Gian Piero Motti: la contemplazione del Mistero (RE 011)
Nel trentennale (+ un anno) della sua morte, Gian Piero Motti è ancora un mito per le giovani generazioni? Non lo so, ma non credo. Non mi piacerebbe però che il suo esempio e il suo insegnamento fossero ripresi ancora con le stesse modalità del passato. Fu frainteso una volta e potrebbe esserlo di nuovo. Soprattutto ci si domanda ancora perché a 37 anni decise di togliersi la vita e questa curiosità è la maggiore nemica della verità.
Gian Piero Motti sulla via Ghirardi-Gay, 3a ascensione, parete sud-ovest della Punta Cristalliera (val Chisone), 14 ottobre 1969
Non voglio e non posso inquadrarlo in definizioni psicologiche. Posso dire solo che era un uomo impegnato in una lotta totale, un uomo che aveva capito che la salvezza non poteva venire dall’alleanza con gli altri. Perciò era forte, volitivo, testardo sulle cose che gli interessavano; disinteressato alla stragrande maggioranza delle altre; la donna spesso era uno strumento per concedersi un simulacro d’estasi (fisica o psicologica) che gli serviva per riconoscere meglio, in un successivo momento, la vera estasi.
Il cammino di Gian Piero Motti, dalle Riflessioni ad Arrampicare a Caprie, fu decisamente personale, lo definirei «lucidamente visionario». Al tempo dei Falliti o delle Riflessioni era solo un individuo che si faceva delle domande serie sul suo passato e sul suo presente, spostandole come è ovvio anche nel campo dell’alpinismo in generale. Sospettava che molto del suo agire fino ad allora avesse ripercorso il comportamento generale degli alpinisti; sentiva che molto del suo sentire e della sua passione originaria era andato modificandosi per seguire i dettami delle convenienze del tempo. Era sensibile, perché buon ascoltatore, e capiva al volo le cattiverie e le bontà: delle prime soffriva molto, in privato. Poi, in pubblico, regalava a qualcuno del sano cinismo.
La svolta ci fu nel giugno 1975, quando ebbe, ricercata e voluta fortemente, un’esperienza visionaria nella sua amata Val Grande (Lanzo). Dopo di allora, dapprima tutti gli amici, ma poi anche gli estranei, sentirono che quell’uomo aveva «visto» di più degli altri, e quindi che «sapeva» di più. È naturale che altri ancora, refrattari, sviluppassero per Gian Piero una vera e propria insofferenza.
Ciò che Gian Piero sapeva gli derivava direttamente dai suoi sogni e dalle sue visioni: studi, alpinismo e famiglia precedenti erano il terreno in cui era cresciuto il suo tronco che dal terreno aveva preso qualche distanza. Non aveva una grande opinione della famiglia, così come normalmente s’intende, anche se voleva molto bene ai suoi e alle due sorelle, con un rapporto di confidenza particolare con la madre. Era riuscito a far accettare il suo disinteresse per la laurea e per il lavoro. I pochi lavori remunerati che fece (articoli, ecc.) non li prese mai come una scusa per dire che in realtà lavorava anche lui.
Non aveva opinioni particolari sulla scuola e neppure di politica. Inquadrava l’istruzione in un disegno più vasto, ideato apposta per ostacolare l’evoluzione dell’umanità, e la politica era una trappola, altro disegno necessario come ostacolo da superare. Senza ostacoli da superare non ci si evolve. Su questi temi era così attraente e affabulatore con gli amici da apparire talvolta un vero profeta.
Gian Piero è rimasto nel cuore di molti come può succedere solo ai veri rivoluzionari. Sì, perché lo fu davvero, nel profondo. Anche se ciò contrastava con il suo comportamento, con la sua borghesia ostentata, con il suo intellettualismo non di sinistra, con il suo vestire sempre in ordine. Soprattutto dava fastidio il suo non lavorare e non più studiare all’università, quasi avesse capito l’assoluta inutilità, nel suo caso, dello studio e del lavoro: un individuo cioè che aveva trovato cose più importanti cui pensare, che sapeva che il suo cammino era individuale, improponibile ad altri se non a chi fosse andato in precedenza incontro a esperienze come la sua. E del resto, non gli piaceva fingere. Piuttosto, gli piaceva non dire tutto, lasciare quelle curiosità che così abilmente seminava. Infatti i suoi scritti dicono di lui molto più di quanto sembra a prima vista. I piani su cui scriveva erano SEMPRE due. Era responsabilità soprattutto del lettore se molto rimaneva nascosto. Semplicemente perché qualcuno non «vedeva». Ciò non toglie che molte cose non abbia mai avuto il coraggio di scriverle e se le sia tenute per sé. Al massimo si lasciava andare a qualche lungo discorso con amici, cui rovesciava nel profondo dell’anima sogni che ti rivoltavano come un calzino.
Gian Piero Motti sulla variante del Tetto della via Gervasutti alla Sbarua (Pinerolo), 19 marzo 1972
Lo scritto più rivelante da questo punto di vista è Le antiche sere, ossia la sintesi felice. Motti, ad un certo punto, si è trovato di fronte a qualcosa di irraggiungibile. Forse le Antiche sere sono una contemplazione dell’irraggiungibile, l’annullamento dell’Io di fronte alla grandezza del Mistero. Nella nostalgia del tempo in cui, vivere nel Mistero, era la normalità.
