Gianni Ribaldone

Ricordi di una breve ma grande amicizia
di Alberto Marchionni

E’ stato facile per Alessandro convincermi a scrivere qualcosa su Gianni Ribaldone, con una semplice considerazione: “Gianni è stato una meteora molto più importante di ciò che invece ne è stata la memoria”. C’ero già arrivato anch’io.

Dopo il ritrovamento di tutte le sue fotografie (quattro cassette consumate dal tempo, con 400 diapositive 6×6, dimenticate in una soffitta) mi sono impegnato per un anno, utilizzando proprio queste immagini, nella compilazione di una “presentazione”, in un DVD, sulla sua breve ma intensa storia, raccontata dal sottoscritto, cioè il suo primo compagno di corda. Se pure questo lavoro è stato particolarmente apprezzato nelle serate in cui l’ho presentato, quello che mi ha particolarmente colpito è stato lo stupore della maggior parte del pubblico nell’apprendere che un “Carneade” qualsiasi avesse fatto, mezzo secolo fa, tutte quelle scalate. Pensandoci bene è normale, però, che, dopo tanti anni, che per me sono ”volati” ma nei quali l’alpinismo ha avuto un’evoluzione da capogiro, a sapere chi era Gianni Ribaldone sia solo più qualche superstite dell’alpinismo torinese degli anni ’60, esente da alzheimer. Mi ha fatto piacere, comunque che in un libro dello stesso Alessandro sull’alpinismo degli anni ‘60 siano presenti tre importanti scalate di Gianni. Mentre ho trovato strana la distrazione di Gian Piero Motti, che ne è stato forse l’allievo più illustre, strano che non lo abbia neppure citato nei personaggi elencati al fondo della sua ottima Storia dell’Alpinismo.

Cominciamo quindi a rinfrescarci la memoria dando un occhio al suo Curriculum.

Gianni Ribaldone sul Pilastro Gugliermina, via Gervasutti-Boccalatte. Foto: Giorgio Bertone
Gianni Ribaldone

A una prima superficiale occhiata, un’attività del genere potrebbe riportarci adesso a quella di un attuale “buon alpinista”, sufficiente per l’ingresso nell’ ”Accademico”, forse niente di più. Ma voi mi insegnate che bisogna anche “contestualizzare”, cioè tornare al 1960 per formulare un giudizio corretto. E non mi riferisco solo ai “ferri” del mestiere. Ma a una cosa più importante: la scala dei valori di quell’epoca. Quella scala sulla quale, in qualsiasi attività, i migliori cercano sempre di fare un gradino in più, prima che altri li seguano, e Gianni era proprio uno di questi, perché il livello di difficoltà delle sue scalate rappresentava, in quel momento, un limite per pochissimi alpinisti italiani e non. Se poi si considera che quest’attività si è svolta nell’arco di 4/5 anni, si aggiunge un’attività speleologica a livello di quella alpinistica (per alcuni anni, con “La Spluga della Preta” è stato l’uomo più profondo d’Europa, e nell’operazione di salvataggio a Roncobello si guadagnò la “Medaglia d’oro al Valore Civile”) e una laurea in ingegneria (cosa che a me, anzi ai miei, è costata otto anni), allora bisogna riconoscere che Gianni, tanto per usare ancora la metafora astronomica, non è stato solo una “meteora” ma una vera “stella”, e non solo come alpinista. Ancora non aveva compiuto 24 anni quando si è conclusa la sua breve esistenza. Sempre rifacendoci alla “attuale” scala dei valori, a quell’età i nostri giovani sono considerati poco più che dei bambini.

Gianni nasce a Cavour, nel 1942, ai piedi di quella piccola montagna in miniatura che è la “Rocca”, dove il padre era titolare di una farmacia. Sicuramente è proprio su questa collina rocciosa che emerge dalla pianura come un’isola sul mare, che Gianni impara ad apprezzare la natura e la montagna, percorrendone col fratello maggiore e la sorellina i ripidi pendii. Una passione, che, dopo il trasferimento della farmacia a Genova, riesce a coltivare ulteriormente grazie ai professori del liceo cui si era iscritto, che lo seguivano con attenzione nelle sue ricerche biologiche e archeologiche. Sono le grotte i luoghi dove lui riesce a soddisfare al meglio la sua insaziabile curiosità. Ed è proprio nella loro oscurità che lui scopre l’arrampicata. Dapprima come esercizio per raggiungere luoghi dove nessuno aveva mai messo piede, poi, sulle rocce di Sampierdarena dove si andava a esercitare per le sue esplorazioni, proprio come passione fine a se stessa.

Ribaldone-GEAT--Boll-2010

Quando lo incontro a Torino, nel 1961, per combinazione sui banchi del Politecnico, lui era già ben conosciuto a Genova per le sue pubblicazioni sui pipistrelli, le sue collezioni di coleotteri, e soprattutto le esplorazioni di grotte e sifoni che solo lui riusciva a raggiungere un po’ a nuoto un po’ arrampicando. Ma io questo non lo sapevo, e la prima impressione che mi fece fu che fosse solo un po’ più matto di me. Comunque avevo trovato qualcuno con cui chiacchierare durante le lezioni dei professori. Solo che mi accorsi ben presto che le sue non erano solo chiacchiere, ma voleva fare proprio sul serio quello che diceva, e per non tradire la fiducia che pareva avere riposto in me (forse anche perché possedevo una vecchia Fiat ‘500) decisi di assecondare i suoi progetti. Cominciammo subito con quello che sarebbe diventato poi, uno storico insuccesso (almeno per me): l’invernale alla Malvassora del Becco Meridionale della Tribolazione. Un progetto che riuscì poi a portare a termine senza di me, dopo tre tentativi (uno all’anno) andati a vuoto per causa mia (accampavo sempre mille scuse per tornare indietro), ma che comunque resero famoso il nostro sodalizio. Mi trascinò infatti sulla Campia al Corno Stella, solo perché, ho il sospetto, i suoi amici di Genova non lo ritenevano ancora “maturo” per quella salita. Noi la facemmo a marzo, di corsa, all’insaputa dei rispettivi genitori che ci credevano sui libri (io avrei dovuto essere a Genova, e lui a Torino). Per fortuna che il tiro più difficile toccò a lui. D’estate poi, con un micidiale “uno-due” colpimmo in tre giorni il Càstore con la parete Sud, e l’Aiguille Noire con la sua famosa cresta Sud. A me poteva bastare, ma a lui no.

Momenti lieti in Valle di Lanzo (Ala di Stura): a ds, in ginocchio, Gianni Ribaldone. Dietro di lui, Alberto Marchionni
G. Ribaldone in Val di Lanzo, seduto davanti ad Alberto Castelli

Alla prima ripetizione della diretta Sud al Corno Stella (quella di Ughetto e Ruggeri) tentammo lo stratagemma della volta precedente. Avevo calcolato di nuovo i tiri in modo che toccasse a lui il tiro più difficile. Ma, a salita conclusa, ci andò male: un maledetto giornalista ci smascherò agli occhi dei rispettivi genitori. Il papà di Gianni cominciò a dubitare che il figlio, a Torino, frequentasse delle cattive compagnie e a guardarmi con sospetto. Ma io non ero l’unica “cattiva compagnia” per Gianni a Torino. E fu con una di queste che ci ritrovammo in sei e dentro un’unica tendina a bivaccare, durante una terribile tormenta, in punta al Mont Blanc du Tacul, l’inverno successivo, dopo una rocambolesca salita dello sperone Ravelli, che fiancheggia un canalone Gervasutti tutto verde di ghiaccio, che sarebbe stato il nostro vero obbiettivo.

