Contro i giornali. Per amore del giornalismo – 1 (1-2)
di Arianna Ciccone
(già pubblicato il 28 ottobre 2014 su http://www.festivaldelgiornalismo.com/contro-i-giornali-per-amore-del-giornalismo/)
Questo mio intervento è un atto d’amore per il giornalismo. Il titolo è ovviamente una provocazione. Sicuramente sono però contro un certo modo di fare giornalismo. Anzi: contro un certo modo di non fare giornalismo nell’era digitale. Che è la nostra era.
I numeri ci raccontano di una crisi profonda che non parte oggi, ma viene da molto lontano. E no, iniziamo a sfatare miti, non è colpa del web se è in crisi un certo modello di business intorno alle notizie. La disruption operata dal digitale ha dato solo un colpo ben assestato a un edificio già traballante.
Ce lo ricorda con una fotografia perfetta George Brock, professore di giornalismo e direttore della Scuola di Giornalismo della City University di Londra, nel suo libro Out of print:
“Il giornalismo è costretto a reinventarsi sempre e lo ha sempre fatto davanti a cambiamenti del contesto economico, giuridico, tecnologico e culturale. Re-invenzione e sperimentazione sono le uniche costanti nella storia del giornalismo. I giornalisti tendono a confondere giornalismo con i giornali di carta. Ma la cosiddetta età dell’oro dei quotidiani nella seconda metà del XX secolo è in realtà la storia di un lungo declino commerciale. La televisione ha ucciso più giornali di Internet. Internet ha reso peggiori le cose per i giornali e ha affossato un modello basato sulla pubblicità. Ma la crisi dei giornali, il declino della carta stampata, è iniziato prima ancora della nascita di Internet. Non è crollata però la domanda di informazione, che anzi rimane forte e in crescita. Quello che è imploso è l’efficacia di un modello di quotidiani di grandi dimensioni e generalisti che richiedono un forte afflusso di pubblicità per sostenere quel processo informativo“.
La democratizzazione della distribuzione e l’atomizzazione dei contenuti hanno accelerato il declino di un modello, quello che il giornalismo sta attraversando è dunque una naturale evoluzione e non un disastro.
Mathew Ingram, esperto di media e senior writer di Gigaom, va anche oltre e si domanda se l’era dei mass media non sia un incidente, un’anomalia della storia. La comunicazione umana è per sua natura sociale e personale. E la natura dei social media e del networked journalism è esattamente questa a differenza del modello tradizionale dei mass media.
Sulla stessa lunghezza d’onda di Brock troviamo Alan Rusbridger, direttore del Guardian – Premio Pulitzer nella categoria servizio pubblico per lo scoop e la copertura dello scandalo sulla sorveglianza di massa digitale – che, in apertura del Festival Internazionale del Giornalismo 2014, ha dichiarato:
“I giornali sono in crisi, il giornalismo non è mai stato meglio. Il nostro compito è lavorare insieme: prendere il meglio del nostro lavoro “tradizionale” con il meglio del citizen journalism e dei social media“.
Abbiamo una grande occasione: la possibilità di immaginare un diverso sistema dell’informazione. Dice Clay Shirky, scrittore e docente alla New York University, che non abbiamo bisogno di giornali, abbiamo bisogno di giornalismo. Mai come oggi questo è vero. Mai come oggi, sotto la spinta e la pressione della rivoluzione digitale, i giornali hanno la possibilità di ripensare il proprio ruolo nella società.
Questa crisi costringe – almeno dovrebbe – i giornali, i brand più forti, a puntare sulla qualità e a rivedere il proprio ruolo di “ri-mediazione”. I giornali non contano più come una volta, hanno perso la loro centralità. Convivono insieme i professionisti e quello che una volta era conosciuto come pubblico: il pubblico, i lettori, ora si fanno produttori attraverso le infinite possibilità offerte dalla Rete. In campo sono entrati nuovi player: i social media hanno cambiato lo scenario per sempre.
