Gestione del rischio e assunzione di responsabilità
intervista ad Alessandro Gogna
(già pubblicata in Lo sport sale in cattedra, l’azienda scende in campo di
Spessore 3 – Impegno 2 – Disimpegno 3
Alessandro, leggendo il tuo curriculum ci si rende conto che sei stato protagonista di vere e proprie imprese alpinistiche, che hai preso parte a importanti spedizioni in alta quota, e si può immaginare che tu abbia in alcuni casi affrontato situazioni difficili e rischiose. Cosa ne pensi e cosa hai imparato dalla tua esperienza relativamente alla gestione del rischio, dell’assunzione di responsabilità e della presa di decisioni, tema ad essi strettamente connesso?
“Innanzitutto, prima dell’assunzione e della gestione di un particolare rischio, c’è sempre, o ci dovrebbe sempre essere, la valutazione di esso. Poi possiamo procedere con il prendere decisioni, talvolta critiche o difficili, in tempi rapidi, perché tu puoi programmare, fare un piano personale e di team, ma al di là di quelli, ci sono delle decisioni da prendere che a volte cambiano i termini iniziali, perché nel frattempo è accaduto qualcosa che nessuno aveva previsto. Ed essere veloci nel prendere le decisioni è essenziale. Considerando svariate mie esperienze, penso che diverse decisioni che ho preso io in passato, in determinate circostanze, avrebbero potuto essere anche differenti. Un’altra persona avrebbe potuto fare scelte diverse e ugualmente valide. Quando si deve prendere una decisione, di solito si scartano le possibilità che sembrano peggiori. Non è escluso, però, che scelte diverse possano portare al medesimo risultato finale. Un elemento che anteporrei sicuramente a tutto è la conoscenza dei vincoli e dei limiti”.
Riconoscere i vincoli, i limiti… Non ho però capito se si intendono in termini di regole interne o di limiti per non sfociare nell’azzardo, nel rischio eccessivo…
“Conoscere i vincoli, i limiti, le regole, ma anche le possibilità è fondamentale. Riconoscere i limiti lo metterei come primo passaggio, perché nelle imprese alpinistiche, il riconoscimento delle regole e dei limiti è la prima cosa ed è determinante per definire e stimare i rischi. Se io decido di non utilizzare determinati mezzi come, per esempio le corde, scegliendo un’arrampicata in solitaria, mi sto ponendo dei limiti, perché potrei andare con un compagno, bravo come me, e l’attività sarebbe più facile e più sicura. Questo limite che mi sono auto imposto definisce il gioco che andrò a fare. Una volta stabilite le regole, il modo e i limiti della mia impresa, posso poi procedere con la valutazione dei rischi”.
E quando questi limiti vengono imposti da altri?
“È lo stesso e a maggior ragione devi prima definire i limiti, perché sono questi che andranno a delineare i rischi. La valutazione dei rischi è una fase successiva rispetto a quella in cui si fissano e/o analizzano le regole del gioco”.
Quanto è importante avere piena consapevolezza delle regole?
“È essenziale. Se ti danno dei compiti e ti dicono che devi operare nel pieno rispetto della legge, ti pongono un limite. E tu sai che operando all’interno di questi termini legali, non rischi di andare in galera. Se, invece, per te è più importante l’obiettivo, e i mezzi contano poco, allora devi stare attento a non oltrepassare i limiti, altrimenti ti assumi dei rischi senza quasi accorgertene o senza valutare realisticamente le possibili conseguenze. I rischi cambiano e sono diversi a seconda delle regole del gioco, quindi queste vanno fissate e analizzate prima”.
Groenlandia, 24 aprile 1993, il villaggio di Isertok
È mai capitato, nella tua esperienza, che le regole cambiassero in fieri, in conseguenza, per esempio, di un accadimento particolare? È mai successo che qualcosa che cambiasse le condizioni, cambiasse anche le regole?