Il mattino dopo la discesa fu più veloce del previsto: uno scivolone di circa 200 metri ci depositò tutti dentro un provvidenziale e morbido crepaccio. La squadra di soccorso francese, che i meno malconci di noi avevano allertato, incontrarono Gianni che, con una caviglia rotta, e cinque vertebre schiacciate, si trascinava dietro due compagni congelati e in stato confusionale!

La caviglia frantumata lo inchiodò in casa, ingessato per due mesi, ma non lo fermarono le quattro vertebre schiacciate durante il terribile scivolone. Questo problema lo risolse con un busto che sembrava una “guepière” che lui ostentava con orgoglio, ma che fra di noi sollevava i commenti più volgari.

Ancora momenti lieti in Valle di Lanzo (Ala di Stura): ultimi a destra, Alberto Marchionni e Gianni Ribaldone
G. Ribaldone in Val di Lanzo, a ds, accanto ad Alberto Castelli

Io ero andato intanto in avanscoperta a esplorare il terreno oltre i confini piemontesi. In Grigna, dove ero andato a preparare (si fa per dire) un esame, mi imbattei, nel suo rifugio dei Resinelli, in Romano Merendi e con lui in uno stuolo di personaggi ormai noti o prossimi a diventarlo, fra gli altri Giorgio Bertone, che poi era nostro coetaneo. Per collaudare il “tutore”, che lo bloccava parzialmente, salimmo lo spigolo Nord del Badile, e poi, vedendola così da vicino, non resistemmo alla tentazione di cimentarci con la via di Cassin che correva sulla parete di sinistra.

Al Sass Furà conoscemmo poi Guido Machetto, che, con una certa perplessità (non si fidava molto di due ragazzini sconosciuti, di cui uno imbustato), riuscimmo a convincerlo ad aggregarsi. Alla sera, dopo nove ore di entusiasmante arrampicata eravamo al rifugio Gianetti, caricati come delle macchinette dal successo. E proprio sull’onda di questo successo, passando dal rifugio di Merendi per farci imprestare i soldi per la benzina della mia ‘500, si partì in quattro alla conquista delle Dolomiti che non avevamo mai visto. Per distribuire più razionalmente le spese, ci accompagnavano Mario Davolio, di Brescia e un Guido Machetto sempre più perplesso dal nostro esuberante attivismo.

Schizzo originale di Gianni Ribaldone
Ribaldone-Il campanile basso di brenta in uno schizzo di Gianni Ribaldone

Successone anche lì, dapprima con la Steger al Catinaccio, poi addirittura con la Comici alla Cima Grande di Lavaredo che, a parte Guido Rossa, noi torinesi conoscevamo solo sui libri di Rébuffat.

A questo punto però bisognava mettere a frutto il nostro strepitoso allenamento sulle montagne di casa nostra. Scaricato il Davolio a Brescia, facemmo un salto in Valsesia per caricare Giorgio Bertone che a Courmayeur non c’era mica mai stato. Ma ai piedi della Bonatti al Capucin, una brutta litigata fra me e Machetto, di cui criticavo la titubanza, mi decise a tornare a casa con la poca benzina rimasta nella mia ‘500, nella convinzione che quei tre non avrebbero combinato nulla di buono senza di me. Fu un errore marchiano da parte mia, perché i tre andarono lo stesso sul Capucin e al bottino aggiunsero anche la Rébuffat alla Midi, che, per fortuna io avevo già fatto. La settimana dopo fui obbligato a colmare la lacuna, trascinandomi poi nella notte un compagno rimediato in Grigna, perché non volevo fare il bivacco che quei tre avevano fatto in punta.

Già, i bivacchi. Penso che fosse proprio l’avversione ancestrale che avevo per i bivacchi a differenziarmi da Gianni, quando invece per lui i bivacchi erano un ulteriore stimolo per mettersi in gioco. Così fu per il tentativo della prima ripetizione alla Mellano-Perego al Becco di Valsoera, che ci vide tornare sotto una furiosa nevicata autunnale dopo un bivacco appesi ai chiodi. Salita che lui fece l’anno successivo con Guido Rossa e Giorgio Griva di Pinerolo.

Il 1963 iniziò sotto una tormenta terribile che ci tenne inchiodati per due giorni sulla via degli Svizzeri al Grand Capucin. La stessa perturbazione che per parecchi giorni flagellò le Alpi e durante la quale si persero le speranze di ritrovare Romano Merendi, che con altri due compagni aveva affrontato la Nord della Dent d’Hérens. Per me, che consideravo Romano un secondo padre, fu una mazzata. Per questa tragedia e per i due bivacchi nella tormenta sulla via degli Svizzeri, feci il fermo proposito di non seguirlo mai più in queste follie, così si chiuse la mia carriera di “invernalista”. La via degli Svizzeri lui poi la fece l’estate successiva con una guida di Courmayeur e poi naturalmente d’inverno con un povero Armando Marchiaro che dovette fare tutta la salita con una vertebra ammaccata da un masso che inavvertitamente Gianni gli aveva fatto cadere sulla schiena.

Gianni Ribaldone sul Pilastro Gugliermina, via Gervasutti-Boccalatte. Foto: Giorgio Bertone

Gianni Ribaldone
Ma bisogna tornare un po’ indietro, all’estate del 1963, quando Gianni si libera del suo busto, per vederlo librarsi sulla roccia, come una farfalla che si è finalmente liberata del suo bozzolo. Anzi, sarebbe meglio dire che sbuca da sotto terra! Perché proprio nel luglio del 1963 diventa primatista europeo di profondità raggiungendo, con una spedizione cosiddetta “leggera”, quota -875, seconda al mondo, nella Spluga della Preta. Un abisso nei Monti Lessini, nel Veronese, più volte tentato da varie spedizioni ben più “pesanti” della sua. Otto giorni sottoterra, con tre bivacchi: un successo in gran parte dovuto proprio a lui.

Fu nel gruppo del Brenta, nell’estate di quell’anno, che compresi che non sarei più stato in grado di stargli dietro. Ci eravamo arrivati con una moto comprata in società, usata, a rate, perché la mia ‘500 non ne poteva più. Il Brenta era il più comodo da Torino e il Calonaci, grignaiolo, ce ne aveva detto un gran bene. Io mi sarei accontentato della “via delle Guide”, ma lui aveva ben altro per la testa. E così, dopo la notte passata in vetta al Crozzon, eravamo già dentro quel budello che è il diedro Fehrmann al Campanile Basso. Troppo facile per lui. Volle arrivare in punta per lo spigolo Fox: gli piaceva il nome. Il giorno dopo riuscì a trascinarmi sulla Graffer allo Spallone: era la via più difficile di quel campanile che lo affascinava così tanto. Calcolai male i tiri e il più difficile toccò a me. Mi chiese se per cortesia poteva farlo lui. Che fortuna, cominciavo già a perdere vistosamente dei colpi! Poi, non contento, per arrivare in punta scelse la Preuss.