Si ha l’occasione di riconquistare una – seppur parziale – centralità, ri-focalizzando la propria attività professionale in un sistema inondato dall’informazione. Nell’era dell’overload informativo, a mio avviso, abbiamo sempre più bisogno di professionalità. Dove questo poi avviene non importa più.
Faccio un piccolo esempio: dalle esigenze di “ri-mediare” i contenuti disintermediati è nata una realtà come Storyful, acquistata di recente da NewsCorp di Rupert Murdoch. Questa è l’età d’oro per lo storytelling, ne è certo Mark Little co-fondatore di Storyful.
Non mi occuperò della sostenibilità e dei modelli emersi in questi anni: Andrea Iannuzzi, direttore dell’Agenzia Giornali Locali del Gruppo Editoriale L’Espresso, in un articolo per il sito del Festival del Giornalismo, fa un punto della situazione e parla di tre modelli più uno. Legacy media, all digital (o digital native), non-profit e un giornalismo del quarto tipo rappresentato appunto dai social media, il giornalismo aggregativo delle piattaforme social: pensiamo ai social network come Twitter, il sistema operativo delle news, e Facebook che “sono diventati il «giornale» che consultiamo appena svegli, durante il giorno o prima di andare a dormire”.
Non è questo al centro della mia riflessione oggi. Vorrei invece condividere con voi quello che secondo me proprio non va nel giornalismo italiano. Sarò generica, e di questo mi scuso. Mi riferisco a un certo modo di fare i giornali e di intendere il giornalismo. Una mentalità, un atteggiamento, un sistema dominanti. Cercherò anche in parte di dar voce alle nostre aspettative di lettori, un ruolo che, come detto, è sempre più partecipativo e influente nell’ecosistema dell’informazione. Cito ancora Clay Shirky:
“Stiamo tutti vivendo il disorientamento dovuto all’inclusione di due nuovi miliardi di partecipanti in un panorama mediatico che prima operava grazie a un gruppetto di professionisti“.
Rispetto a questo mondo completamente cambiato dalle fondamenta, rispetto a questo nuovo sistema operativo sociale basato sul network, rispetto a questi ambienti culturali – perché di ambienti si tratta, e non di semplici mezzi – il giornalismo ha davanti una sola possibilità: ri-mettere al centro i lettori, perché l’alternativa è l’irrilevanza e il collasso totale della credibilità e dell’autorevolezza giornalistica (già fortemente indebolita).
Questo è un tema che riguarda tutti noi: un giornalismo forte rende forti i cittadini e quindi la democrazia. Certo, giornalisti e testate (e la tv e il mainstream in genere) non sono più soli – per fortuna – e da soli non bastano più. Ma, ripeto, in un contesto dove l’oligopolio delle notizie non esiste più, dove è esplosa l’offerta informativa, abbiamo bisogno – anche – di un giornalismo forte e sano, fatto da professionisti indipendenti e trasparenti, con competenze sempre più complesse, a loro agio con le nuove grammatiche dell’informazione nell’era dell’open web, aperti alla partecipazione e al coinvolgimento delle comunità dentro e fuori la rete. Perciò cominciamo col dirci alcune verità.
Ho suddiviso questo mio intervento in tre capitoli: editori, giornalisti, e infine noi lettori, co-protagonisti del nuovo ecosistema. Dico “nuovo” per comodità, ma continuare a parlare di new media ormai non davvero ha più senso. Internet e la Rete hanno già una certa età. E poi è come parlare ancora di futuro del giornalismo quando si tratta del nostro presente.
“The phrase ‘new media’ or ‘digital’ is so last century! Fifteen years ago, digital was pretty new. It’s not any more. Now you can find just about any content you might be looking for on one digital platform or another. From the Bible to Bieber, it’s all available just a few clicks away (Andrew Miller, CEO Guardian Media Group)”.
