Gian Piero Motti, il filosofo dell’alpinismo
di Gianfranco Rapetta
(pubblicato su Bollettino della Sottosezione GEAT – Edizione del Centenario 1920-2020)
Per queste note di ricerca su Gian Piero Motti, la cui presenza in GEAT è stata un passaggio importante, ho fatto riferimento agli articoli scritti della raccolta di Ugo Manera (1), Bollettino GEAT (2), Enrico Camanni (3), Gian Piero Motti (4).
L’incontro: una baita diroccata, (1) Ugo Manera: “È la fine di agosto del 1964. Siamo a rendere l’ormai consueta visita al Vallone di Piantonetto, tanto alla moda tra gli scalatori piemontesi. Con me c’era Marco Pocchiola ed eravamo diretti alla via Leonessa, sulla parete ovest del Becco di Valsoera. Allora non esisteva ancora il rifugio Pontesi e gli alpinisti trovavano riparo negli alpeggi abbandonati della Muanda di Teleccio: uno di questi era stato adattato alla meglio con un po’ di paglia e qualche tavola di legno. Mentre in quel ricovero, con altri, eravamo intenti a divederci lo spazio per la notte, entrarono, con fare deciso, due giovani ragazzi; uno non dava nell’occhio, l’altro invece attirò la mia attenzione: alto, capelli corti scuri e occhiali, si capiva essere il capo della piccola spedizione. Me lo ricordo disinvolto nell’effettuare i preparativi, appariva risoluto e molto concentrato, tanto da prestare poca attenzione agli altri. Il ragazzo destò il mio interesse, provai nei suoi confronti una simpatia istintiva, ma il suo fare spavaldo, in contrasto con l’evidente giovane età, me lo fece apparire un po’ presuntuoso. Incuriosito, indagai nell’ambiente alpinistico: appresi che si chiamava Gian Piero Motti, che aveva appena terminato i corsi della Scuola Gervasutti e che era molto determinato nell’affrontare scalate di grande impegno“.

Poi la conoscenza alpinistica, fra Ugo Manera e Gian Piero Motti avviene alla scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti dove tutti e due, con percorsi diversi, diventano, nel 1965, istruttori della scuola. Qui inizia la loro più approfondita conoscenza, amicizia e affiatamento, compiendo insieme diverse importanti scalate.
Diverse le occasioni di conoscenza con altri alpinisti della Sottosezione GEAT alla quale Ugo Manera era già associato. Gian Piero Motti è presentato da Ugo Manera al Presidente, Eugenio Pocchiola, il quale nota la personalità intellettuale e la bravura alpinistica di Gian Piero Motti e lo accoglie come associato alla Sottosezione. Gian Piero Motti scriverà sul Bollettino GEAT i suoi primi articoli di importanti scalate.
La figura di Gian Piero si distingue nell’esercitare la sua passione per la montagna, nelle sue scalate con la ricerca della distinzione fra il salire “con l’azione” e il salire con “il pensiero”. Sono queste due le strade che Gian Piero vuole analizzare a fondo, a mio avviso sviluppando molto la riflessione sulla seconda, sul pensiero, sull’analisi dell’intima soddisfazione o delusione dell’animo, nell’azione alpinistica. Questa sua ricerca crea nell’ambiente alpinistico torinese una riflessione sui due aspetti. Le imprese alpinistiche di Gian Piero hanno l’alto risultato della scalata, ma sempre accompagnata da importanti riflessioni del suo stato d’animo, sull’ambiente attraversato, sui compagni di scalata. Ottimo osservatore e frequentatore delle valli, delle montagne, delle persone, dà alla stampa diverse guide e articoli sull’alpinismo.