“E’ capitato e in quel caso devi saper prendere decisioni difficili in tempi rapidi. Può accadere e si fa. Davanti a un pericolo di morte, per esempio, se ho portato dietro il cellulare, lo uso per chieder soccorso anche se avevo deciso di non usarlo. E questa decisione fa fallire l’impresa che avevo stabilito all’inizio, però mi fa raggiungere l’obiettivo, in quel caso, divenuto primario della sopravvivenza. In altre circostanze, per esempio, puoi essere privo di qualsiasi strumento di comunicazione per tua decisione iniziale. Accade che ti ferisci, con un sasso che ti colpisce sul gomito, e non ce la fai ad andare avanti. C’è una cordata a 400 metri da te e devi chiedere aiuto a loro, perché da solo non ce la faresti. Anche in questo caso, hai cambiato la tua regola iniziale a causa di una situazione diversa sopraggiunta all’improvviso. A volte ti rendi conto e decidi – mentre sei in corsa – che l’obiettivo fissato inizialmente non è raggiungibile o è troppo rischioso”.
Tu introduci il discorso sui limiti, la loro priorità e l’importanza della definizione dei limiti dell’operato, per valutare i rischi e assumersi le proprie responsabilità. Da lì, si può ancora cambiare, perché in montagna c’è una bella fetta di imprevedibilità e variabilità. A proposito, come la gestisci questa variabilità?
“Io parto dal presupposto che fulmini a ciel sereno, in genere, ne arrivano pochi. Se tu sei in una condizione di estrema attenzione ambientale, è difficile che arrivi un evento così improvviso e imprevedibile da non poter più prendere alcuna decisione accettabile. In realtà, differentemente da quanto spesso si pensa, tutti gli eventi che possono accadere in alta quota (come valanghe, smottamenti, brutto tempo) non accadono mai da un momento all’altro, ma li puoi e li devi prevedere; solitamente ci sono molti segnali che si possono rilevare prima che si verifichino”.
In sostanza, è un continuo monitoraggio…
“Difficilmente capita un evento che ti impedisce qualsiasi possibile reazione. Ci sono, invece, tanti piccoli accadimenti che ti preannunciano l’evento più grave o importante e che ti lasciano ancora il tempo di valutare e prendere decisioni, provvedimenti, che nel nostro campo possono anche voler dire tornare indietro…”.
Hai un esempio al proposito da farci?
“Per esempio, una volta sono tornato indietro da una salita dove ero andato con Leo Cerruti. Sapevamo che era un po’ pericolosa, per via della neve in alta quota, che si stava sciogliendo, e poteva provocare la caduta di piccoli massi. Eravamo sul versante orientale del Monte Bianco, d’inverno. Volevamo salire la via Crétier al Mont Maudit, ma già alle 7 di mattina avevano iniziato a cadere le prime scariche di sassi. Abbiamo allora deciso di tornare indietro, nonostante fossimo a un terzo di parete. Per arrivare alla salita, il giorno prima, ci eravamo sorbiti 4 ore di cammino per raggiungere il bivacco fisso, il posto dove dormire che è un posto di merda, sporco e non confortevole. Ci eravamo poi alzati all’una di notte, fatte altre due ore di cammino in mezzo al ghiacciaio e quando arrivammo lì, quella di tornare indietro ti assicuro non fu una decisione facile”.
28 aprile 1993, Martino Poda in salita allo Sonnansfjeldet, cima Nord, Groenlandia
Ci hai appena raccontato una situazione in cui hai saputo rinunciare, dire di no. Questo è collegato all’assumersi responsabilità e rischi, perché (quando si arriva ad un certo punto) è difficile fermarsi e si è portati a fare magari anche quel passo in più che è estremamente rischioso. Quando si ha un progetto avviato, si fa fatica ad abbandonarlo, a rinunciare. La percezione del rischio e la sua valutazione sono soggettive e possono cambiare in base alla fatica fatta?