Gli editori
Partiamo dai numeri: il rapporto 2014 sull’industria dei quotidiani in Italia ci parla di lettori e pubblicità continuamente in calo. E il calo di diffusione è aumentato anno dopo anno: “ci sono voluti 8 anni dal 2001 al 2009 per scendere sotto i 5 milioni di copie giornaliere, ma ne sono bastati solo tre, tra 2009 e 2012, per scendere sotto i 4 milioni di copie”. Dal 2013 l’Associazione Ads (Accertamenti Diffusione Stampa, di cui fa parte anche la Federazione Italiana Editori Giornali) censisce anche le copie digitali e qui siamo intorno alle 500mila copie giornaliere nel mese di giugno.
Dal 2010 al 2013 si sono persi 3 milioni e mezzo di lettori. Chi sono? 2,6 milioni sono lettori fra i 14 e i 44 anni soprattutto, 900mila sono al di sopra dei 45 anni.
D’altra parte la conquista dei millennials è la vera sfida per tutti, media mainstream e digital native. Ed è quello che emerge anche dalla ricerca di Lella Mazzoli, direttrice dell’Istituto di formazione giornalistica di Urbino e docente di sociologia della comunicazione dell’Università di Urbino, su giovani e informazione: il crollo dei quotidiani come fonte primaria di informazione e il dominio al 91% di Internet (nel 2014). Dal 2011 a oggi il consumo dei quotidiani da parte dei giovani è passato dal 65% al 41%. Se continua così nel giro di 5 anni i quotidiani spariranno dalla dieta informativa dei giovani.
Lo sottolinea in modo spietato anche Robert G. Kaiser, giornalista di lunga data del Washington Post ora in pensione, in una lunga riflessione dal titolo The bad news about the news:
“A large portion of today’s readers of the few remaining good newspapers are much closer to the grave than to high school“.
Cala contestualmente la pubblicità. In pochissimi anni il fatturato pubblicitario si è dimezzato. La tendenza è che continuerà a calare sulla carta, anche se per ora continua ad essere la parte più consistente dei ricavi pubblicitari delle imprese editoriali, e le maggiori prospettive di crescita – sottolinea il rapporto – sono da attendersi nell’area prodotti e servizi digitali (per ora rappresentano il 6% dei ricavi complessivi). Questo ci dicono i numeri.
Davanti a questi numeri, e forse senza pensare realmente allo stravolgimento culturale e sociale in atto da anni, cosa fanno gli editori? Tagliano i costi.
“Alla ricerca di una introvabile redditività, le imprese editoriali si affidano a temibili cost killers, specialisti della riduzione dei costi che tagliano con la scure i dipendenti e le spese (Ignacio Ramonet – L’esplosione del giornalismo)”.
Tra prepensionamenti e compensi sempre meno dignitosi per i freelance, i cosiddetti “nuovi forzati dell’informazione”, gli editori insieme alla Federazione Nazionale della Stampa Italiana si appellano ai contributi pubblici all’editoria. Il fondo era stato azzerato ma poi nuovamente ripristinato: si parla attualmente di 120 milioni di euro in tre anni (2014-2016).
Perché in Italia si fanno giornali?
È cosa storica, risaputa, lo abbiamo detto e ridetto in questi anni, ma è bene ripeterlo: non esistono editori puri. Le grandi testate sono in mano a pochi editori, per giunta con altri interessi in campo. E una – per me insana – ossessione per la politica. Spinti dal desiderio di farne parte in qualche modo, di essere principali interlocutori, di essere protagonisti della vita politica del paese, sperando di orientarla, a volte forzando pesantemente la mano.
Qualcuno dirà: c’è la crisi, non si fanno i giornali per beneficenza. Giusto. Ma pensare di affrontare la crisi soltanto tagliando i costi non è una strategia vincente. Bisogna abbracciare l’innovazione e per innovare bisogna investire (non è questione solamente economica, ma anche e forse soprattutto culturale).
