Giudizio per cause concernenti l’attività in montagna

Lettera aperta a Raffaele Guariniello
Procura di Torino

a tema: Giudizio in sede civile e sede penale per cause concernenti l’attività in montagna

Egregio dottor Raffaele Guariniello,
Le sottoponiamo le nostre riflessioni in fatto di giudizio in sede civile e sede penale per cause concernenti l’attività in montagna. Veda nell’allegato pdf.
Chiariamo subito che non Le scriviamo per auspicare una “giustizia speciale”, o “tribunale della montagna”, che conosca la materia e i principi di fondo evidenziati nella lettera.
Le scriviamo invece, come potremmo scrivere a qualunque altro magistrato, perché riteniamo che Lei personalmente debba essere messo a conoscenza della filosofia di coloro che reputano essenziale forma di libertà il muoversi su terreno di avventura montana.
Siamo a disposizione per qualunque chiarimento o anche per un incontro.
Grazie dell’attenzione

Per l’Osservatorio per la Libertà in Montagna e Alpinismo (riconosciuto dal Club Alpino Italiano), il portavoce Alessandro Gogna

Raffaele Guariniello
++ DOPING: TRAFFICO SOSTANZE NEL TORINESE,ARRESTI DEI NAS ++

 

GIUDIZIO IN SEDE CIVILE E SEDE PENALE PER CAUSE CONCERNENTI L’ATTIVITA’ IN MONTAGNA
Libertà e consapevolezza
Esiste purtroppo la concezione che libertà significhi facoltà di vivere emozioni ed esperienze senza limiti, sminuendo l’esistenza di pericoli e rischi: è la concezione dell’odierno consumatore, per il quale la montagna non è più il luogo della formazione, del confronto con se stessi, ma quello del puro godimento rapido, effimero e garantito.

La libertà in alpinismo è cosa diversa: è facoltà di determinare in autonomia le scelte che ci riguardano, sia come singoli che come componenti di una collettività, ma con la consapevolezza del rischio che si corre e dei danni che possono derivarne ad altri.

La libertà è un diritto essenziale di ogni persona, l’alpinismo e la montagna sono una delle massime espressioni di libertà, perché le attività alpinistiche per loro natura non possono rispondere a regole prefissate come avviene negli sport classici. L’Osservatorio della Libertà in Montagna individua la libertà come ricerca e conoscenza di sé e dei propri limiti, come espressione alta di chi sa mettere in gioco se stesso con la consapevolezza dei propri mezzi e con la conoscenza del terreno. Libertà è ricerca di evoluzione individuale che va di pari passo con l’aumento di consapevolezza. Un terreno sul quale l’uomo si è sempre confrontato, con esiti diversi, ma senza il quale la vita sarebbe meno ricca, la letteratura più povera, la geografia dell’emozione una piccola collina. E senza del quale non avrebbe senso neppure il mito di Ulisse.

Libertà come diritto
Potremmo partire da una citazione di John Stuart Mill: “Ogni vincolo in quanto vincolo è un male” (1859). Detto così può sembrare banale e anarchico, ma noi crediamo di interpretare correttamente il pensiero di Mill quando affermiamo di non voler rifuggire le regole ma soltanto di volerle declinate col buon senso. Il libero accesso alla montagna è un diritto, ma ha dignità solo se accompagnato da un lungo percorso di autodisciplina e consapevolezza. Libertà in montagna è, dunque, libertà di movimento arricchita dall’esercizio della consapevolezza: che vuol dire preparazione, disciplina, consapevolezza del limite, e, solo secondariamente, raggiungimento di una prestazione. Libertà è anche quella di rinunciare, avere il coraggio di tornare indietro se i presupposti non sono sufficienti alla progressione.
Per questi motivi l’attività alpinistica è e deve rimanere libera, pura e consapevole, e non deve essere confusa con l’attività sportiva ispirata invece a criteri di pratica “sicura”.

Pericolo e rischio in montagna
I pericoli e i rischi vengono dalla disparità tra persona e montagna, come per mari e deserti. Sono elementi costitutivi dell’alpinismo e fondanti la libertà di scelta. Vanno legati all’esercizio della responsabilità e la domanda che dobbiamo porci è: quale rischio mi posso permettere in questa situazione? La valutazione e la successiva accettazione del rischio, oltre che aspetto costitutivo dell’esperienza alpinistica, sono elementi positivi e consentono il percorso di evoluzione personale.