Nel 1975 la GEAT lo nomina (2) “28° socio benemerito, (dal Bollettino GEAT del maggio-agosto 1975): “… Il proposto è Gian Piero Motti, autore delle Guide Rocca Sbarua e Monte Tre Denti e Le palestre delle Valli di Lanzo, nonché di articoli molto interessanti pubblicati sul bollettino sociale. Gian Piero Motti non ha però solo queste benemerenze, ma è un valente alpinista conosciuto e stimato non solo in Italia. Egli è accademico del Club Alpino Italiano, Istruttore della Scuola Nazionale di Alpinismo Giusto Gervasutti, Membro del Gruppo Alta Montagna e Membro del Group Haute Montagne. In tutte queste associazioni ha inoltre avuto incarichi direttivi. È socio della GEAT dal 1967. Dopo questa presentazione, priva di retorica, ma densa di dati inconfutabili, non ci resta molto da dire. Gian Piero Motti, oltre che un uomo ben preparato tecnicamente per l’alpinismo ad alto livello, è anche una persona modesta e di buon senso che ama poco gli eccessivi elogi e la troppa pubblicità. Vorremmo riportare le sue più importanti ascensioni e le sue numerosissime prime, ma l’elenco sarebbe troppo lungo e ripetitivo: sono tutte già pubblicate su vari bollettini GEAT dal 1967 in avanti“.
L’intensa attività alpinistica di Gian Piero, le sue riflessioni sulla ricerca di un equilibrio fra l’azione della sola scalata e le emozioni e suggestioni che inondano l’animo, sono state raccolte da Enrico Camanni, che dà alle stampe i suoi scritti con il titolo I Falliti. (4) Enrico Camanni: “Gian Piero Motti ha delineato due grandi famiglie di protagonisti: gli alpinisti dell’azione e gli alpinisti del pensiero. I primi si realizzano quasi totalmente in montagna, lasciando le proprie imprese a sigillo di sé. Gli altri, al contrario, sentono l’assoluto bisogno di elaborare anche intellettualmente e spiritualmente la propria passione, alternando azione e meditazione, impegno e attesa, partecipazione e distacco. Così il piano e la vetta, la città e la montagna diventano le due facce della metafora del viaggio alpinistico: l’una si esplicita nel sentimento della salita. L’altra in quello del ritomo… In questo senso, Motti è l’uomo nuovo. Quando racconta la prima salita in solitaria del Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, riuscitagli il 15 luglio 1969, le difficoltà del pilastro sono come uno sfondo su cui si delineano i suoi stati d’animo, il contrasto tra le emozioni della vigilia e la vertigine della scalata, il suo volto di ragazzo fragile che ha indossato per un giorno la maschera dell’alpinista. E ancora, quando scrive di Renato Casarotto sull’immensa parete del Nevado Huascaran si cura assai più di Casarotto che della montagna cogliendo il grande salto psicologico da Vicenza alle Ande, dall’umile lavoro di infermiere al sogno di una vita nuova. Dietro l’impresa gli sta a cuore che si legga l’uomo. È stato chiamato “il filosofo dell’alpinismo” e credo che la definizione gli vada stretta se per filosofia si intende una speculazione puramente astratta. Motti, al contrario, era talmente coinvolto, talmente partecipe, da sovrapporre spesso le proprie esperienze con quelle degli altri. Si può dire che tutta la sua attività giornalistica sia il risultato di questa sua originalissima sovrapposizione psicologica”.
Mi piace riportare in questa ricerca su Gian Piero Motti degli estratti di una scalata da lui descritta, effettuata con Ugo Manera. Ennio Cristiano e Alberto Re, dove trovo raggruppate le sue diverse e caratteristiche sensazioni: “A volte basta un nome per affascinarci, per farci desiderare una salita. Avevo letto un articolo di Mirelle Marks su La montagne, avevo visto le fotografie di una splendida parete dal nome così strano, La Pelle, la “pala”, in sostanza un nome piuttosto comune. Eppure era una parete liscia, verticale, senza interruzioni, chiara, una seconda Roda di Vael per grandiosità e purezza di linee. Ho davanti a me la relazione e lo schema della via. È la Voie des Parisiens, valutazione ED+, la più difficile via aperta nella zona, dissero i primi salitori, due giorni d’arrampicata, più di cento chiodi infissi… La Pelle… me la sogno, me la figuro nella