Di sicuro nessuno potrà dire dove tutto questo ci porterà. Ma è certo: il business delle notizie non sarà mai più quello di una volta. Si sono ristretti i guadagni (una ricerca di Mediobanca sui sette principali editori italiani parla di una perdita di 1,8 miliardi di euro dal 2009 a oggi). Si è ristretto il campo di influenza dei giornali sull’opinione pubblica. Vale ancora la pena investire? Dipende, appunto, dalla motivazione. D’altra parte nell’epoca del tasto pubblica senza permesso quello che può salvare le testate tradizionali è fare un prodotto sempre più di qualità, che costa di più probabilmente, ma che fa guadagnare di meno.
Diciamoci una delle prime verità, qui da noi:
“Le ragioni della crisi devono essere cercate altrove (rispetto a Internet). Anche in parte, nella perdita di rilevanza e credibilità di un giornalismo meno propenso all’inchiesta, a scavare, e più dedito al racconto di superficie, meno curato e più compiacente nei confronti di potere e investitori (Marco Pratellesi – New Journalism)”.
Editori e giornalisti sopravviveranno se sapranno produrre il miglior giornalismo possibile – avverte invece Sergio Maistrello nel suo libro su giornalismo e nuovi media – quello che serve alla società, che incontra i bisogni delle persone. È il giornalismo la via d’uscita alla crisi del giornalismo.
Come sapete, Jeff Bezos fondatore e CEO di Amazon ha comprato nel 2013 il Washington Post. La prima cosa che ha fatto è assumere. Philip Di Salvo per Wired a un anno dall’acquisizione ha intervistato Shailesh Prakash, Vice President of digital product development, una delle persone più a stretto contatto con il nuovo proprietario del giornale. Bezos, così come ha dichiarato subito dopo l’acquisizione, sa che bisogna investire e ha investito. I tempi sono lunghi e la soluzione per ora non c’è. Bisogna sperimentare, senza avere paura di fallire. Cosa è cambiato al WaPo?
“Grazie all’iniezione economica e “culturale” di Bezos, il Washington Post è infatti diventato un laboratorio di idee per il futuro digitale del giornalismo cui lavora un gruppo di persone di background diversi rispetto a quelli che, normalmente, sono presenti nelle redazioni dei media tradizionali. Come è noto, infatti, nell’ultimo anno, il giornale ha assunto un numero di ingegneri che Shailesh Prakash definisce “vicino ai 30″”.
C’è stato un ripensamento complessivo del giornale, è stato creato un vero e proprio laboratorio di ricerca dedicato all’innovazione tecnologica.
E questo è solo uno dei molti esempi che potrei fare. È di poche settimane fa l’annuncio del Guardian di una ristrutturazione della newsroom in nome della digital audience ma in linea generale il modello Guardian sarebbe da studiare proprio per la sua sperimentazione continua (non ultimo il lancio di una piattaforma open-source per il data journalism collaborativo). Mentre il Daily Telegraph ha deciso di accelerare rispetto al digitale. Il progetto è di usare per la versione cartacea i contenuti digitali del giorno prima, usare i contenuti del sito come una sorta di buffet per riempire il giornale di carta. Il giornale belga Le Soir ha deciso di assumere giovani laureati per puntare alla readership under 25 (rivitalizzare lo staff per rivitalizzare i contenuti), il Financial Times nel lanciare la nuova versione cartacea spiega: o ci adattiamo o moriamo. Ora, su 600 giornalisti, a occuparsi del cartaceo saranno solo in 15. Proviamo a vedere la proporzione cartaceo-digitale nelle grandi testate italiane…
Certo ha ragione Emily Bell, che in un commento al più importante documento sui media rivelato quest’anno – il documento sull’innovazione del New York Times – avverte:
“Doing journalism and keeping up with what is happening within journalism and the wider digital ecosystem at the same time is impossible“.
Anche altrove si taglia, ma c’è comunque almeno una spinta, un’idea, una continua sperimentazione, una visione nonostante le resistenze psicologiche e culturali.