“Se non si trattasse di una percezione soggettiva non si potrebbe parlare di responsabilità. Quest’ultima, infatti, esiste in quanto tu hai assunto una precisa posizione. Se tutto fosse oggettivo e numerabile, quali responsabilità potrebbero esserci? Tutto sarebbe vissuto in base a dati certi, senza rischi”.
Tornando al racconto di prima, se invece che a un terzo, ti fossi trovato ai quattro quinti della parete, sarebbe stata diversa la decisione?
“Sicuro e sarebbe stata molto diversa. Non c’è comunque nessuno che ti sgrida, se rinunci. Certo, bisogna essere onesti a dire la verità. Ma se ammetti quel che hai fatto, nessuno ti dirà nulla, perché si tratta di una tua responsabilità. In un discorso lavorativo, non accade così. Magari decidi di non terminare un progetto, di prendere una scorciatoia e chi è sopra di te non la pensa al tuo stesso modo”.
Quando, per esempio, decidi di provare una via che nessuno ha mai provato prima, notoriamente difficile, ti senti gli occhi addosso?
“Certo, però se la cosa rimane sana (come dovrebbe sempre essere), ti assicuro che il diretto interessato, non mette nel computo delle proprie responsabilità anche quelle che deve agli altri. A meno che non ci sia qualche sponsor di mezzo. Anche se, devo dire, la maggior parte di essi si è sempre comportata in modo egregio e difficilmente c’è stato un contenzioso, perché uno non è arrivato in cima… non ho esempi storici di comportamenti diversi. Può essere che qualcuno, mal consigliato, visto l’esito negativo di un’impresa, non abbia rinnovato il contratto, ma nulla più”.
E questo può condizionare un alpinista?
“Sì, può. Però, ti assicuro che se accade, quell’alpinista deve andare a “farsi vedere”, perché sta andando in montagna con una testa che non va bene.
L’errore, in questo caso, è suo: lo sponsor fa quel che deve fare, cura i propri interessi commerciali e non si possono pretendere cose diverse… È l’uomo che decide se essere sensibile o meno a queste cose”.
Questa valutazione la fai nella fase prima di partire?
“Certo e chiedersi se si sta facendo una determinata impresa per se stessi o per gli altri è una delle domande più importanti. Ed è molto pericoloso se la risposta non è la prima. Qui, comunque siamo al nocciolo della questione responsabilità. Perché, alla fine, la responsabilità più grossa è quella che si ha nei confronti della propria vita, non del successo. Anche se la parola responsabilità coinvolge entrambe le sfere”.
L’immagine dell’alpinista che esce da quel che racconti è quella di una persona molto attenta, riflessiva, lontana dall’idea di temerario che ne ha magari la gente che tende a confondere l’alpinismo con lo sport estremo.
“L’alpinista deve essere così, anche se indubbiamente c’è anche una componente adrenalinica”.
Salita al campo 2 della via normale dell’Annapurna, da nord. Foto: Luca Vuerich
Quanto ha contato nella tua carriera la fortuna, rispetto alla capacità di prevedere e prevenire?
“La continua attenzione verso i segnali premonitori, il monitoraggio e l’attenzione estrema sono più tipiche di una persone della ‘seconda età’. Un alpinista che abbia superato trent’anni è così, perché ha avuto modo di imparare. Prima dei 30 anni, le persone non hanno dentro questa prudenza basata sull’esperienza. Sono giovani e se vogliono fare una cosa, la fanno. Non lo dico tanto sulla base di ciò che ho fatto io, ma piuttosto in base a quello che è accaduto ad altri. Di momenti davvero estremi, di vita o di morte, per fortuna, io ne ho avuto pochi nella mia carriera, ma ho visto, saputo, letto… L’alpinismo non è un’attività rilassante e un ragazzo che lo pratica è molto esposto al pericolo. Soprattutto oggi che si fanno cose una volta impensabili per me e per quelli della mia età. Ora, per esempio, alcuni fanno in un giorno delle cose che un tempo ne richiedevano minimo 8-9. Si vedono imprese al limite del possibile, come il percorrere una via di 7b, di 900 metri di dislivello, sulla Marmolada, da soli, con le sole scarpette d’arrampicata e dei pantaloncini shorts, con una sicurezza impressionante rapportata all’età ed all’esperienza di chi la conduce…”.