mia immaginazione. Poche le altre notizie, solo che Mireille Marks parla di passaggi su placche a ‘gratton’ così delicati ed esposti da dover ricorrere alle respirazioni yoga per trovare la giusta calma e concentrazione… Dunque a cosa si andrà incontro? A una ignominiosa sconfitta in terra di Francia, a una supplementare razione di bandaggio (slang torinese per indicare il trovare “lungo”, NdR), a un bivacco su una parete alta non più di 300 metri? Sono molto dubbioso, eppure dalla data della prima salita sono trascorsi più di dieci anni, ormai la via dovrebbe essere una grande classica, molto ripetuta e interamente chiodata. Ma via, non è la prima volta che facciamo del sesto e poi il sesto del francesi non sarà mica più duro del nostro! Forza Ennio, Ugo, Alberto, andiamo finalmente a vedere questo Vercors di cui abbiamo solamente sentito parlare, che conosciamo solo attraverso le fotografie… Ci avviciniamo ora al Vercors ed è con viva sorpresa che scopriamo un paesaggio insolito. almeno per il suolo italiano. Un paesaggio dagli orizzonti vasti e sconfinati, dove predominano le linee dolci e morbide, colline assolate e selvagge, piccole vallette incassate, curiosi fenomeni di erosione, improvvise e gigantesche muraglie giallastre che, con superbo contrasto, rompono l’uniformità del paesaggio. Rare o quasi assenti le abitazioni, pochissimi i boschi di faggi e betulle e le cupe foreste di abeti e di larici. Giungiamo in serata presso Die, grazioso villaggio posto sulla Drôme, dopo aver attraversato una gola grandiosa, dove massi giganteschi di grigio calcare sembrano precludere ogni passaggio. Appare all’orizzonte una muraglia giallastra dove spiccano pilastri e spigoli di eccezionale bellezza. Qua e là qualche chiazza di neve ancora presente sulle colate di ghiaia che discendono dalla parete.
È la Muraille de Glandasse, la più bella e la più imponente fra le pareti del Vercors… Giungiamo infine a Saillans, piccolo, quieto e simpatico villaggio della provincia francese. Poche case radunate attorno a una chiesa romanica semplice e spoglia. Sulla piazza alcuni contadini che con tanto di basco giocano con piccole e pesanti boccette metalliche. Silenzio, campagna, profumo di terra e di fiori. E là, sopra i tetti delle case, enorme, grigia, verticale la parete: La Pelle.
Un gran vento spazza le colline quando all’alba risaliamo il ripido sentierino che si inerpica nella foresta, verso le rocce. A mano a mano che ci avviciniamo alla parete, questa sembra ancora più strapiombante, sembra quasi che ti caschi addosso. Appare però qualche frattura, qualche interruzione. Subito vado a imbranarmi sullo zoccolo, marcio ed erboso: slegato, attaccato a massi instabili su un pendio d’erba verticale, passerò il momento più rischioso della giornata… Due corde fisse pendono da strapiombi così marci e repulsivi che solo al pensare di salirvi mi sento mancare. No, non è la Voie des Parisens ma un tentativo di aprire una nuova via: in tre giorni hanno vinto poco più di 80 metri, ma non vogliono forare la roccia. A4 ci dicono. Guardando in su, non ci sentiamo di contraddirli. Quattro francesi sono pronti all’attacco e altri risalgono lo zoccolo. Siamo in dodici, evidentemente la via ormai è classica e molto ripetuta. Tanto meglio. La prima lunghezza di corda facile non è, ma terribile nemmeno. Poi vedo Ennio che sale arzillo e sicuro una delle famose placche à gratton’ valutata sullo schema di sesto: diavolo! O Ennio oggi ha preso la bomba o forse sesto proprio non è! Effettivamente sesto non è, così come non lo sarà l’altra placca a metà parete: evidentemente il primo salitore non gradiva le placche. Gradiva invece i diedri e le fessure strapiombanti, dove certi quinti superiori ci faranno penare parecchio, sicuramente più delle placche ‘à gratton’. La via ci appare intelligente, logica, la roccia è magnifica, i chiodi ci sono tutti. Anche le fermate sono sicure, ma ciò che veramente entusiasma è l’assoluta verticalità, degna di una parete nord della Cima Grande di Lavaredo. Mi sorprendo a vivere una di quelle giornate più serene, più tranquille e più felici che io ricordi in montagna. Oggi va tutto bene, il sole, il vento, la roccia che si adatta meravigliosamente alle dita, il sorriso di Ennio, un’alpinista “gentile” di cui sono contento di essere amico… Sul tratto di salita artificiale ci sono già i chiodi e preferisco tirare via senza usare le staffe: si fa più in fretta e mi piace di più. Arrivo persino a dire che la via è supervalutata; Re dal basso fa eco replicando che “suma i pi fort dal mund!”