Il diritto al rischio è valido solo quando è frutto di una scelta consapevole e rispettosa degli altri, sapendo che non esistono la pretesa e la certezza di essere soccorsi sempre, comunque e in ogni condizione.

Méribel, tre le due piste è il luogo dell’incidente a Michael Schumacher
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Sicurezza
Si è sicuri solo con il giusto mix di sicurezza interiore (preparazione e consapevolezza) e, se del caso, di dotazione di un adeguato equipaggiamento.
La sicurezza totale è una pura illusione della società assistenzialista e consumista, non esiste e non esisterà mai, né in alpinismo né in nessun’altra attività umana, e ogni alpinista sceglie liberamente e consapevolmente di prendersi carico della componente inalienabile di rischio legata al fare alpinismo. L’impostazione attuale della società è improntata all’ossessiva cultura della sicurezza, la société sécuritaire, come scrivono i francesi. La società “sicuritaria” è anche il risultato di una motivazione positiva, ovvero dell’idea che la società si faccia carico della sicurezza dei suoi membri. Sicurezza che è importantissima in tutti i luoghi, in tutte le attività dove le persone si trovano a lavorare, studiare, farsi curare, soggiornare, circolare. Esistono però spazi in cui la persona può e deve muoversi liberamente con la coscienza del rischio e dei propri limiti, con l’attenzione agli altri e all’ambiente in cui si muove: perciò, in questo ambito, la cultura della sicurezza totale si manifesta in tutto il suo disvalore. La montagna è uno dei pochi spazi che consentono ancora l’espressione di una ricerca personale in cui si mette in gioco la libertà della scelta. Questi spazi, questa libertà, questa intera dimensione non vengono però accettati dalla società sicuritaria. Scrive l’antropologo Annibale Salsa che oggi noi “assistiamo a un vero e proprio eccesso, un delirio della sicurezza” e continua “la ricerca della sicurezza è la psicopatologia della società moderna”.
L’equipaggiamento e le attrezzature tecnologiche sono validi supporti, ma non costituiscono da soli garanzia di sicurezza e non possono essere indiscriminatamente o acriticamente imposti: conoscenza, esperienza, buon senso e istintualità sono ancora alla base della consapevolezza e quindi indispensabili.

Differenza tra responsabilità e consapevolezza
In italiano, ma anche in altre lingue, la parola “responsabilità” ha un doppio significato. Nella prima accezione si riscontrano sostanzialità e sfumature che abbiamo cercato di esprimere usando la parola “consapevolezza”; nella seconda, troviamo un significato molto diverso, quello della responsabilità giuridica.

Consapevolezza e responsabilità giuridica sono dunque assai legate, anche se non sono la stessa cosa: la libertà è resa più significativa dal poter effettuare una scelta sapendo che si può essere chiamati a rispondere di essa, e di contro l’esercizio della libertà può abituare alla responsabilità delle proprie azioni.

Ha senso, allora, un luogo nel quale questa responsabilità possa venire in discussione, perché non basta il così detto “foro interiore”: se siamo responsabili nei confronti anche degli altri, allora bisogna che gli altri possano fare appello a questa nostra responsabilità. In Italia oggi (ma anche altrove) non è normale una giustizia “corporativa”, e cioè propria delle categorie interessate, quale ad esempio esisteva prima dell’età moderna; i probiviri del CAI si occupano solo di controversie interne all’associazione, ma non possono andare oltre e trattare di rapporti che non riguardano quella limitata materia. L’opinione pubblica, e prima ancora la Costituzione che afferma la necessità di un luogo ove possano essere fatti valere i diritti di ciascuno, confermano che non possono esistere “luoghi franchi”; ed allora non resta che la giustizia ordinaria quale luogo di tali possibili controversie.

Qui sembra che possiamo essere d’accordo, però attenzione: il punto è dove si pone il limite per un’azione legale nei confronti di un atto di cui l’alpinista è responsabile. Il concetto di consapevolezza si mescola fino a un certo punto con quello di responsabilità giuridica, e non deve essere giustificazione per una “punizione” per chi esagera.