Quanto descritto nasce da un’eccessiva sicurezza in se stessi?
“Io non so che fine farà in futuro il ragazzo a cui mi riferivo (ci si riferisce ad Hansjoerg Auer, primo salitore in free solo della via del Pesce, NdR). Senza dubbio, però, è esposto a rischi molto elevati e spero che molto presto si renda conto di ciò che sta facendo”.
Che cosa succede, secondo te, nella testa di un arrampicatore che fa imprese come la sua? Da che ragioni nasce la sua motivazione: la necessità di emozioni forti, di adrenalina?
“No, è l’opposto: lui è tranquillo, perché sa che su quelle difficoltà lui può arrampicare. Se il suo limite è l’undicesimo grado, il nono per lui è fattibile anche slegato. Che cosa fa fare al trapezista degli esercizi mortali senza la rete? La sicurezza che gli dà l’aver fatto migliaia di volte lo stesso esercizio e che gli fa ritenere che per lui sia impossibile sbagliare. La molla, sia per lui che per l’alpinista estremo è la stessa, ovvero la sensazione di sicurezza”.
Parliamo ora della paura. Qual è stato il tuo rapporto con essa?
“La paura non ha nulla a che fare con i rischi e con le valutazioni che si sono fatte. Un po’ di paura c’è sempre ed è molto bene che ci sia, perché ti aiuta ad essere più riflessivo, più valutativo relativamente a quello che può capitare. Avere un po’ di paura dell’ambiente e della cosa che stai andando a fare funge anche da eccitante. Certo, non deve essere eccessiva, altrimenti ti blocca e a quel punto è meglio stare a casa. Il problema, però, è che questa emozione non è così gestibile, può arrivare all’improvviso. E tendenzialmente può aumentare anche con l’età”.
Intendi dire che hai più paura adesso che a trent’anni?
“Non c’è confronto! Dipende dalla minor capacità fisica, dalla consapevolezza di essere molto meno reattivo, preparato, determinato di un tempo. Adesso non amo più fare delle imprese: mi piace andare in montagna, tenermi in allenamento; fare delle cose che magari per l’uomo comune sono anche abbastanza difficili, ma non vado più in là di questo. Non ho più obiettivi particolari e non mi alleno per essi.
Un po’ è conseguenza del fatto che so di non aver più 25 anni. Se faccio una giornata impegnativa in montagna, sulle difficoltà dalla mattina alla sera, mi ci vogliono poi tre giorni per recuperare!
Una parte di paura è legata a questo, ma credo che il motivo principale sia la maturità che si raggiunge, che fa attribuire maggiore importanza ad altre cose. Nel mio modo di vedere le cose oggi, per esempio, scrivere un romanzo, raccontare delle cose, perché ci credi e ritieni che, oltre che a te, possano servire anche a qualcun altro, è più importante che non andare in montagna a spellarsi le mani.
Non rinnego nulla di quel che ho fatto, però tutti noi in un modo o nell’altro cambiamo con l’età, anche grazie alla paura, che in qualche modo si insinua dentro di noi. Alla fine, essa non è e non è mai stata un ospite così sgradito, forse solo un po’ ingombrante”.
Ci sono quindi un po’ di aspetti legati a questo sentimento: da una parte il sentirsi efficaci, dall’altra la consapevolezza di aver visto tanto, nel bene e nel male, e infine la motivazione.
“Sì, la motivazione è quella molla che ti fa pensare che stai facendo la cosa per te più bella e importante del mondo. Altrimenti che cosa ci vai a fare? Parlando poi di sicurezza, ci sono diverse gradazioni di essa, è un processo di maturazione lunghissimo, che dura anni”.
Ti è mai successo di avere paura a metà parete? Di essere nel panico?