. Manera sembra conoscere solo aggettivi come: stupendo, magnifico, eccezionale, fantastico… Ma eccomi a infilare da secondo una solenne bandata su un passaggio che Ennio sembrava aver superato con irrisoria facilità. Ammetto di non essere molto capace ad arrampicate da secondo, ma almeno una volta mi trovo a ordinare con voce ferma e risolta ‘recupera!’ che molto si avvicina a un implorante ‘tira!’. Ciò mi serva di lezione. Mi consolo guardando il francese dietro a Ugo, che dopo un sofferto ‘pour parler’ con l’uscita dalla fessura… sottovoce sussurra ad Ugo ‘La corde, s’il vous plait…’. Ora non si comprende più dove si possa salire. Strapiombi sopra e sotto. A destra una placca verticale dove alcuni piccoli bitorzoli rossastri, i famosi ‘grattons’. dovrebbero permettere una traversata di quinto più. Si passa di lì. Con non troppa convinzione mi sposto cambiando piede su quelle verruche rossastre che dovrebbero essere appoggi, dominando un vuoto che ai bei tempi di Cichin Ravelli si sarebbe definito ‘ultragreponico’. Ci prendo gusto e mi diverto pensando con un po’ di malignità che proprio qui Mireille Marks avrà dato inizio alle sue respirazioni ‘guru’ per evitare il tremito da bandaggio oppure, con licenza parlando, come direbbe un amico stilnovista, certo Carlaccio, per superare ‘il passaggio della chiappa che trema’. Siamo seri. Il passaggio è di una classe straordinaria, ed è sorprendente l’intuito dei primi salitori nell’aver scovato una via di salita in quel nauseante lisciume.
L’esposizione qui è veramente grande: a picco sotto di noi non scorgiamo più la base della parete, ma le cordate francesi che ci seguono e che sembrano sbucare direttamente dal vuoto, creando un effetto impressionante. Il cielo si oscura sulle verdi colline che si estendono ai nostri piedi. In genere, una parete è compresa in una valle, è racchiusa fra orizzonti delimitati. Qui il vuoto l’hai non solo sotto e sopra, ma anche davanti. Non vi sono valli, la vista spazia libera su un orizzonte sconfinato di dolci rilievi che si arrestano solo verso la pallida lontana Muraille de Glandasse.
La parte superiore della parete ci riserva un’arrampicata ancor più bella con tratti veramente difficili. Poi, improvvisamente, come per incanto, le mani si posano su terreno orizzontale e davanti non è che un grandissimo prato di erba giallastra sferzata da un vento gelido e rabbioso che ammassa grandi cumuli color piombo fuso. In una piccola nicchia Ennio e io, al riparo dal vento, attendiamo Ugo e Alberto, ed ecco Ugo che sembra sbucare dal nulla: prima appare una mano, poi il braccio, poi la testa e infine tutto il corpo emerge da quel vuoto vertiginoso. Discendiamo per facili canali e pendii erbosi e poi ancora giù per il sentierino, fermandoci ogni tanto a guardare la grande parete grigiastra, come una cosa ormai nostra (Rivista Mensile del CAI, luglio 1972)”.
Leggendo la scalata a La Pelle ho trovato bello che gli alpinisti fossero tre soci geatini e legati con affetto all’amico Alberto Re.
Gian Piero Motti effettuò con tutti loro diverse numerose scalate; riporto ancora parte finale del suo articolo Alberto, io e La Walker al termine di una impegnativa e drammatica scalata, dove per poco non furono travolti da una scarica di massi. “A lungo resteranno nella mia mente gli istanti vissuti sulla Nord delle Grandes Jorasses, sperone Walker; difficilmente potrò cancellare il ricordo dell’attimo in cui uscimmo in vetta. Forse come René Desmaison, di ritorno dalla sua esperienza invernale, potrei solamente dire: ‘Pauvre homme. où est la victoire? Il y a quelque istant seulement, tu étais simplement heureux d’être ancor vivant (Bollettino GEAT, luglio- ottobre 1969)”.