Un “vizio” della società moderna è la ricerca “obbligatoria” di un responsabile per ogni cosa che accade. Ad esempio la caduta sassi in montagna esisterà sempre e non è eludibile. Il modello statunitense di far causa contro qualcuno per qualsiasi cosa accada, con lo scopo di farsi risarcire, sta ormai radicandosi anche nella nostra società e nel “mercato della sicurezza” assistiamo a denunce e richieste di danni che sono assurde persino nella loro impostazione. Simili comportamenti non sono utili a nessuno, salvo agli avvocati: ingolfano i tribunali, e soprattutto mettono a dura prova la voglia dei volontari nel continuare a dedicare il proprio tempo libero per il bene della collettività. Perché anche per loro le leggi tendono a essere interpretate in modo cieco, con il risultato di castrare qualunque buona iniziativa, per i giovani, per i diversamente abili, per i disadattati.

Valle di Lei, Madesimo
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La responsabilità giuridica
Quando si dice responsabilità si intende riconoscimento della colpa e punizione  per ciò che si è fatto; ma va subito detto che questo vale solo per quella penale, perché quella civile ha una vocazione distributiva e solidarista. Si ritiene che se qualcuno ha subito un danno, occorre veder come fare per non far rimanere quel danno solo a suo carico, almeno sotto il profilo patrimoniale. Questo tipo di responsabilità sfiora a volte l’addebito oggettivo: si è responsabili perché qualche cosa è successo, qualcuno si è fatto male; si crea il meccanismo della compensazione economica di ogni tipo di danno. In quella per cose in custodia (tra esse a volte possono esserci i sentieri, o le vie ferrate) non si è più solo responsabili per l’incuria nella manutenzione che ha determinato una insidia imprevista, ma per tutti gli infortuni occorsi nell’uso della cosa, purché il danneggiato non ne abbia fatto un uso improprio.

Ma almeno per la responsabilità civile ci si assicura, e quindi c’è un’assicurazione che paga; e qui stiamo parlando non solo della responsabilità del singolo, ma anche delle istituzioni e delle imprese che organizzano e gestiscono il territorio a vario titolo; per tale via, l’assicurazione che queste hanno contratto copre la responsabilità civile oppure il costo ricadrà sulla collettività, la quale però comunque riceve altri benefici ben superiori (ad esempio turistici). Nel penale non è così, ognuno risponde per se stesso: la responsabilità penale è personale. E occorre una precisazione. Nel processo penale il problema non è tanto la condanna finale, specie per reati colposi; i processi penali sembra talvolta che si facciano prevalentemente per far soffrire qualcuno: è lo stesso processo a costituire una pena, e con esso la sua pubblica notizia, l’angoscia, le ore passate nei corridoi dagli imputati ma anche dai testi, dalle parti offese.

Il problema è dunque, per l’Osservatorio, cercare di fare in modo che il suddetto “limite per un’azione penale” venga definito in una sede tale per cui la scelta non sia lasciata esclusivamente a una giustizia comune (per essa intendendosi quella che valuta qualsiasi situazione nella stessa maniera).

La responsabilità collegata alla frequentazione della montagna può avere tre principali aspetti: 1) nei riguardi di compartecipi o di chi poi direttamente resterà infortunato; 2) installazione, manutenzione o controllo di sentieri o vie attrezzate o ferrate; e infine 3) esposizione a pericoli degli eventuali soccorritori.

Sul primo vi è ormai casistica anche in sede penale. Sul secondo punto le decisioni note sono sentenze civili; sul terzo non ne risultano di precise, ma le ultime vicende natalizie 2013-2014 provano che lì si sta andando allo scontro.
Nella società e in diritto non si può proibire il rischio.
In questo senso, restrittivamente, dovrebbe essere proibito lo stesso Soccorso Alpino, che invece è costituito da professionisti e volontari.
Però, già per Mill lo Stato non si doveva ingerire nelle attività degli individui, salvo che arrechino danno ad altri; ma, tra questi ultimi, non considerava coloro che consentano ad una partecipazione consapevole e volontaria.
E noi oggi dobbiamo considerare, come era normale in passato, che il mondo degli alpinisti è per sua natura solidaristico, è orgoglioso di esserlo, non si sottrae e non recrimina neppure di fronte alle conseguenze patite per prestare soccorso. Vuole il legislatore l’abolizione del Soccorso Alpino? Vedrebbe che putiferio!