Da noi, come detto, soprattutto si taglia, si licenzia, si contengono i costi, si prepensionano i giornalisti, cercando poi di farli rientrare come collaboratori; e quando lo si fa con fondi pubblici, grazie ai contributi all’editoria, vuol dire che il prepensionamento è a carico del contribuente. Gli stessi giornalisti delle testate, da quello che possiamo leggere nei comunicati dei vari comitati di redazione, chiedono di sapere quali siano le strategie, le visioni imprenditoriali oltre i tagli.
Vale la pena riportare un passaggio abbastanza drammatico tratto dal libro Morte e resurrezione dei giornali di Enrico Pedemonte, ex giornalista del Gruppo L’Espresso, che racconta la sua esperienza di “prepensionato” (a sua insaputa) nel 2008:
“L’iter per stabilire i dettagli dei prepensionamenti durò parecchi mesi. Tutto avvenne nel silenzio e nella disinformazione del pubblico. Mi chiesi che cosa sarebbe successo se una vicenda simile avesse coinvolto un’altra categoria: i lavoratori delle assicurazioni, i bancari, i metalmeccanici. Immaginate la reazione del pubblico se i giornali avessero scritto che venivano distribuiti soldi pubblici a tutte le aziende di un determinato comparto produttivo (anche a quello con i conti in nero) e che in alcuni casi le aziende, per convincere i lavoratori a votare a favore degli accordi di prepensionamento (pagato in parte dallo Stato), aumentavano gli stipendi a quelli che restavano…
Quello che mi ha colpito – e continua a indignarmi – è il fatto che i giornali abbiano sostanzialmente tenuto nascosto l’accordo sindacale ai lettori con un’operazione di censura… La notizia degli accordi sindacali che sono costati molte decine di milioni di euro alle casse pubbliche, sono state relegate in illeggibili comunicati pubblicati a fondo pagina. D’altra parte anche della crisi storica della carta stampata non si parla… Il possibile tracollo di un settore chiave della democrazia è trattato alla stregua di una vicenda privata di un gruppo di editori e di una corporazione di lavoratori [aggiungo io: però leggiamo continuamente che sono tutti primi in edicola e sul digitale per diffusione. Ognuno interpreta i dati come vuole e pubblica articoli trionfalistici di volta in volta]”.
La crisi che stiamo vivendo impone un dibattito aperto, trasparente, senza censure, senza paura. La crisi dei giornali non è un dramma privato di editori e giornalisti, ma un problema della società civile. Che dovrebbe riappropriarsene. (Pedemonte)
Bisognerebbe chiedersi prima di tutto se questo giornalismo risponde ai bisogni della società che cambia. E invece, si tornano a chiedere i contributi pubblici nell’ottica di una crisi vista esclusivamente come crisi economica, e non di sistema, non culturale.
Nell’era del post-industrial journalism – che certifica la crisi della linearità del business editoriale, del processo produttivo e della passività dell’audience – c’è chi propone di salvare la stampa con una tassa sul web.
Ho letto il documento dell’audizione della FNSI alla Commissione cultura della Camera sulla proposta di abolizione dei contributi pubblici all’editoria. Qualcuno deve aver ibernato 20, 30 anni fa i rappresentanti del sindacato capitanati da Franco Siddi, scongelandoli per l’occasione. Due passaggi mi hanno colpito in modo particolare, anche per il linguaggio che forse si sposa perfettamente con il contenuto. Colpito in negativo, perché sono la spia di quanto poco queste istituzioni stiano capendo del terremoto in atto:
“In merito vogliamo porre l’accento su un fenomeno ormai largamente diffuso, che registra la riproduzione mediante fotocopiatura, con diffusione audio televisiva o con elaborazione elettronica di articoli di giornali quotidiani e periodici, attraverso la confezione di rassegne stampa, che non ha alcuna regolamentazione normativa nel quadro dell’ordinamento giuridico vigente. Questa libera utilizzazione determina un consistente danno economico sia alle aziende editrici sia ai giornalisti.
La rete, con i social e i blogger, non copre la domanda di informazione professionale e di giornalismo esercitato secondo i canoni etici universali“.