“Il caso più rappresentativo in questo senso è stato quando facemmo anni fa una puntata sulla calotta polare artica con 2 slitte trainate da mute di cani e 2 esquimesi. L’intento era di accompagnare per un tratto i due fratelli Messner che facevano la traversata della Groenlandia. Loro erano attrezzatissimi, con materiali e strumenti high-tech adeguati. Noi eravamo meno equipaggiati, con normali tende di serie. Nel pieno di una bufera, che durò 24 ore, a un certo punto i due esquimesi che ci facevano da guida entrarono nella nostra tenda, dicendoci che la loro era esplosa, a causa del vento. A quel punto eravamo in 5 in una tenda da 2 e mezzo, con un rumore assordante che proveniva da fuori, sembrava che venisse giù il mondo. I due esquimesi ci dissero che si trattava di un vento del Nord, fortissimo, che è l’equivalente in scala assai maggiore del nostro vento di tramontana. Io chiesi loro quanto potesse durare, dato che erano già 14 ore che eravamo bloccati lì, senza poter uscire in alcun modo. Loro mi risposero: ‘Maybe one week, maybe one day’. Per fortuna durò ‘one day’, perché di colpo il vento si quietò e tutto tornò normale, esattamente 24 ore dopo”.
La Falce, il ghiacciaio sospeso dell’Annapurna che crea il pericolo sulla zona sottostante del campo 2
Qual era la paura? E da cosa dipendeva?
“Quella di rimanere lì! I viveri erano contati e ci eravamo fermati già un giorno in più rispetto al programma; con me c’era Paolo Sorbini, 65 anni, non certo aduso ad avventure del genere. Eravamo in 5 in una tenda piccola e non avevo nessuna fiducia nelle nostre guide, che avevano dimostrato di non essere preparate. Io non avevo nessuna esperienza, né conoscenza di traversate artiche per poter sopravvivere in quelle condizioni… Ebbi paura, perché sapevo di non essere all’altezza di quella situazione, ero solo un passeggero. Poi la bufera si calmò alle 19.30 del giorno seguente e alle 19.45 eravamo già pronti per la partenza. Arrivammo nel villaggio più vicino a mezzanotte circa, viaggiando a ritmi molto elevati. La paura, in quella situazione, dipendeva dal fatto di non sentirsi nelle mani giuste e dal non essersi preparati adeguatamente prima. Il mio principale timore era che scoppiasse anche la nostra tenda. Ero lì per lavoro e non mi ero preparato come in altri casi. Dovevamo solo fare una parte di spedizione con i Messner e poi tornare. Invece, ci eravamo fermati un giorno in più per andare oltre e fare delle foto… Sbagliammo, perché il programma iniziale andava mantenuto, così come andrebbe fatto sempre in casi come questo. E’ stato un azzardo, prodotto dalla “gola” di fare delle fotografie su questa impresa, sul paesaggio artico, perché ormai eravamo andati avanti e le foto potevano avere un valore come reportage”.
Ti è mai capitato di vivere una situazione analoga e provare sensazioni simili in parete, durante una spedizione?
“In Himalaya, sul massiccio dell’Annapurna, dove ho perso gli amici Leo Cerruti e Miller Rava.Sono morti di notte mentre stavano dormendo, travolti da un’enorme valanga, staccatasi da non so dove, che ha travolto tutto quel che c’era nei dintorni, compreso il loro campo. Noi eravamo al campo base e non sapevamo nulla. La mattina seguente, alle 8, non hanno risposto all’abituale collegamento radio… L’Annapurna è la montagna più pericolosa sopra gli 8000 metri, quella con il più alto tasso di mortalità”.
Che cos’è esattamente il tasso di mortalità di una montagna?
“È un indicatore di pericolosità: consiste nel rapporto tra il numero di persone arrivate in cima alla montagna e il numero di morti contati tra il numero totale dei membri delle spedizioni. Alla fine di un anno, ad esempio, si sa che la montagna è stata frequentata da 50 persone, che di queste, 5 sono morte e che in cima ne sono arrivate 2. Il tasso di quell’anno è 2/5=40%.