Alla sera incontrammo per caso un altro ”grignaiolo”: Giuseppe Lafranconi che cercava qualcuno per fare la Graffer al Pilastro della Tosa. Solo un italiano l’aveva ripetuta: Cesare Maestri, pensa un po’ che combinazione! Posi la condizione che l’avrei fatta da secondo, con il Lafranconi. E fu la mia fortuna, perché Gianni, che mi seguiva nella cordata dietro la nostra, mi prese al volo mentre facevo un pendolo impressionante, nel passaggio più difficile. Per convincerlo ad andarcene via dal Brenta, accettai di trasferire moto e tenda (i soldi per i rifugi non li avevamo) al passo Sella per andare sul famoso “Salame” di Comici. Io speravo nell’inclemenza del tempo. Ma fu una giornata radiosa, e adesso sono contento così, perché è stata l’ultima grande scalata che ho fatto con Gianni. Io ne avevo abbastanza, e avevo capito che per lui sarei stato solo una palla al piede. Con la moto me ne tornai a casa e lui salì in sella a un’altra moto con un compagno un po’ più determinato di me: Gianni Mazzenga, che aveva appena conosciuto al passo Sella. Da lì al passo di Costalunga sono pochi i chilometri e lì c’era una via dove potevano collaudarsi a vicenda: la Brandler-Hasse alla Roda di Vael. Alternarsi al comando con Gianni è una “vigna” per il Mazzenga che è abituato a andare sempre davanti con quella che diventerà poi sua moglie. E così decidono un ulteriore rodaggio sulla Livanos-Gabriel alla Cima Su Alto. Vengono poi bloccati, i due Gianni sulla Carlesso alla Torre Trieste, perché devono calare un tedesco, partito prima di loro, che si era ferito facendo un gran volo. Si rifaranno, qualche giorno, dopo sulla Costantini-Apollonio alla Tofana.

Alberto Marchionni e Gianni Ribaldone nei pressi del nibbio (Grignetta)
Ribaldone-Alberto Marchionni e Gianni Ribaldone in Grigna
Col suo nuovo compagno, Gianni pensa poi di festeggiare il Carnevale del 1964 sullo spigolo Graffer del Basso, che ormai conosce a memoria perché è la terza volta che lo percorre nel giro di un anno. Quella che non conosce bene, però, è la strada per arrivare al rifugio della Tosa, che il Mazzenga ha strategicamente scelto come base per arrivare all’attacco: in discesa. Arriva a Molveno da solo, con la corriera, perché i suoi compagni lo aspettano già su. Non conosce la strada, che dovrà fare quasi tutta al buio, con un pesante sacco da invernali, sulle piste cancellate dal vento. A chi gli chiede come farà a fare i 1600 metri di dislivello, risponde che tanto lui ha la pila. Secondo il Mazzenga, che lo aspettava al rifugio con la pila accesa, è stata un’impresa più epica di quella del giorno dopo…

L’inverno di quell’anno, siamo nel 1964, lasciando a casa il sottoscritto per non correre dei rischi, lui si era finalmente anche tolto il fastidio della “Malvassora” al Becco della Tribolazione. E, subito dopo, il camino Mezzena: una vera e propria cascata di ghiaccio da superare senza “piolet-traction” (ancora da inventare), come mi disse Giampiero Baima, poi la Nord dell’Uja di Mondrone e altre ancora, tirandosi sempre dietro uno stuolo di torinesi che non vedevano l’ora di trovare qualcuno disposto a risolvere a raffica problemi accumulati da tempo.

Gianni Ribaldone scende a corda doppia dalla via Bellenzier alla Torre d’Alleghe
In discesa dalla Torre di Alleghe. Foto: Gianni Mazzenga

A questo punto, e dopo quasi cinquant’anni, i miei ricordi sono solo più dei flash in quella camera oscura che è diventata la mia memoria. Ricordo che lo vedevo ogni tanto al Politecnico, dove frequentavamo corsi diversi, e la mia impressione è che avesse ormai raggiunto una maturità alpinistica che gli avrebbe permesso di affrontare qualsiasi scalata. Come nell’estate del 1964, quando, con Giorgio Bertone si spostano dalla Ovest della Noire alla Bonatti al Dru, e poi, in previsione di farla d’inverno, eccolo con un’altra guida di Courmayeur sulla la via degli Svizzeri al Capucin. L’unico problema di Gianni erano i soldi che i suoi gli lesinavano, come si faceva una volta nelle famiglie per bene. A questo provvedeva d’inverno dando lezioni di sci a metà prezzo (veramente, come stile, lasciava un po’ a desiderare) e d’estate accompagnando qualcuno in montagna. Per tenere nascosti i suoi spostamenti ai genitori che lo credevano, costretto dai pochi soldi che gli davano per studiare a Torino, ricorreva a lettere posdatate, che qualcuno da quella città provvedeva a inviare a un suo segnale.

Poi ci sono gli episodi che ancora ricordano gli amici che l’hanno accompagnato nelle sue avventure.

L’inverno del ’65 lo vede scendere, dopo la Sud del Capucin, assieme a un Marchiaro infortunato, in arrampicata libera, il canale ghiacciato della discesa con soli 20 metri di corda rimasti dopo che il resto era rimasto bloccato alla prima doppia sotto la punta. Tanto per chiudere la giornata in bellezza, alla sera è a Pinerolo dove lo aspettano per una serata di diapositive. E lì combina per la domenica successiva, con Dino Rabbi, il Pilier Gervasutti al Tacul: le condizioni sono buone: perché non approfittarne? Sarebbe meglio dire: erano buone, perché dopo il primo giorno si scatena l’inferno e per di più mentre si preparano al secondo bivacco, con un freddo micidiale, Gianni vede con orrore perdersi nel canale sottostante il sacco, con tutto il suo prezioso contenuto. Fortunatamente per loro, la tenda da bivacco era in quello del compagno. Passano due notti terribili, prima di sbucare in vetta al Tacul fortunatamente con un’alba senza una nuvola, che Dino Rabbi ricorda ancora con profonda emozione.

Ribaldone e Dino Rabbi dopo Il Pilier Gervasutti

Renato Avanzini, di Genova, ricorda invece il primo incontro con Gianni al rif. 3° Alpini, d’inverno, in Valle Stretta. Arrivò alla sera – mi dice – con una gavetta piena di neve che provvide subito a sciogliere col suo “Bleuet” per farsi una minestra che invece il custode avrebbe voluto preparargli. Gianni aspettava un amico, che non arrivò il mattino dopo, perché il tempo era brutto, nevicava. E tuttavia, pur avendolo appena conosciuto, al pomeriggio rimane da solo, ad aspettare Renato e la sua compagna, con la ferma intenzione di andarli a cercare, se non tornavano dal Thabor che incautamente avevano cercato di salire con quel brutto tempo, senza conoscere bene la strada. Un furbacchione il nostro Gianni, perché, chiacchierando, aveva scoperto che Renato era un dolomitista incallito, che avrebbe potuto portarlo in Dolomiti durante l’estate. Come in effetti avviene nell’estate del 1965 e per ripagarlo della cortesia porta Renato sulla Cassin alla Ovest di Lavaredo, e la sua compagna Rita Corsi, sulla Cassin alla Piccolissima. Per Renato, uno dei ricordi più belli della sua vita.