In materia, i giudici e prima ancora i pubblici ministeri sono portatori di nozioni e conoscenze tutt’altro che approfondite e omogenee; la comprensione dei complessi elementi che intervengono nella formulazione di una scelta di chi frequenta la montagna non sempre è completa; avviene così che condotte, che per alcuni sono esenti da responsabilità, per altri invece non lo sono; purtroppo, in molti casi non vi è alcuna linearità nella decisione. Ma questo non può meravigliare, perché in processi come questi cambiano i livelli non solo di conoscenza della materia, ma anche di disponibilità individuale ad accettare la logica della previsione e della inevitabilità di un pericolo.

Telemark fuoripista a Lech. Foto: Leo Himsl

telemarkskiing lech 2005 , arlberg

Gli incidenti da valanga, aspetti legislativi
Per la legislazione attuale il reato di aver procurato una valanga è stato introdotto (per tutt’altri contesti!) dal nostro codice penale del 1930; quindi un magistrato deve far rispettare la norma, ma in certi casi la cosa può apparire ridicola. Non c’è stazione di turismo invernale che non pubblicizzi il proprio territorio con immagini e filmati di entusiasmanti discese fuoripista, magari pure a cavallo di valanghe provocate. Caso mai ci sarebbe da chiedersi come mai un articolo del c.p. sia stato bellamente ignorato dai tribunali italiani per oltre 60 anni, forse perché la valanga non era di moda? O nel frattempo non c’erano state vittime in valanga?

Probabilmente la prima impugnazione importante in merito fu del procuratore della Repubblica di Sondrio in occasione della valanga del Vallecetta (inizio anni 2000). Nessuna vittima, nessun ferito, neppure allertato il servizio di soccorso, ma 8 mesi di reclusione ai 5 sciatori che erano nei paraggi (non solo a chi ha provocato la slavina, certamente uno solo).
Risulta evidente e alla luce delle conoscenze attuali che la norma è a dir poco obsoleta e andrebbe certamente rivista.

Gli incidenti da valanga, aspetti culturali
E’ fuori di dubbio che l’attività in pista deve essere al riparo da pericoli oggettivi così come previsto dalla legislazione nazionale e da quelle regionali e provinciali. L’utente della stazione sciistica ha acquistato un servizio che comprende, tra le altre cose, la propria incolumità sulle piste da sci, almeno per quanto concerne quei pericoli. Chi percorre una pista da sci si deve solo preoccupare di non arrecare danno agli altri con la sua condotta.
Perché si tratta di attività sportiva. Sarebbe come dire che se vado a nuotare in piscina non sono tenuto a fare l’analisi dell’acqua prima di tuffarmi. La stessa pista da sci è una struttura sportiva.

Se invece abbandoniamo la pista, non importa se di poco o di tanto, dobbiamo preoccuparci da noi. Non esiste più nessuno (persona, società, Ente pubblico) che ci debba imporre la sicurezza nostra e di chi vi opera come noi e non potrebbe neanche essere altrimenti essendo impraticabile controllare, sorvegliare, vigilare su tutto l’ambiente naturale.
Neppure è dignitoso che norme e sanzioni siano usate solo per spauracchio (allora dovrebbe essere prima punito anche chi nella sostanza non le fa rispettare).
Qui entrano in gioco le conoscenze delle persone che praticano la montagna, la consapevolezza; se qualcuno non ha e non pratica le conoscenze adeguate probabilmente andrà a mettersi nei guai.

Conclusioni
Bisogna far passare il concetto che scendere un pendio innevato lungo una pista da sci o lontano da essa sono due cose culturalmente opposte, certamente compatibili tra di loro, ma da non confondere.

Sulla pista da sci si fa attività sportiva, altrove no! Il restante è compreso in tutte le altre attività d’avventura in montagna, estive e invernali.

Chi invece si avvale degli impianti di risalita e poi scende sopra una pista confonde le due attività, e spesso non basta neppure esporre cartelli di divieto. E’ pronto a essere lui la prima vittima “inconsapevole” di se stesso.