In quel caso eravamo là perché volevamo fare una via nuova, eravamo arrivati a 7300 metri. Poi è accaduto il fattaccio. La spedizione era composta da 11 persone, di cui due erano morte. Dei nove sopravvissuti, sei, tra cui io stesso, erano dell’idea di tornare indietro, tre di andare avanti, pensando soprattutto agli sponsor. Facemmo una riunione, dove arrivammo a litigare con violenza e alla fine ci separammo. Loro tre andarono avanti, noi sei tornammo indietro. Abbiamo impiegato 2-3 anni per superare questo episodio. C’è stato poi un riavvicinamento, anche perché chi decise di andare avanti, non arrivò più in cima e, a posteriori, diede ragione a noi che avevamo deciso di non proseguire.
In quell’incidente uno dei due che morì era mio cognato, il corpo non fu mai più ritrovato perché la valanga era enorme, e venne giù mezza montagna.
Nel ’73, molte cose di quella montagna non si conoscevano… quello era il posto del Campo 2, che tutte le spedizioni precedenti, inclusa quella francese che ci aveva preceduto, avevano sempre scelto per posizionare il campo due…
La spedizione era di 11 persone, ma in realtà, con gli sherpa eravamo in totale circa 20. Quando si fa una spedizione, ci sono alcune persone in più che aiutano a portare viveri, funi, tende ed altro materiale. Durante il percorso, mano a mano che si sale, si allestiscono campi intermedi, per portare in quota ciò che serve.
Il campo 2 era un campo intermedio, tra l’1 e il 3, il nuovo insediamento che parte della spedizione stava allestendo. Quella sera, i nostri compagni avrebbero dovuto tornare al campo base, ma si erano attardati per portare materiale al campo 3, e avevano deciso di fermarsi e passare la notte lì, piuttosto che scendere ancora. Il giorno dopo avremmo dovuto salire noi, dal campo base, a dare il cambio. Il campo 1 distava circa 4 ore di cammino dal campo 2: il tratto era abbastanza tranquillo, si trattava di una camminata tra i ghiacci. Il tratto dal campo 2 al 3, invece, iniziava già ad essere più impegnativo e richiedeva l’utilizzo dei fittoni da ghiaccio e delle corde fisse. Arrivammo a un pelo dal mettere il campo 4, che volevamo porre a 600 metri dalla cima. Ci fermammo a 7300 metri”.
La spedizione non prevedeva l’ausilio dell’ossigeno?
“Anche questa scelta rientra nel famoso discorso legato alla valutazione e assunzione di rischio; è qualcosa che si decide prima. L’ossigeno impone una logistica diversa: serve che qualcuno ti aiuti a portare su le bombole e quindi bisogna potenziare la logistica e aumentare il numero delle persone che salgono con te. L’ossigeno ti aiuta, indubbiamente ti permette di andare più veloce, ma ha un certo peso, e poi ti lega, avendo sempre da portarlo. Al di là delle scelte ‘etiche’ di chi vuol farcela senza, ci sono implicazioni pratiche, come quelle citate, da considerare. In quel caso avevamo deciso di non portare le bombole d’ossigeno”.
In quella situazione perché hai deciso di non andare avanti ed abbandonare l’impresa?
“Perché ero affranto, non mi importava più di nulla, non avevo più la giusta motivazione. Inoltre la valanga si era portata via, oltre alle due persone, gran parte del materiale: tende, corde, sacchi, viveri… ed era diventata una spedizione menomata.
Tutti abbiamo deciso di abbandonare l’impresa del fare la via nuova, e su questo eravamo tutti d’accordo. Il piano di ripiego prevedeva di arrivare comunque in cima, e la nostra spedizione sarebbe stata la quarta/quinta ad arrivare in cima alla montagna. Un buon obiettivo quindi quello di ripetere la via normale, ma non era il motivo per cui eravamo partiti.