Gianni Ribaldone durante la prima ascensione della Direttissima Ovest alla Torre Castello (8 maggio 1965)
Ribaldone durante la 1° Ascensione alla Diretta Ovest della Torre Castello

Quell’anno, in Dolomiti, Gianni va alla ricerca delle vie più difficili e, ogni tanto, deve anche accettare qualche sconfitta: cerca dapprima inutilmente un compagno per il diedro Philipp-Flamm al Civetta dove aveva appena scalato la Solleder e la Andrich-Faé, poi col Mazzenga prova a ripetere la Bellenzier alla Torre di Alleghe che l’autore riteneva la via più difficile in assoluto di tutta la muraglia del Civetta. A sentire il Mazzenga, nelle placche finali, che i due cercano di forzare persino con una piramide umana, individua i residui di una serie di fori sospetti martellati frettolosamente dal primo salitore. Con una doppia nel vuoto di 50 metri, da brivido perché il vento aveva fatto credere al Mazzenga di potere raggiungere un terrazzino sfiorato dalle estremità delle corde, riescono comunque a scendere. Mi hanno raccontato poi che Gianni, nella sua testardaggine, è andato a cercare proprio il primo salitore chiedendogli per curiosità di ripetere con lui quella prodezza, ricevendone un diniego: il tizio, quei giorni, non era molto “allenato”… (Questi dubbi sulle modalità dell’ascensione solitaria di Domenico Bellenzier furono chiariti solo in seguito, con le prime ripetizioni, NdR).

Quell’estate lì incontro per caso, a Courmayeur, una figura barcollante sotto la pioggia e un sacco enorme, che risale la val Veny. Era lui. Durante la salita dello spigolo Gervasutti al Picco Gugliermina con Giorgio Bertone, si era staccato il pilastro cui era attaccato ed era andato a sbattere la schiena contro la roccia. Anche se ancora dolorante per la botta, stava cercando il possessore di un mezzo a due o quattro ruote, per andare in Dolomiti, perché, come potevo constatare, lì il tempo era brutto. Lo sfortunato di turno risultò essere Ezio Comba, che dovette accompagnarlo sulla Brandler-Hasse alla Cima Grande di Lavaredo. Fu un’esperienza terribile, povero Comba, ma chissà perché, tutti quelli che con Gianni hanno fatto scalate ben superiori alle loro effettive capacità ricordano quelle esperienze con profonda nostalgia.

Capodanno 1963: Giorgio Bertone, Gianni Ribaldone, Romano Merendi, Giovanni Noseda, Alberto Calonaci
Capodanno 1963, Resinelli: Giorgio Bertone, Gianni Ribaldone, Romano Merendi, Giovanni Noseda, Alberto Calonaci. Foto: Alberto Marchionni

Invece io con lui non ricordo solo momenti di roccia e di scalate (e purtroppo di bivacchi). Gianni non era solo un assatanato affamato di “pane e di pietra” come dicevamo noi e neppure solo un coraggioso esploratore delle ricchezze che il mondo sotterraneo nasconde. Ogni tanto si lasciava anche andare alle debolezze dei ragazzi della sua età. Alle quali si concedeva ogni tanto, da me, in val di Lanzo, dove fra una facile scalata e una sciata, io mi godevo una vita da “bohémien”, in un mondo fatto anche di un sesso diverso dal nostro. Con le ragazze non aveva un approccio come con la montagna. Piuttosto timido, nei loro riguardi preferiva un approccio epistolare. Scriveva egregiamente, come sappiamo dagli articoli che ci ha lasciato, e quindi, dato il costume “maschilista” di quell’epoca, pensava di affascinarle con i cruenti racconti delle sue scalate. Il fine comunque era implicito, e allora io lo incoraggiavo sempre a utilizzare strumenti un po’ più “convenzionali”. Ma, data la sua riservatezza, non ho mai saputo come sia andata a finire. Vivevamo poi in una baita, dove tutte le mattine, una gallina faceva un uovo nel suo letto, che lui poi, tutto trionfante, portava a mia madre perché glielo cucinasse. Questo, era anche Gianni…

Sia l’autunno del ’65 che l’inverno successivo deve rallentare la sua attività in montagna perché non vuole fare come il sottoscritto, che aveva deciso per una stabile professione di “fuoricorso”. I suoi genitori non erano tolleranti come i miei. Credo poi se ne sarebbe anche vergognato. E così limita la sua attività al Gruppo Castello-Provenzale, così vicino a Torino. Sempre con i sui fidati appunti scolastici nel sacco e con tutti i suoi amici torinesi, compreso il sottoscritto, da cui era stato abbandonato dopo il “Salame”. Una volta mi tirò vergognosamente di peso, devo confessare, in una variante della Castiglioni Ovest, che, purtroppo, proprio io gli avevo suggerito. Per castigarmi, qualche tempo dopo, mi cedette il comando sul “Diedro Rosso” della Provenzale.

“Ma vedi che sei ancora capace ad arrampicare” mi disse alla fine, dopo che, con mille bestemmie ero riuscito ad avere ragione dei due tiri più difficili di quel maledetto diedro. Sono ancora molto orgoglioso di quei complimenti…

Infine, nell’aprile del ’66, una domenica, durante un’uscita con la Scuola Gervasutti, mi parla di un gruppo di speleologi bloccati dall’acqua in una grotta vicino a Bergamo. Forse alla sera avrebbe dovuto partire per partecipare ai soccorsi, che erano già iniziati e che non erano approdati a nulla. Alcuni giorni dopo me lo ritrovo davanti prima di una lezione. Mi dice che era riuscito per primo a raggiungere quei disgraziati intrappolati nella grotta, e così se ne era caricato uno sulle spalle e l’aveva tirato fuori di lì, assieme poi anche agli altri, lungo gli 80 metri di una violentissima cascata d’acqua.

Courbassere: la Scuola Gervasutti invita a una lezione sull’autosoccorso Franco Garda. Accanto a lui, Gianni Ribaldone
Franco Garda e Gianni Ribaldone, lezione sciola Gervasutti alle Courbassere, 1960

Sulle prime non diedi molto importanza al suo racconto. Conoscendolo, non credevo fosse stata una cosa eccezionale per lui. Però poi, lo stesso giorno, leggo sulla prima pagina de La Stampa tutto il resoconto di questo impressionante salvataggio, ma raccontato da quelli che avevano aiutato Gianni nell’operazione. Perché i giornalisti che lo avevano cercato per una intervista non erano più riusciti a trovarlo. Ma questo io lo sapevo già.

“Mica potevo perdere il treno per tornare a Torino?” mi aveva detto. Alcuni mesi dopo però non riuscì a sottrarsi a un appuntamento con il Presidente Giuseppe Saragat, che gli conferì la medaglia d’oro al Valore Civile, per quella generosa quanto difficile operazione di soccorso.

Il mese successivo, sul Tacul, Gianni ne aveva un altro di appuntamento.

Anche questo era uno di quelli cui non puoi mancare.

Di questo ultimo capitolo rimangono ancora pochi bytes nella mia memoria. Il giorno prima di una lezione di ghiaccio della Gervasutti, proprio al colle dei Flambeaux, mi parla della sua laurea, ormai prossima, e delle sue aspirazioni professionali. Si era portato persino gli appunti da ripassare. Poi, dato che sembra in ottime condizioni, decide per il giorno dopo di chiudere il conto anche con quel canalone Gervasutti che, negli inverni passati, ci aveva fatto tanto dannare. L’avrebbe fatto con due allievi del 2° Corso e con un’altra cordata, quella di “Pepe” (Giuseppe Castelli). Un po’ li invidio, ma io ormai, per vivere tranquillo, mi sono fatto retrocedere al 1° Corso, che si limiterà alla normale del Tacul, così ci saremmo ritrovati al mattino sulla punta.

Il giorno dopo, però, non c’è nessuno ad aspettarci in vetta al Tacul. Quando arriviamo sentiamo solo, 200 metri sotto di noi nel canale, la voce disperata di Pepe che è rimasto da solo coi suoi due allievi perché Gianni è precipitato assieme al lastrone di neve che ha tradito tutta la sua cordata. Quelli che l’avevano già recuperato, nei seracchi in fondo al canale, hanno trovato la sua fedele macchina fotografica con l’ultima fotografia scattata all’attacco. Nel sacco c’erano gli appunti per la sua tesi di laurea e, sul volto, il suo solito dolcissimo sorriso.