Dunque dobbiamo spendere ogni energia nel campo della formazione e dell’informazione corretta, non nel campo del divieto e della punizione.

Dobbiamo fare in modo di essere informati sulle modalità di quella grande parte di incidenti che si sono auto-risolti (senza intervento di soccorso esterno) ma che per paura delle conseguenze penali vengono tenuti nascosti dai coinvolti.

Dobbiamo diminuire il numero degli inconsapevoli, non aumentare il numero dei dissuasi o dei puniti.

Per Osservatorio della Libertà in Montagna e in Alpinismo
Il portavoce: Alessandro Gogna

Milano, 21 febbraio 2014

Il testo integrale in versione pdf è scaricabile qui.

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Giudizio per cause concernenti l’attività in montagna ultima modifica: 2014-02-21T06:30:35+01:00 da GognaBlog

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36 pensieri su “Giudizio per cause concernenti l’attività in montagna”

  1. Riaffermo la mia idea di liberta’ decisionale tenendo ben presente che NESSUN soccorso è ” dovuto” e che nessuna rete telefonica è “obbligata” Qualsiasi fruitore della montagna, sia esso Escursionista che Alpinista che Scialpinista DEVE essere consapevole degli eventuali rischi della sua azione e comportarsi di conseguenza!! e non, come purtropo ultimamente accade, Rischiare sapendo che ” qualcuno lo leverà dai guai” Ciò deve essere l’ eccezione e NON la regola. Tutti devono essere ” in primis” automomi ed autosufficienti!!!!!!

  2. Purtroppo il mito della sicurezza totale minaccia la responsabilità e la libertà dei cittadini anche al mare. In questi giorni il sindaco di Ventotene è stato condannato per un incidente mortale sulla spiaggia provocato dalla caduta di alcuni massi. Certo la consapevolezza dei bagnanti è modesta soprattutto di fronte alle grandi pareti che incombono sul mare, ma è il frutto di un oblio disastroso della natura e delle sue leggi. Anche in questo caso la società ha bisogno di una grande opera di rieducazione sui limiti della tecnica e delle capacità umane.
    N

  3. Da Carlo Bonardi: “Gli infortuni verificatisi nell’esercizio di attività sportive lecite, siano esse riconosciute dal diritto, siano esse consacrate dalla consuetudine, non sono punibili. In particolare, per quanto concerne l’attività sportiva in montagna, è la consuetudine che esclude la responsabilità solidale dei compartecipi di un’azione richiesta [n.d.r., presumo: rischiosa], in quanto – se da una parte giuoca, come fattore psicologico comune, la cosidetta induzione reciproca – dall’altra rimangono pur sempre personali e libere la volontà e l’iniziativa del cimento”.

    Esempi che vengono in mente:
    1) il pugile che procura lesioni (o morte, è successo in più casi) all’avversario;
    2) la morte di Marco Simoncelli sotto la moto di un altro concorrente;
    3) l’infortunio di Alex Zanardi;
    ecc. ecc.