Proprio discutendo di questo durante una conversazione su Facebook è intervenuto duramente Enrico Mentana, direttore del TgLA7:
“Il problema di fondo – all’osso e brutalmente – è che l’informazione è diventata un mercato chiuso: prodotta da anziani per anziani. Garanzie tutele incentivi e ammortizzatori ruotano tutti attorno allo sforzo di condurre in porto l’ultima traversata del Titanic. Sindacato, Ordine, Fieg e politica fanno l’interesse di chi è dentro e sopravvive. Una catena di negozi di antiquariato: mentre fuori prospera l’Ikea“.
Fine prima parte, continua.
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Scusate: Faccio fatica a *non* confondere un articolo ufficiale con uno di propaganda o parodia.
La farei ancora più semplice: “Noialtri ggiovani (ma dove) di Internet” vediamo che i giornali online, quelli storici, offrono poche notizie gratis, mentre il resto dei siti non collegati ai giornali lo fa. Quando lo fanno, sembrano quasi dei surrogati, con tantissima nera, sensazionalismo, moda, pettegolezzo, toni che in passato (diec’anni, non di più) non si vedevano nemmeno nella TV del pomeriggio, o al massimo solo in programmi che venivano guardati apposta per quell’impostazione (dunque era un atteggiamento specifico, voluto, non generale). Ora sbircio fra i contenuti a pagamento: sono di qualità ordinaria, circa come un giornale cartaceo: troppo poco. Inoltre ci sono le prime righe e poi un blocco, pratica irritante che non ben dispone il lettore, sa di promozione goffa e di promessa inconsistente, di clickbait, per dirlo in modo “nuovo”. Ed è il contenuto privilegiato, premium, in un mondo dove i più riescono a vivere di soli ricavi collaterali e/o pubblicità. Troppo poco per abbonarsi. Non hai nemmeno una copia fisica! E intanto gira pure, in implicito, fra giornalisti forse non verdissimi, un’idea che io, lo ammetto, suppongo provocatoriamente: internet sarebbe il luogo dei tribuni e della caciara, dei fancazzisti e dei pelouches, delle immagini impressionanti e delle battutacce. E loro, nei toni dei titoli, forse vorrebbero adeguarsi a questa caricatura/pregiudizio parziale. Col risultato che scontentano sia chi vorrebbe una reinterpretazione del “giornale fatto bene” sia chi vuole “sangue&arena”, perché ne trova di più e più fresco già altrove. Un po’ il problema di tanti partiti storici o di tante cose storiche ultimamente: si auto-azzoppano tentando di imitare lo stile (opposto) di chi li sta picconando… Davvero, c’è incoerenza, c’è un voler tutto e il contrario, e l’identità del prodotto soffre tanto. A volte, e da rapida ricerca già altri l’hanno notato scrivendo sul tema, faccio fatica a confondere articoli comico-parodici, comizi scritti online (volutamente parzialissimi), semi-bufale per pubblico “d’ambiente” (ambientalisti estremi, complottisti finanziari, studiosi di ufo, fanatici di fumetti d’essai e chi più ne ha…) e…testate nazionali. Non va bene. Quando un media inizia a inseguire frammenti di audiences a caso, oppure propone lamenti nostalgici e retrospettivi “per i nostri”, facendo metanarrativa, è una fine, non una risposta. Speriamo cambi l’aria.
La cosa incredibile è che fai parlare, cara Arianna, proprio giornalisti del mainstream, gli stessi che hanno appiattito le notizie su delle “veline” mai dimostrate da nessuna prova reale (vedi il Pulitzer per l’intrusione informatica russa nelle elezioni presidenziali USA). Gli stessi che hanno dimenticato l’inchiesta (e la deontologia), l’obiettività, la ricerca di fonti e riscontri.
E che tagliano fuori i vari Hersh o Anderson perché si discostano dal coro imposto dai poteri politici/economici d’Oltreoceano.
Forse, semplicemente, la gente si è -anche- stufata di leggere o vedere la stessa notizia senza un minimo di dubbio o contraddittorio su tutti i giornali e sulle televisioni.