Sono andato a rileggermi questi ricordi proprio qui, a Savigliano, dove Gianni è stato raggiunto dai suoi amati genitori e dove ogni tanto vengo a fare due chiacchiere con lui.

– Vedo che non hai perso il vizio di metterti in mostra! – mi dice con benevolenza.

– Ma guarda che l’ho fatto solo perché sono pochi quelli che ti ricordano ancora dopo mezzo secolo – gli rispondo con la mia consueta ipocrisia – lo so che ti dà fastidio che si parli troppo di te. Non incazzarti. Ma, senti, mentre sei lì, dato che fra un po’ ti verrò a cercare di persona, guarda se, da quelle parti, c’è qualche bella parete da scalare… ma non d’inverno, eh… Già fa freddo abbastanza, lì!

L’ultima foto scattata da Gianni. Le cordate si preparano prima della salita del fatale Couloir Gervasutti al Mont Blanc du Tacul
L'ultima foto di G. Ribaldone alla partenza del fatale Canalone Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, 2 luglio 1966

Presentazione della serata di Alberto Marchionni su Gianni Ribaldone
di Alberto Marchionni
(chi fosse interessato a organizzare questa serata, può contattare direttamente l’autore, alberto_marchionni@fastwebnet.it)

Quello che vedrete questa sera e quello che sentirete, risale a cinquant’anni fa. Per i più giovani di voi sono mezzo secolo, che però, detto così, a me fa un po’ effetto…

Ma quando Felice, il fratello di Gianni, mi ha consegnato le quattro cassette delle fotografie di Gianni, che aveva trovato, per caso, in una soffitta, cassette che io ho aperto a casa, come si apre uno scrigno contenente un tesoro sepolto da secoli, e poi, quando, proprio con il vecchio proiettore di Gianni, mi sono messo a guardare quelle immagini, ebbene, in quel momento, tutti questi anni sono scomparsi di colpo, e tutto quanto, per me, è come se fosse successo ieri.

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E allora ho pensato che consegnando, secondo il desiderio di Felice, subito tutte quelle immagini al Museo della Montagna, qualcuno le avrebbe sì, riprese in mano, magari fra qualche anno. Forse anche ammirate, ma senza l’emozione di chi quelle immagini le aveva, almeno in parte, veramente vissute.

Ecco perché ho deciso di sceglierne qualcuna, per raccontare una storia, quella di Gianni.

Una storia troppo breve (parliamo al massimo di quattro, cinque anni), ma densa di avvenimenti e soprattutto emozioni che quelle immagini mi hanno fatto tornare prepotentemente alla memoria. Non ho voluto poi essere l’unico a raccontare quegli avvenimenti, ma ho voluto farli raccontare anche da altri, che, con Gianni, quelle esperienze le avevano condivise.

Gianni Ribaldone, molti di voi lo sanno, è stato uno degli alpinisti che hanno segnato maggiormente (secondo me più di tutti), un certo periodo dell’alpinismo torinese, anche se lui proprio di Torino non era. Parliamo della prima metà degli anni sessanta, quella che ha preceduto e, forse, anche preparato, il “ Nuovo Mattino” dell’alpinismo torinese. Quando ancora si arrampicava con gli scarponi, con i chiodi, i cunei e tutte quelle diavolerie che adesso ci fanno un po’ sorridere.

Ma io non sono qui per dirvi queste cose: già le sapete o le immaginate.

Un amico, noto professore di università, nonché valente alpinista, cui ho fatto vedere queste immagini per averne un giudizio, mi ha detto: “… Bel lavoro, bravo Alberto che hai avuto la voglia di raccontare proprio con le sue foto la strepitosa carriera alpinistica di Gianni Ribaldone. Ma da queste, non si capisce chi era veramente Gianni, il suo carattere, la sua personalità, o, come diceva lui, il suo Essere…”.

Permettetemi, allora, per illustrare proprio questo aspetto, dal mio punto di vista personale, di utilizzare solo un paio di minuti.

Ho voluto cominciare la proiezione, come vedrete, forse proprio per sottolineare le differenze rispetto ad allora, con uno dei tanti personaggi che rappresentano le massime espressioni dell’alpinismo moderno: Alex Huber. Nel nostro immaginario è un personaggio eccezionale, almeno per me dotato di qualità quasi extraterrestri. Un Superman, tanto per intenderci.

Ecco, Gianni non era niente di tutto questo.

Gianni Mazzenga, di Padova, che ho avuto il piacere di incontrare nel corso della stesura di questa “Presentazione”, mi ha messo a disposizione tutta la documentazione epistolare che aveva avuto con Gianni, negli anni in cui hanno arrampicato insieme. Devo premettere che quando ho letto alcune di queste lettere, ebbene, non sono riuscito a trattenere le lacrime (mia moglie mi è testimone) perché, mentre leggevo, mi sembrava di avere accanto a me, proprio Gianni. Tanto quelle lettere rispecchiavano quella che era la caratteristica maggiore del suo carattere. Cioè la “semplicità”. Gianni, in molti suoi scritti, insiste molto sul concetto di semplicità. Forse proprio perché la semplicità è sintesi: cioè l’essenza stessa dell’intelligenza. E Gianni era molto intelligente.

Per questo vorrei farvi conoscere, attraverso la bella voce di Patrizia (che sentirete ancora, proprio nell’interpretazione di alcuni pensieri di Gianni), vorrei farvi conoscere alcuni passaggi di queste lettere, che evidenziano proprio le peculiarità del suo carattere .

Gianni apparteneva a una famiglia genovese piuttosto benestante, che gli dava i soldi strettamente necessari (a quell’epoca era così che si usava, nelle famiglie per bene) per stare a Torino, dove studiava e viveva con una zia (che lui, fra l’altro, grazie anche alla mia complicità, con la sua passione per la montagna, faceva impazzire). E allora si arrabattava come poteva sia per andare in montagna, che per procurarsi la relativa attrezzatura.

Sentite cosa scriveva a Mazzenga, nel gennaio del ’65, dopo un soggiorno a Courmayeur:

Sono stato in Val d’Aosta per diversi giorni (23) e ho tentato con scarso successo una via nel gruppo del Bianco assieme a un portatore di Courmayeur, ma il maltempo ci ha costretti a tornare al 2° giorno di salita: non ti dico di cosa si tratta, semplicemente per scaramanzia. Ad ogni modo ho avuto il mio da fare a procurarmi di che sopravvivere per tutto questo periodo e i mezzi per poter sciare perché, capirai, che i miei non erano certo disposti a pagarmi un soggiorno da nababbo per tutto questo tempo. E così ho trovato che il metodo migliore era dare lezioni di ski a metà prezzo: insomma, in qualche modo sono riuscito a stare in montagna, anche se, per il brutto tempo, non ho potuto concludere nulla di veramente buono… … Entro questa sera spero di trovare il tempo di fare un vaglia di 5.000 lire, per te o per Lella (la futura moglie di Mazzenga): a te le devo dall’inverno scorso, e alla Lella, da questa estate. Fra di voi vi metterete d’accordo per chi ne ha più bisogno. Spero, con il prossimo mese di farti avere anche il resto. Speravo di poterlo fare con i regali di Natale, ma andare in montagna costa molto e soprattutto l’attrezzatura: insomma, quelle 5.000 lire sono poi 5 ore di lezione di ski!”.