    Alberto Bianchi

  4. Condivido quanto ha scritto Giancarlo Del Zotto, salvo per la necessità di approfondimenti sul punto che ha bene isolato Bianchi.
    Al vasto pubblico non è chiaro che se si cagiona la caduta di una valanga ove si sa che non c’è nessuno deve essere esclusa la sussistenza del relativo reato; se almeno tra noi qui arriviamo, è già un primo punto fermo ed un risultato (casomai appunto il problema è di farlo accettare ai non alpinisti).
    In argomento, mi permetto di trascriverVi un passo (i giuristi sanno di cosa parlo, ma serve per gli altri): nel “Trattato di diritto penale italiano” di Vincenzo Manzini (al momento dispongo solo della V^ versione, aggiornata al 1983 da Nuvolone e Pisapia padre, ed. Utet, vol. VI, pag. 288, cioè ben dopo la morte dell’Autore: non riesco a verificare se il passo risalga proprio a Manzini), si trova questa frase:
    “Valanga è gran volume di neve formatasi per lo staccamento di una massa più o meno grande da un punto elevato della montagna, avvallantesi precipitosamente e crescente progressivamente per altra neve convogliata durante il percorso. Il concetto di ‘valanga’, quando sia propriamente inteso, include in sé quello di comune pericolo, a meno che essa si verifichi in una regione del tutto deserta e inaccessibile, così da escludere la possibilità di ogni pericolo anche per alpinisti od altri passanti occasionali”.
    Manzini fu uno dei giuristi materialmente autori del Codice penale c.d. Rocco del 1930, quello che a tutt’ora regola questa materia per il diritto penale.
    Orbene: il fatto che uno degli Autori del Codice penale (come di una qualsiasi legge) la pensasse in una certa maniera non vuole dire che la legge debba essere interpretata ed applicata in quello stesso senso, tantomeno a seguito del passare di molti anni; cionondimeno, l’indicazione di Manzini è utile, anche se non sufficiente, ai fini alpinistici.
    Detta in soldoni, sta almeno a significare che non ogni cosa nevosa che sia fatta cadere deve essere intesa come valanga ai sensi del Codice penale, ovverosia, che occorrono dei distinguo (il caso plateale è quello delle valanghe fatte volontariamente staccare per fini di bonifica: se ciò fosse reato, dovrebbero essere messi in prigione tutti coloro che dispongono o provvedono a tali operazioni).
    Come ho accennato, però, la frase di Manzini a mio parere non è ancora per noi sufficiente.
    Esatto non punire il distacco di valanghe non pericolose per una collettività indistinta (questo voleva dire “reato di comune pericolo”); e, per converso, comprensibile se non doveroso che vi siano indagini e magari anche condanne per il caso in cui dette valanghe siano fatte cadere ad esempio su una pista da sci.
    Resta però fuori un problema, quello più interessante per gli sci-alpinisti lontani dalle piste battute: che succede se una valanga (di quelle caratteristiche di dimensioni e pericolosità) è in grado di investire (o magari e peggio ancora investe davvero: qui potrebbero concorrere anche i reati di omicidio o lesioni personali colpose) altri sci-alpinisti oltre a quello che l’ha cagionata (intendasi: o stretti compagni della sua cordata o comitiva, od altri sci-alpinisti separatamente impegnati nella stessa zona interessata al pericolo di quella caduta – tipicamente più sotto – visibili o meno dall’alto)?
    Questo è il problema più rilevante ora sul tappeto, e mi pare che il mondo alpinistico dovrebbe impegnarsi a farlo approfondire in diritto onde essere in grado di poter prospettare ai futuri magistrati che se ne dovessero occupare soluzioni ragionevolmente sostenibili (la questione potrebbe rilevare anche per materie analoghe, esempio la caduta di sassi su chi ci segue).
    Qui occorrerebbero approfondimenti su altri aspetti di rilievo, e magari ne parleremo.
    Intanto un’indicazione utile (la solita!) ritengo possa essere quella desumibile dalla massima della Cassazione penale del 1957 che più volte ho citato o riportato sul Gogna Blog a commento dello scritto dell’Ossevatorio a Guariniello, che per comodità qui ancora riporto (da sentenza Sezione II, 27 novembre 1957, Cambiaso, in Rivista penale 1958, II, 761, e altrove):
    “Gli infortuni verificatisi nell’esercizio di attività sportive lecite, siano esse riconosciute dal diritto, siano esse consacrate dalla consuetudine, non sono punibili. In particolare, per quanto concerne l’attività sportiva in montagna, è la consuetudine che esclude la responsabilità solidale dei compartecipi di un’azione richiesta [n.d.r., presumo: rischiosa], in quanto – se da una parte giuoca, come fattore psicologico comune, la cosiddetta induzione reciproca – dall’altra rimangono pur sempre personali e libere la volontà e l’iniziativa del cimento”.
    Come vedeTe (in verità tale massima non si riferiva al tema delle valanghe ma, più in generale, a quello delle attività sportive, comunque in tema alpinismo/escursionismo) la giurisprudenza tradizionale riconosceva che di fronte ad un rischio patito da chi vi com-partecipava liberamente non si deve risponderne penalmente, e la soluzione mi pare in sé riguardare anche appunto il caso di chi sia scampato dopo aver messo in pericolo o magari pure ammazzato anche suoi compartecipi, più (compagni cordata o gruppo) o meno diretti (altri sci-alpinisti gravitanti nella zona).
    Oggi come oggi non è affatto detto che questo principio possa essere riaffermato, anzi pare si vada nel senso ad esso opposto; ma è qui che gli alpinisti devono battere, anche relativamente a quelli potenzialmente in pericolo o travolti da valanghe provocate da altri: se pure i messi in pericolo o travolti erano consapevoli, si dovrebbe affermare che avevano avuto “personali e libere la volontà e l’iniziativa del cimento”.
    P.s.: leggendo i vari interventi sul Gogna Blog, su questo specifico punto – che, al di là delle emotività e delle contumelie, è quello che conta – non ho trovato osservazioni specifiche. Non me ne dolgo, ma è un brutto segno: vuol dire che io non mi spiego bene e/o che proprio il profilo centrale è difficile da cogliere per l’alpinista non giurista (nella mia idea, ho sempre sostenuto che per chi fa alpinismo sarebbe meglio lasciare a casa leggi ed avvocati; ma, ormai, qui occorre difendersi).

