Invecchio, dunque sono sempre più insoddisfatto: ad esempio, quando leggo o sento un “fruire“, mi prende il giramento.
di Carlo Bonardi
Eppure è termine storico e carino (fru-fru); però, se da un po’ di anni prolifera, un altro motivo ci sarà.
Difatti, anche lui si è trasformato in senso da “mercato”, nella specie turistico (ove si fanno entrare alpinismo, arrampicate, sci ed escursionismo) e così, continuando a sentirlo, lo usi anche tu, senza badarci: una volta, in vista della domenica, si diceva “andiamo in montagna”, adesso, per il tutto o in suoi singoli ambiti, impera il “fruir(ne)”, con derivazioni e combinazioni (“usu+fruire”).
Bivacco Città di Clusone alla Presolana. Foto: Federico Raiser/K3
Un caso – tra mille – lo vedo su Internet: “Dallo sci club Tre Rifugi e dalla stazione sciistica Frabosa Ski nel cuneese, l’accordo per lo scialpinismo notturno”, ove in due pagine, tra il resto, il termine c’è cinque volte (il carattere più bello di quei fruitori notturni è un “manicotto colorato da indossare obbligatoriamente”); qualche altro impiego è già spuntato anche qui, nel neo-nato GOGNA BLOG, da autori peraltro svezzati.
Così stando le cose, mi sono venute reminiscenze, in specie lo “Ius utendi fruendi et abutendi” del nostro diritto antico (nelle business schools vanno a pescare anche lì…) che, come ci spiega il dizionario Simone, era la “facoltà del proprietario di usare la cosa in modo pieno ed esclusivo, il che implica anche la possibilità di decidere se e come usarla, di trasformarla e, al limite, di distruggerla” (l’abutendi, appunto).
Ed a voler separare l’usare e il fruire, una ulteriore spiegazione viene da un altro dizionario, quello dell’etimo (“Fruire distinguesi dall’usare, perocché questo attiene all’utile ed al comodo, il primo anche al diletto, al godimento”).
Dunque, il fruire è una delle facoltà in cui si manifesta il “dominium” (la “signorìa”), o, come venne poi a chiamarsi, la “proprietà”, propria o altrui (nel secondo caso, per fruirla – aaghhh! – devo avervi in qualche modo acquisito un diritto); a seconda di come la si guardi, in entrambi c’è almeno un padrone: o io o un altro.
Si capisce allora che – a parità di arrampicate, sciate o scarpinate – l'”andare” in montagna e il “fruire” la montagna non sono la stessa cosa, quantomeno a senso di linguaggio o dell’ideologia/pratica che esso sottende: quando la montagna era di nessuno, di tutti o di sé stessa, era un vado/passo/torno, lei stava là, e basta; ora, è “robba” mia e ne faccio quello che voglio oppure devo chiedere ad altri il permesso, se e come me lo danno.
Nel primi casi, non ci sono divieti né limiti; invece, quando qualcuno la “valorizza” (art. 117 Costituzione, nuova versione dal 2001) e ne fa mercato, è il contrario.
Cambiando la lingua, cambiano le teste, come occorre a chi ci comanda, se siamo obbedienti o un po’ tonti (chissà se cambierà la montagna, magari per caderci addosso dovrà chiedere un permesso).
Carlo Bonardi (Brescia, 8 febbraio 2014)
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