Il suo importante scritto I Falliti inizia così: “’I giorni del tempo passato accorreranno a noi tutti insieme quando li chiameremo e si lasceranno esaminare e trattenere a nostro arbitrio… È proprio di una mente sicura di sé e quieta l’andar di qua e di là per tutte le parti della sua vita, mentre gli animi delle persone indaffarate non possono né rivoltarsi né guardare indietro, quasi si trovassero sotto il giogo…’. La lettura di questo sereno pensiero di Seneca, in un momento per me particolarmente positivo e felice, mi ha condotto a trarre alcune considerazioni che a tutta prima sembrano interessare solo il mio modo di vivere, ma che invece investono quello di molti che, come me, praticano assiduamente l’alpinismo“.
Questo ho tratto da Gian Piero Motti.
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MI fa sempre piacere leggere ciò che hanno scritto gli amici di mio papà….Ugo Manera, Giampiero Motti, Ennio Cristiano ed Enrico Camanni, che ho conosciuto meglio quando ho lavorato al Museo Nazionale della Montagna. Me li ricordo bene, anche se ero molto piccola essendo nata nel 1964, quando frequentavano casa nostra e il Giovedì sera la GEAT, in via Barbaroux.
Me li ricordo anche alle gite sociali e non, che fin da quando sono nata, praticamente, facevo tutte le domeniche dell’anno, seguendo mio padre Marco e mia madre Adriana.
Vi sono grata per tutte le volte che lo avete ricordato e lo ricorderete negli articoli, nei libri ed in ogni scritto. La collezione dei bollettini GEAT, ereditati da miei nonni Eugenio e Rita, spesso li rileggo e li impresto ai geatini che devono scrivere qualche articolo a ricordo di eventi legati alla sottosezione o ai rifugi e bivacchi.
Saluti
Simona Pocchiola
E’ piacevole leggere questi dettagliati articoli relativi a personaggi che appartegono ad un mondo ormai scomparso. Pensando alle loro avventure ci si sente piccoli. Saluti gb
Motti era uno che ha scritto molto. In un’epoca, poi, in cui non esistevano le facilitazioni tecnologiche (realizzative e distributive) dei nostri giorni: videoscrittura, internet, mail, blog… Probabilmente oggi avrebbe una produzione straripante. È questione di gusti. A chi non aggrada leggere, io suggerisco sempre di saltare a pie’ pari. Buona serata!
Anche la lettura di un testo e’ insieme pensiero e azione… occorre vista buona e postura fisica, buona illuminazione.. collirio lubrificante.La poca voglia di leggere e riflettere e questione mentale o fisica ?Ho letto un riassunto e mi basta.
Bene Allbert ,quindi leggersi Azioni ed Eventi di Donald Davidson…..e buone riflessioni
Davvero pensiero e azione sono distinti ? Ad esempio chi puo’ dire che mentre cerco di praticare sci di fondo al meglio, sia solo muscolo ed arti e non pensiero e sogno?Chi puo’arrogarsi di dire io sono pensatore, tu sei una” macchina”?C’e’ chi ci scrive pagine e pagine e chi tiene tutto per se’ .
e come scriveva bene: il racconto della Pelle si legge come se te lo raccontasse e fa risuonare il ricordo di alcune, poche giornate perfette.
Bellissimo articolo. Due considerazioni, al volo. 1) Ricordo con piacere il Bollettino GEAT che ci arrivava via posta a casa (mio padre era socio anche della Sottosezione), con la sua copertina raffigurante uno scalatore “in rilievo” colorato in modo diverso (credo anno dopo anno) rispetto alla base biancastra. E’ stato fra le mie prime letture sistematiche di montagna, ancora prima della Rivista del CAI (che tuttavia era allora nel suo periodo “migliore” sotto il profilo alpinistico). 2) Sarà anche per questo, Motti mi ha sempre affascinato, nonostante lo “spread” prestazionale fra di noi, proprio perché molto attento anche alla scalata del pensiero. Non è necessario sapersi muovere su livelli tecnici “estremi” per avere anche questa seconda propensione: è un elemento che ha caratterizzato la mia esperienza personale fin dalle origini. Penso che questa propensione sarebbe emersa a prescindere dall’influenza di GPM, ma certo c’è stata anche questa influenza in una fascia di età, l’adolescenza, che al tempo attraversavo. quindi sono anche io, nel mio piccolo,. molto riconoscente a GPM. Buona giornata a tutti!