sua zona di origine, mi dice sorridendo: ma tu non hai paura neanche del diavolo!
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complimenti
bello scritto e ancor più belli i ricordi che hai portato
essendo nato dopo qualche anno da Lele Dinoia ho avuto modo di conoscerlo in Verdon nei miei primi approcci ;anche se viviamo nello stesso paese non ci siamo più rivisti….no problem
complimenti x l’articolo
Bello davvero
Concordo. Bellissimo racconto che eccita tanti ricordi e amicizie. Anche in me con altri amici.
Caro Floriano, ricordo con vero piacere quei due mesi di naja passati assieme ad arrampicare e l’espressione ‘ma certo’ del Capitano Fontana, certamente ignaro di quello che facevamo grazie alla sua bonaria autorizzazione …
Si è vero c’erano diversi errori, ma è stata una guida importante.
@5
C’erano parecchi errori…con Gesù Bambino imparammo a non prenderla alla lettera per evitare di infilarsi in qualche guaio…anche se Marco ci si infilava comunque 😀
Il cenno alla SMALP di Aosta mi ha riportato all’anno 1976. I miei amici di corso, l’84, alla palestra del Castello avevano riconosciuto Di Noia, e le lo indicarono come un forte arrampicatore. Io ero digiuno di tutto, anzi proprio lì iniziò la mia attività alpinistica, ma il nome di Lele Di Noia mi è sempre restato nella testa.
Mi ha fatto piacere leggere questo tuo racconto.
Come non ricordare :
93 Arrampicate Scelte Nelle Dolomiti
Autori: Lele Dinoia e Valerio Casari
Edizioni: Melograno
Conservato gelosamente.
Il mitico Lele ogni tanto rispunta fuori. Quante ore passate insieme da quelle parti su quelle magnifiche rocce durante i mesi di leva.
Poi il grande, carissimo Almo Giambisi su al Pordoi dove eravamo di casa, il Capitano degli Alpini Gino Fontana con quella sua solita espressione “ma certo” rivolta a noi due per qualche nostra stramba richiesta arrampicatoria.
Bei tempi e bellissimi ricordi… Floriano
Un bella orgia di emozioni. Certezze ed incertezze che si mescolano e si fondono. La sud del Ciavazes è stata tanti anni fa un’iniziazione dolomitica proprio sulla via Micheluzzi.
Più che frenesia, che richiama alla follia, la chiamerei necessità di un equilibrio, di soddisfare un bisogno che si pensa essere la cosa più giusta da fare in quel momento.
Chi l’ha provato lo sa, ma non è facile da spiegare agli altri.
Comunque per bilanciare un Sellaronda pomeridiano in automobile, la scelta dello spigolo Abram è stata quantomai modesta.
Bellissimo.