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Era poi, sempre alla ricerca di compagni, cui proponeva scalate invernali difficilissime, con una disarmante semplicità. Nel dicembre del 1963 proponeva al Mazzenga:
“… fino a metà gennaio non mi posso allenare per ragioni di esami. Ad ogni modo, io sono senza compagni perché l’unico possibile, cioè Alberto, ha deciso di darsi alle gare di sci e non ha nessuna intenzione di allenarsi. Se tu sei disponibile, io sarei ben lieto di fare qualcosa con te… … Io alcune idee le avrei, e cioè una delle seguenti salite:
Pilastro Fornelli al Tacul
(3 giorni di salita salvo brutto tempo);
Picco Gugliermina via Gervasutti
(2 giorni per la salita, 1 giorno per il rifugio e 1 per la discesa);
Via della Poire al Bianco
(difficili i primi 500 metri anche per la caduta di seracchi e slavine), 2 giorni;
Pizzo Badile, via Cassin
(900 metri di cui 300 di difficoltà forti, ma molto chiodati. Probabili 4 giorni di salita, più 1 per arrivare alla capanna Sciora e 1 per scendere in Val Masino”.

Poche idee ma chiare, questo era Gianni, come anche sentirete da Dino Rabbi, quando proponeva le sue scalate. Te le buttava lì, semplicemente.

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Ma non solo. La visibilità, la ricerca della quale pare sia diventata uno sport nazionale, e, mi pare, un po’ anche negli ambienti di montagna, gli procurava un certo fastidio. Dopo la prima invernale allo spigolo Graffer del Campanile Basso si arrabbiò moltissimo perché la notizia era stata data a Lo Scarpone, senza che lui ne sapesse niente, e allora si scusa col Mazzenga:

Innanzi tutto non ho dato io la notizia a Lo Scarpone. Ma penso di sapere chi sia stato a farlo: credo di averti parlato di un certo Rampini, un giornalista-arpia… … ora questo Rampini, appena riesce a carpire (di qui “arpia”) una notizia, la rende di pubblico dominio, se può su un quotidiano (e da ciò ne trae un certo guadagno), se no a riviste alpinistiche con il che, io credo, riesce a rimanere “visibile” nel mondo alpinistico…”.

E poi trasferiva anche questa semplicità a quello che più amava, cioè la montagna. Ecco cosa scriveva, all’età di 17 o 18 anni (ancora io non lo conoscevo) delle montagne che lui proprio amava di più, le Alpi Marittime. Forse perché erano le prime che aveva affrontato. Dove, probabilmente, aveva imparato a conoscersi:
Sono monti tranquilli, semplici, modesti. Un po’ al di fuori delle combattute cronache alpinistiche, un po’ senza pretese: non ciclopiche pareti dagli strapiombi pazzeschi e vertiginosi, non interminabili distese di ghiaccio, dalle seraccate impossibili. No, nulla di tutto ciò.
Sono monti tranquilli, invitanti, sono vette modeste, come l’animo di chi le ama. Qui però, più che altrove, si potrà sentire la voce misteriosa del sublime: se avremo potuto liberarci dalle sovrastrutture convenzionali, in cui la Società ci ha rinchiuso, se avremo saputo ricondurci alla semplicità estrema della nostra anima
”.

Sperando di non avervi troppo annoiato, con queste poche parole iniziali, vorrei chiudere qui questa presentazione, del tutto personale, di Gianni. E che ritenevo doverosa, perché Gianni, non soltanto per quello che ha fatto, ma anche per quello che “era”, almeno per me, è stata una di quelle persone che, come poche altre ha segnato veramente la mia vita, sia pure nei pochi anni nei quali le nostre esistenze si sono intrecciate.

Storia di Gianni Ribaldone
di Carlo Balbiano d’Aramengo (tratto dalla Rivista del CAI, sett/ott 1999)

Gianni Ribaldone è nato a Cavour il 25 agosto del 1942.
I suoi genitori sono Angela Scaraffia e Natalino Ribaldone, proprietario della farmacia di Cavour, Gianni era fratello di Felice (1940) e Tina (1946).

A Genova
Nel 1950 la famiglia Ribaldone si trasferì a Genova, perché il padre abbandonando la farmacia del paese di Cavour, ne acquistò una nel capoluogo ligure.
Gianni frequentò le medie e poi il liceo Andrea Doria, e man mano che cresceva, manifestava una gran quantità di interessi in campi diversi: collezionava francobolli e monete, e dipingeva quadri, ma i maggiori interessi erano quelli scientifici, specialmente nelle scienze naturali.

Così Gianni, a soli 14 anni cominciò a frequentare il gruppo speleologico di Genova “Arturo Issel”.
Seguiva il professor Ghidini nelle ricerche biologiche e la professoressa Leale Anfossi nelle ricerche archeologiche condotte in val Pennavaira.

Con l’occasione scoprì anche che le grotte non sono solo un archivio archeologico, ma anche un fecondo terreno per chi ama gli studi di geologia, di fisica e di biologia.
Cominciò inoltre a provare il piacere di esplorare l’ignoto e si accorse di avere una buona predisposizione per l’arrampicata.

Era veloce ad assolvere i compiti scolastici e così trovava tanto tempo libero per coltivare i propri interessi.
Con l’amico Dinale eseguiva studi sulle migrazioni dei chirotteri che furono oggetto di una interessante pubblicazione e contemporaneamente, se aveva un paio di ore libere si esercitava ad arrampicare sulle rocce di Sampierdarena.

In pochi anni diventò l’elemento di punta del gruppo Issel. Scoprì e descrisse un gran numero di grotte e pubblicò l’elenco catastale delle grotte liguri.
Ma soprattutto riusciva a risolvere i problemi tecnici che invece bloccavano gli altri.

Presso il sifone terminale della grotta Taramburla, in val Pennavaira, vincendo estreme difficoltà riuscì a raggiungere un foro sul soffitto e così ad esplorare un nuovo tratto di grotta dove per anni nessuno riuscì più a metter piede.

Nel 1960 lo troviamo alla grotta dei Rugli, in val Fervia: attraversa a nuoto il lago che precede il sifone terminale e con un’esposta arrampicata di 10 metri scopre un sistema di gallerie superiori, fino a un nuovo sifone. Ancor oggi quel passaggio è chiamato “salita Ribaldone”.

Per Gianni, inizialmente l’arrampicata era solo un mezzo per esplorare le grotte, ma presto scoprì che la gioia di arrampicare su una montagna può anche essere fine a se stessa.

Da Genova le montagne sono distanti; ciò non di meno, destreggiandosi con gli orari dei treni e dei pullman, poteva spesso raggiungere il gruppo dell’Argentera e compiere ascensioni già di un certo livello, rientrando poi a Genova giusto in tempo per andare a scuola, talvolta senza aver quasi dormito.

A Torino
Nel 1960 Gianni Ribaldone si iscrive al Politecnico di Torino.
Vivendo buona parte dell’anno in questa città inizia quell’attività alpinistica che dovrà portarlo in breve tempo a inserirsi fra i migliori arrampicatori del suo tempo; contemporaneamente continua la sua attività speleologica, curando soprattutto l’esplorazione e gli studi fisici.