Per me, era tra l’altro più forte la questione emotiva, collegata più alla spiegazione che avrei dovuto dare in famiglia al ritorno a casa, che non agli sponsor. Non mi sentivo così “legato”, né debitore verso qualcuno. I tre che volevano andare avanti, tra cui il capospedizione, erano molto più sensibili all’argomento”.
Hai mai fatto il capo spedizione? In cosa consiste questo ruolo?
“No, non l’ho mai fatto. Il capo spedizione è il responsabile della spedizione dal punto di vista alpinistico, organizzativo/logistico e umano. Non è tra l’altro detto che salga con la cordata. In genere è quello che ha trovato i fondi, gli sponsor, è quello che ha voluto, ideato e creato la spedizione, che ha composto il team di alpinisti e stabilito i ruoli all’interno della spedizione, dopo essersi confrontato con il gruppo stesso”.
Quanto è pericoloso non rispettare le consegne relative al ruolo affidato?
“Può esserlo molto. Si può farla franca e può andare bene una volta, ma in generale si crea solo confusione. Le consegne e le rispettive aspettative, in montagna, vanno sempre rispettate, perlomeno, nel limite del possibile”.
Ti è mai capitato di spaventarti sulla parete, magari a causa di un passaggio sbagliato, o di un temporale improvviso…
“Sì, mi è capitato di trovarmi in difficoltà nel fare un passaggio che pensavo fosse più facile, sentendomi quasi al limite della caduta, ma per fortuna senza mai effettivamente cadere!
In generale, posso aver avuto paure preventive di fronte a un tratto difficile e complesso, più di quanto avessi immaginato e previsto. A quel punto mi organizzavo, mi proteggevo maggiormente, mettevo un chiodo. A volte, però, non c’è la possibilità di farlo, sapendo che tornare indietro sarebbe peggio che andare avanti…In quei momenti si può percepisce una forte paura, ma nella mia esperienza, nascono più da errori commessi, che da imprevisti veri e propri.
Situazioni come queste, mi sono successe 2-3 volte. In particolare, ricordo, ad esempio, una via, quella del Finestrone di Arco, sul Sass Pordoi, Dolomiti. Ero in arrampicata solitaria e avevo 18 anni. A un certo punto mi trovai ad arrampicare su un tratto friabilissimo. Era evidente che lì c’era stata, chissà quanto tempo prima, una frana che aveva disfatto la parete per circa 5-6 metri quadrati. Era tutto instabile, smosso. Non potevo tornare indietro, non avevo alcuna protezione e dovevo per forza passare attaccandomi a quella parte di parete. Mi trovavo in una situazione ben superiore al V grado di difficoltà, a 250 metri dalle ghiaie. Mi accorsi di essere su quella porzione di parete friabile solo quando ero esattamente nel mezzo di essa, a metà strada. Scelsi di andare avanti, perché tornare indietro era praticamente impossibile. Quello fu forse uno dei momenti più brutti, a livello di vissuto, della mia carriera: un errore e sarei stato spacciato…”.
La paura come l’hai sentita? Come si è manifestata?
“Il cuore batteva, l’ansia mi attanagliava… mi sono dovuto fermare per esercitare un po’ di autocontrollo. Mi sono dato dei comandi, non potevo fermarmi più di tanto, perché la parete poteva non reggere il mio peso. La roccia mi si sgretolava in mano, si staccava ogni cosa. Mi ricordo il continuo discernere tra l’appiglio troppo pericoloso e quello che invece, preso nel modo giusto o tirato nella direzione corretta, poteva reggere.
Devi avere sensibilità sulla pietra, sulla montagna, vederla anche nella sua terza dimensione, la profondità. Immaginarti com’è fatta dentro e capire se ti permette di procedere. Devi, in sostanza, indovinare una forma senza averla mai vista, farci caso e indovinare gli appigli anche se non ci sono. Non è solo intuizione, ma anche sensibilità. I tuoi occhi non vedono solo roccia, ma delle informazioni da utilizzare. Capire la direzione secondo cui puoi tirare gli appigli è fondamentale”.