  5. Commento di Alberto Bianchi
    Con riguardo a questi due aspetti.
    1) “Analoghe violazioni possono verificarsi – e si sono verificate ­- in alta montagna in luoghi isolati ma notoriamente frequentati da sci alpinisti.
    Se la valanga si scarica su questi percorsi, evento che poi comporta un’onerosa ricerca di eventuali travolti da parte del Soccorso Alpino, si configura certamente il reato di pericolo e la giustizia avvia le indagini sulle eventuali responsabilità (Giancarlo Del Zotto)”:
    Chiedo se non dovrebbe essere cura di chi sta piu’ in basso tenere conto della possibilita’ che sopra qualcuno stacchi una valanga (anche perche’ il qualcuno potrebbe essere uno stambecco difficilmente perseguibile penalmente). In piu’ c’e anche la possibilita’ che a innescare la valanga sia chi sta sotto, ad esempio caricando il piede del pendio innevato, e la cosa mi sembra ancora piu’ complicata.

    2) “Se invece la valanga, pur incautamente staccata, si scarica su una parete verticale o su un tortuoso canalone non percorso né percorribile da alcuno, non vi è alcun reato perché nessuno è stato messo in pericolo (Giancarlo Del Zotto)”:
    In alpinismo (e penso soprattutto all’arrampicata su roccia o ghiaccio o misto, ma anche scialpinismo) non esistono pareti verticali o tortuosi canaloni potenzialmente non percorribili da alcuno (il bello sta proprio li’!), ma credo che nessuno si sia sentito in colpa se, arrampicando, involontariamente ha fatto cadere un sasso o una scaglia di ghiaccio che poteva colpire qualcuno o ha innescato una valanga (ci sono anche d’estate! su certe vie di ghiaccio).
    Alberto Bianchi

  6. Commento di Giancarlo Del Zotto:
    Benché questa non sia la sede più opportuna per dibattiti giuridici, la lettera a Guariniello è un’occasione per chiarirci alcune idee mentre gli approfondimenti potranno proseguire fra gli addetti ai lavori.
    Mi limiterò perciò ad aggiungere alcune considerazioni a quanto ha detto l’amico Bonardi il cui commento è pienamente condivisibile.
    1. L’accertamento di eventuali responsabilità negli incidenti di montagna va fatto “in concreto” caso per caso, in base alle reali modalità dell’incidente.
    Assistiamo invece, ogni volta, a campagne mediatiche che con notizie approssimative ed emozionali esaltano colpe spesso inesistenti condizionando l’opinione pubblica a pensare alla montagna solo come luogo di pericoli e di insidie.
    Anche questo condizionamento è una lesione alla libertà e l’Osservatorio farebbe opera pregevole a contestare questo sistema contrapponendo i valori della cultura della montagna e l’esigenza di rispettare le regole della prudenza.