La nostra intera vita dovrebbe essere permeata dalla contemplazione del Mistero: e per questo insegnamento non finirò mai di ringraziare il mio più grande Maestro: Gian Piero Motti.
postato il 25 aprile 2014
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Pubblichiamo questa lettera ricevuta a fine settembre 2003 in relazione alla pubblicazione sulla Rivista del CAI dei contenuti di questo post. L’autore è Eros Pedrini.
Brescia, 29 settembre 2003
Caro Alessandro,
leggo, con grande commozione, su “La Rivista del CAI” quanto scrivi di Gian Piero Motti che, purtroppo, non ho avuto la fortuna di conoscere personalmente.
Non so se posso parlare di lui come un mito, anche se non appartengo di certo alle giovani generazioni, ma indubbiamente ho provato spesso ii desiderio di conoscere di più di lui, sia quando ancora scriveva le sue indimenticabili considerazioni, sia dopo la sua morte.
E non c’è dubbio che, proprio anche a causa della sua morte, il desiderio di sapere di più di lui e delle sue scelte è cresciuto. Ho spesso sperato che, col tempo, si sarebbe forse potuto alzare quel velo fatto di riservatezza e di rispetto (e fors’anche di inadeguatezza) che i suoi amici hanno sapientemente mantenuto attorno alia sua figura.
Ma, se come anche tu dici, Gian Piero fa parte della schiera dei veri rivoluzionari, perché non provare a farcelo conoscere un po’ di più, perché non permetterci di entrare più a fondo in quel doppio binario di interpretazione dei suoi scritti e perfino, perché no, nelle sue “visioni”?
Perché non provare a parlarcene come sono certo che sapreste fare?
Lo chiedo a te perché quanto tu scrivi mi fa cogliere, in fondo, una esigenza forse non solo mia.
Se queste righe ti saranno sembrate fuori luogo, non c’è bisogno d’altro che di metterle da parte, con assoluta tranquillità.
Ad ogni modo, grazie per quanto hai già fatto con il tuo articolo.
Eros Pedrini, Via Tosoni, 19 25123 Brescia, epedrini@tiscaltnet.it
Tanti piccoli enormi misteri, anche nel tuo articolo.
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La frase conclusiva è molto bella:
“La nostra intera vita dovrebbe essere permeata dalla contemplazione del Mistero”
.
grazie
Ho 30 anni, nascevo quasi in contemporanea alla sua morte. Sono sicuro che Gian Piero, i suoi scritti e le sue parole riecheggeranno ancora a lungo nella mia mente ed in quella di tanti amanti non solo della montagna ma dello sport e della consacrazione ad un ideale, sebbene a livello storico sono “fuori” dalla sua epoca. Il suo scritto “I Falliti” resta per me un caposaldo, una scossa di fronte al parossismo che ancora troppo spesso ci attanaglia, “come drogati”. Ciao Gian…..! grazie!
Io sono del 1962. Ero impregnato dagli scritti di Motti. Anzi intossicato. Ogni volta che in edicola compravo l’ultimo numero della RdM sfogliavo velocemente per vedere se c’erano suoi scritti.
Non l’avevo mai conosciuto di persona e mi ero immaginato una persona se non scontrosa, perlomeno ombrosa e chiusa nei suoi pensieri. Ogni volta che lo leggevo il pensiero andava allo scritto di Gobetti e alle poche, scarne e reticenti parole di Giancarlo Grassi che lasciavano solo intuire la vicenda in Val Grande.
Poi nel 1981 in Sbarua trainandomi dietro un riluttante compagno ero diretto alla Motti-Grassi, al tempo una via-mito. Non volevo cammellarmi il canale fra il Cinquetti e il Rivero e risalivo velocemente la normale del settore centrale senza rinviare nulla in quanto una ragazza e un ragazzo salivano molto lentamente da secondi. In sosta il primo di cordata mi chiede: “Dove vai con tutta quella roba?”
In effetti ero stracarico all’eccesso di chiodi, nut, staffe ed altri ammennicoli…
Tronfio come solo un ragazzino di 19 anni può essere gli rispondo che ero diretto alla Motti-Grassi.
Alla risposta: “Ah, bella via…” mi giro ed è lui. Gian Piero Motti.
Quel giorno la Motti Grassi non fu salita. Rimanemmo all’uscita della normale per oltre due ore a chiacchierare e parlare. Non solo, ma anche di salite. Gian Piero ascoltava con reale interesse i miei sogni di ragazzino. Il ricordo è di una persona sagace, allegra disposta ad ascoltare e a scherzare con un ragazzino.
Il suo suicidio, forte di questo ricordo, rimane per me uno dei momenti più misteriosi della vita.
Sui forum, dopo un iniziale “payns” scelto per motivi goliardici, il mio nick è sempre stato “Antiche Sere” scelto consapevolmente.
Nelle mie letture formative, gli scritti di Gian Piero sono stati un fulmine a ciel sereno. Finalmente dopo tanto averla sognata, l’anno scorso sono riuscito a incastrare le mani su Itaca nel Sole in valle dell’Orco.
Averla ripetuta è stato uno stimolo per ritornare sulle pagine di Gian Piero e per provare a capire il messaggio che ci ha lasciato con quella via. Quello che ne ho colto ho provato a sintetizzarlo qui http://www.rampegoni.it/node/97, senza pretesa di verità. Non so se rientriamo ancora nelle giovani generazioni ma per me e per i miei compagni di cordata (classe 80,81,82) rimarrà sempre un punto di riferimento.
Bellissima l’ultima foto, non l’ho mai vista da nessuna parte, che anche questa dice tanto su di lui…
Cos’è quell’esperienza visionaria?
Bellissimo!