Vivendo lontano da casa egli aveva maggior libertà. Non che i genitori gli impedissero la pratica sportiva, ma certo non erano entusiasti di trascorrere le domeniche nel continuo timore di qualche incidente.
Di soldi gliene davano pochissimi anche se nessuno lo ha mai sentito lamentarsi. Il fatto è che Gianni conosceva alcuni espedienti per vivere spendendo pochissimo. Certe volte il cibo che metteva nello zaino era costituito solo da pane e lardo, e ci spiegava che quel tipo di dieta era oltremodo calorico.

Gianni Ribaldone nella prima invernale alla via degli Svizzeri del Grand Capucin
Gianni Ribaldone durante la prima invernale della via degli Svizzeri al Grand Capucin

Più di una volta, in mancanza di programmi specifici, andava ad arrampicare in Grigna partendo con un biglietto ferroviario di sola andata.
Sapeva che là, il suo amico Merendi gli avrebbe presentato dei turisti ben contenti di arrampicare con un alpinista bravissimo, ma senza la patente di guida e pertanto a tariffe più basse.

Infine pare che la famiglia gli desse dei soldi per comprarsi un vestito, o un soprabito, ma che i soldi venissero poi dirottati per un attrezzo di alpinismo o di speleologia.

La serietà con cui Gianni intraprendeva i difficili studi di ingegneria non gli consentiva un’attività intensa come altri colleghi, ma è per la qualità delle sue salite che riesce a imporsi all’attenzione dell’ambiente alpinistico torinese, pur dominato da personalità come Giorgio Bertone, Ugo Manera, Andrea Mellano, Dino Rabbi, Franco Ribetti e altri.

Nel 1961, infatti, sale la cresta sud dell’Aguille Noire de Peuterey, la parete sud del Castore e infine effettua la prima ripetizione della direttissima dei Francesi alla sud del Corno Stella (Alpi Marittime), con Alberto Marchionni, anch’esso giovanissimo e suo compagno di Politecnico. Con Marchionni si lega presto con un’amicizia veramente fraterna da lui è introdotto nell’ambiente della Scuola Gervasutti, con lui compirà una serie di scalate di grande prestigio, in generale a comando alterno.

E’ sufficiente a Gianni ancora un solo anno, il 1962, per essere classificato tra i migliori e più attivi arrampicatori della scuola torinese. La bontà e il suo carattere gli accattiva le simpatie di chiunque lo conosca e condivida con lui le gioie e i disagi dell’alpinismo, come della speleologia e della vita stessa di ogni giorno. Entra a far parte del Gruppo Alta Montagna del CAI Uget, di cui in seguito verrà eletto vicepresidente. In questo anno inizia la sua attività da istruttore della Scuola nazionale di alpinismo Giusto Gervasutti che continuerà negli anni, fino alla sua morte.

Fin dal giorno del suo arrivo a Torino era già istruttore dei corsi di speleologia, e anche questa attività la svolse senza interruzione fino alla morte.

Se il 1962 lo ha visto tra i più attivi alpinisti torinesi, il 1963 lo inserisce decisamente nell’élite dei fortissimi.
La sua tecnica si è affinata, ardimento e la prudenza hanno trovato il loro giusto punto di equilibrio ideale, il fisico non teme le prove più dure e un intelligenza non comune ne vigila l’esuberanza.

….

La Spluga della Preta
Ma nel 1963 l’impresa che gli diede lustro e risonanza mondiale fu condotta in una grotta veneta.

Dal 4 al 15 luglio Gianni partecipa con il Gruppo Speleologico Piemontese alla spedizione nazionale alla Spluga della Preta, il terribile abisso dei Monti Lessini che dal 1925 era stato oggetto di numerose e massicce spedizioni, ognuna esplorava la grotta più in profondità di quella precedente, ma nessuna riusciva mai a raggiungere il fondo.

Si andava creando la leggenda che la Preta fosse l’abisso più difficile, terribile e profondo del mondo.

Anche la “super-spedizione nazionale” dell’anno precedente, cui avevano partecipato una cinquantina fra i più noti speleologi di Italia, si era dovuta fermare a quota -578.

Alla Preta Gianni andò con una spedizione leggera e veloce, cui presero parte Marziano di Maio del Gruppo Speleologico Piemontese, due amici di Faenza e quattro di Bologna.

Si è trattato di una massacrante operazione (otto giorni e otto notti ininterrottamente sotto terra, tre soli bivacchi, sempre bagnati e a corto di viveri); ma il successo conseguito, e cioè l’esplorazione completa e il nuovo primato italiano di profondità (- 875 m, 2a profondità mondiale) in gran parte è dovuto a lui, che con l’amico Giancarlo Pasini di Bologna raggiunse il fondo dell’abisso il 10 luglio.

Ma per Gianni la gioia più grande non fu certo quella di aver raggiunto il fondo o di aver contribuito al conseguimento del record di profondità, perché egli non concepiva la speleologia dal punto di vista agonistico ma bensì la teneva in conto di scienza e ne traeva oltretutto le gioie che derivano dall’ osservazione della natura e dei suoi fenomeni.

Appena uscito dalla grotta raggiunge le Dolomiti e in quella estate compie una serie incredibile di ascensioni.

La sua attività continua intensissima nell’inverno seguente e per tutto il 1965.

….

Foto scattata durante il salvataggio di Roncobello, 1966
G. Ribaldone impegnato nel soccorso della Grotta di Roncobello, aprile 1966

Non solo tecnica
Non sto a indicare tutte le imprese di Gianni Ribaldone. Per il lettore non alpinista rischia di essere un elenco noioso…

Mi preme comunque sottolineare che Gianni univa all’abilità tecnica una straordinaria prudenza e modestia.

A questo proposito ricordo che quando nel 1963 il Gruppo Alta Montagna del CAI Uget organizzò una spedizione alpinistica in Himalaya, Gianni non vi prese parte.
Gli chiesi come mai fosse stato escluso, visto che le sue capacità non erano certo inferiori a quelle di coloro che vi avevano preso parte.
La sua risposta fu: ”II medico ha detto che alla mia età un soggiorno prolungato in alta quota può essere pericoloso, forse è una balla, ma se fosse vero? Nel dubbio preferisco rinunciare…  in futuro avrò tante occasioni per andare in Himalaya“.
E invece di occasioni non ne ebbe più.

Il 1966 è l’anno in cui Gianni deve concludere gli studi di ingegneria mineraria e pertanto non vuol concedersi eccessive distrazioni. Non rinuncia però alla consueta opera di istruttore del corso di speleologia prima e della Scuola Gervasutti poi, mentre ogni tanto si lascia tentare dalle gite sci-alpinistiche o da qualche facile scalata per accompagnare i giovani ad acquisire familiarità con la montagna.

Perché egli non diceva mai di no a chi manifestasse l’entusiasmo, ed era felice di percorrere con lui la via normale alla Rocca Sella tanto come la Cassin alla Piccolossima di Lavaredo, o di accompagnarlo in sci sulla montagnola con 500 metri di dislivello come sul Monte Bianco.

Nell’autunno del 1965 era stato uno dei fondatori del Corpo di Soccorso speleologico Eraldo Saracco, le cui squadre dovevano poi essere incorporate nell’organico del Soccorso alpino del CAI, corpo al quale egli apparteneva già da quattro anni.

Gianni Ribaldone durante il salvataggio a Roncobello
Ribaldone durante il salvataggio a Roncobello

Anche in grotta la sua opera di volontariato purtroppo non doveva tardare a rivelarsi necessaria: rientrato a casa a mezzanotte del 25 aprile 1966 da una uscita di istruzione della Gervasutti, veniva svegliato al mattino presto perché chiedevano soccorso da Roncobello, dove alcuni speleologi bolognesi erano in difficoltà.

Partito immediatamente con la squadra di Torino, entrava in grotta e scendeva sino al pozzo dove un’impetuosa cascata d’acqua impediva di raggiungere i sei uomini bloccati, tra i quali erano anche due soccorritori gravemente feriti, i bolognesi Donini e Pelagalli che poi purtroppo non saranno recuperati vivi.

Studiata bene la situazione, Gianni si calava nel pozzo: il suo arrivo rianimava i bloccati, tre dei quali egli aveva conosciuto alla Preta; constatato come per uno dei due feriti purtroppo non vi fosse nulla da fare, egli si caricava l’altro a spalle con il sacco Gramminger e sotto la cascata riusciva a farlo salire sino alla sommità del pozzo.

Per questo intervento gli fu conferita la medaglia d’oro al valor civile, con suo stupore, giacché nella sua grande modestia gli pareva di non aver compiuto nulla di eccezionale, ma solo il suo dovere.
Con questa impresa Gianni Ribaldone divenne noto al grande pubblico, ma egli non sopravvisse che due mesi alla notorietà.

Ribaldone-L'articolo de LaStampa sull'operazione Roncobello

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Il 2 luglio 1966 sale al rifugio Torino con altri istruttori e con un gruppo di allievi della Gervasutti.
La mattina seguente attacca ancora al buio, con due allievi, Domenico Navone ed Euro Bosco, il canalone Gervasutti al Mont Blanc du Tacul.
All’alba la tragedia.
Mentre Gianni guida la cordata su per lo scivolo ghiacciato, uno degli allievi rimasti fermi sul terrazzino cade trascinando giù gli altri.
Una cordata che segue dappresso vede Gianni frenare con la piccozza, con tutte le forze, ma non c’era niente da fare contro l’ineluttabile e dopo un po’ la piccozza di Gianni cessa di mandare scintille.
450 metri più in basso tre corpi giacciono inanimati.
Quando il 5 luglio, dal Museo della Montagna, sul Monte dei Cappuccini, Gianni parte per l’ultimo viaggio, c’è una gran folla, ma è solo una piccola parte di quelli che gli volevano bene, come testimoniano anche le 1200 partecipazioni ricevute dalla famiglia.
Per l’estremo saluto erano giunti da ogni parte anche i compagni di cordata e gli speleologi, questi ultimi anche da Bologna, e tra loro quelli salvati a Roncobello per accompagnarlo sino a Savigliano, ove riposa.

Gianni alla consegna della Medaglia d’Oro al Valor Civile (1966)
Gianni Ribaldone alla consegna della medaglia d'oro al valor civile

L’insegnamento di Gianni
Qui finisce la storia della breve vita di Gianni Ribaldone.
Cosa ci ha lasciato?

Alcune pubblicazioni di speleologia… Sono poche in rapporto a quella che è stata la sua attività, perché scriveva, e di malavoglia, solo quando aveva da comunicare delle cose utili e ne veniva richiesto.

Non cercava certo la “carriera accademica”. Ci ha lasciato un voluminoso testo di quella che avrebbe dovuto essere la sua tesi di laurea, frutto di uno studio su una miniera di cinabro a M. Amiata.
Era infatti prossimo alla laurea.
Ai piedi del M. Bianco nel suo zaino fu trovato un libro di scuola su cui aveva studiato la sera precedente, in rifugio.
Avrebbe dato l’esame di lì a pochi giorni; ancora un altro esame ed era pronto per la laurea, prevista per ottobre.

Gianni ha lasciato al Museo speleologico di Garessio una collezione di 303 coleotteri (ne aveva ancora altri, che sono tuttora presso la sua famiglia). Una collezione di perle di grotta è stata poi regalata dalla famiglia allo stesso Museo. Ma a chi, come me, ha avuto la fortuna di conoscerlo, Gianni ha lasciato di più.

Benché più giovane di me, ha insegnato molte cose di speleologia, e mi ha insegnato a vivere sempre in allegria, serenità e amicizia. Raramente parlava delle sue imprese, se uno gli chiedeva informazioni, si limitava a rispondere alla domanda senza aggiungere niente di più, minimizzando le sue imprese e deviando subito il discorso su qualche particolare di sapore umoristico.

Nessuno potrà dimenticare la sua bontà, la sua franchezza, la sua risata viva e schietta, il suo cantare le vecchie canzoni piemontesi. I suoi allievi lo stimavano, oltre che per la pazienza e l’entusiasmo con cui istruiva, anche perché non metteva alcuna distanza fra sé e loro.

Fra le due città in cui è vissuto più a lungo, Genova e Torino, è stata la prima e dimostrargli la maggiore stima e riconoscenza, dedicandogli una via nei pressi dello svincolo autostradale di Nervi; sulla targa si legge: “Via Gianni Ribaldone – speleologo, medaglia d’oro al valor civile – 1942-1966″.

Gianni alla consegna della Medaglia d’Oro al Valor Civile (1966)
Gianni Ribaldone alla consegna della Medaglia d'Oro al Valor Civile, maggio 1966

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Gianni Ribaldone ultima modifica: 2015-02-25T07:00:14+01:00 da GognaBlog

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5 pensieri su “Gianni Ribaldone”

  1. Grazie a tutti! Mi Chiamo Bruno Ribaldone e sono parente di Gianni. Non conoscevo la sua storia e sono senza parole. Grazie di cuore!

  2. Ho conosciuto Gianni durante un periodo di villeggiatura a Monterosso Valgrana Cn. Ricordo l’apprensione che sua mamma manifestava spesso e questo mi spinse a chiedergli ricordo perfettamente la sua risposta Pochi giorni dopo le sue montagne se lo portavano via ed io ne rimasi sconvolto ( avevo 26 anni ).

  3. Chi, come me, ha seguito da vicino quella “Meteora” fino al suo schianto in fondo a quel canalone sa quanta tristezza e solitudine ha prodotto e dopo la lettura della rievocazione della Sua figura da parte di Alberto ha riaperto antiche ferite che credevo rimarginate.
    La memoria mi riporta su quella Montagna in una giornata stupenda sulla traversata delle “Diables”. Io ero legato con Gianni e in nostra compagnia c’era un’altra cordata di composta da Ottavio Bastrenta e Corradino Rabbi.
    Avevo ben tre fortissimi “osservatori” che mi avrebbero giudicato in vista di un mio eventuale ingresso nel Gruppo Alta Montagna di Torino. Non vi nascondo che ero più preoccupato di questo giudizio che le spettacolari calate in corda doppia da quelle guglie.
    Ad un tratto, quando ormai eravamo fuori dalle difficoltà, dal vicinissimo Pilier Gervasutti udimmo delle grida in francese. Qualcuno si era seriamente infortunato.
    Gianni mi affidò agli altri due e si avviò, quasi correndo verso la vetta e di lì verso l’Aiguille du Midì per dare l’allarme. A quei tempi senza satellitari funzionava così!
    Lui amava quella Montagna, evidentemente come tutte le altre, ma forse quella fu l’unica volta a dargli qualche soddisfazione. In altre due occasioni, come Alberto dettagliatamente descrive, non fu altrettanto benigna ed Egli subì indicibili sofferenze fino a quel maledetto 3 Luglio de 66 che lo tradì definitivamente lasciandoci tutti nello sconforto.
    Di Lui mi rimane ancora il ricordo di una lunga serie di salite di grande impegno fra le quali tre prime invernali e due vie nuove ma soprattutto di una solare e indimenticabile Amicizia.
    Paolo Rattazzini

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