    2. Quanto al reato colposo di distacco di valanga va detto che appartiene ai reati contro l’incolumità pubblica ed è accomunato all’incendio, all’inondazione, alle frane agli eventi cioè che possono mettere in pericolo abitazioni, strade di comunicazione, piste da sci ecc., luoghi usualmente frequentati da persone (art. 423, 426 e segg. del codice penale). Se il pericolo si traduce nella morte di persone o in lesioni si configurano anche i reati di omicidio colposo o di lesioni colpose.
    E’ questo l’orientamento prevalente attuale di dottrina e giurisprudenza e la casistica, in particolare in questa stagione ricca di neve, è purtroppo molto ampia.
    Ricordiamo brevemente, il distacco di valanghe all’interno o in prossimità di aree sciistiche per la pratica sempre più diffusa del fuori pista, in violazione delle più comuni regole di prudenza.
    Analoghe violazioni possono verificarsi – e si sono verificate ¬- in alta montagna in luoghi isolati ma notoriamente frequentati da sci alpinisti.
    Se la valanga si scarica su questi percorsi, evento che poi comporta un’onerosa ricerca di eventuali travolti da parte del Soccorso Alpino, si configura certamente il reato di pericolo e la giustizia avvia le indagini sulle eventuali responsabilità.
    Se invece la valanga, pur incautamente staccata, si scarica su una parete verticale o su un tortuoso canalone non percorso né percorribile da alcuno, non vi è alcun reato perché nessuno è stato messo in pericolo.
    Anche nella vicenda Caselli bisognerebbe conoscere, in concreto, le modalità dell’incidente e gli accertamenti svolti in sede penale, di cui non disponiamo.
    Mi sembra, comunque, che il Proc. Guariniello abbia semplicemente fatto il suo dovere.
    Concludendo credo che sia importante evidenziare la difesa e l’esercizio di una libertà intelligente che rispetti le regole della prudenza e dell’esperienza a tutela della vita.

    Giancarlo Del Zotto

  7. Al riguardo dei fatti che hanno causato la stesura della lettera a Guariniello, possiamo ricordare che il 9 dicembre 2012, Simone Caselli, 39 anni di Modena, moriva sepolto sotto una valanga mentre sciava fuori pista sotto il monte Fraitève a Sauze d’Oulx. Con lui c’erano tre amici che miracolosamente si sono salvati ma per i quali, oggi, è stato chiesto il processo per omicidio colposo, oltre che per valanga colposa. Se il giudice per le indagini preliminari concorderà con la tesi dell’accusa del pubblico ministero Emanuela Pedrotta, per la prima volta gli accompagnatori scampati a un incidente in montagna saranno processati come responsabili della morte di una persona del gruppo rimastane invece vittima.

    Chiarimento urgente (da Carlo Bonardi):
    Pur avendo condiviso la lettera a Guariniello qui pubblicata, non conosco i fatti precedenti e lo stato dei relativi procedimenti penali. Ma, almeno in astratto, non c’è proprio da stupirsi che, insieme ad un’imputazione di valanga colposa (art. 449, in relazione agli artt. 426-43 codice penale) sia levata anche quella di omicidio colposo (art. 589 c.p.), “novità” o meno che sia.
    Infatti, non mi stanco mai di ripeterlo, il delitto di valanga ha una sua esistenza autonoma, a prescindere dal fatto che nell’occasione ne siano conseguiti anche morti e/o ferimenti. In pratica, secondo la legge vigente è reato cagionare una valanga anche se non succede niente a nessuno! Resta piuttosto da stabilire, ma sono altri discorsi, se quella verificatasi era davvero una “valanga” nel senso inteso dal codice penale (ad esempio a mio parere non lo sarebbe la caduta di un singolo blocco di ghiaccio) ovvero se la caduta di una vera propria valanga (materialmente tale per estensione, ecc.) debba per forza esserlo anche nel senso inteso dal codice penale stesso (si pensi ad esempio ai valangoni provocati per ragioni di bonifica, od a quelli fatti cadere dove non c’è nessuno, ecc.).
    Se però ne deriva anche il morto od il ferito, allora al primo reato si può aggiungere anche il secondo (appunto: omicidio o lesioni personali colpose. Come si dice in linguaggio giuridico, i due reati “concorrono”) e di questo non ci si può stupire, meno che meno per il fatto che una Procura della Repubblica formuli le relative imputazioni e per ciò chieda processi.

    I problemi veri in argomento sono altri, e non sono affatto secondari: ad esempio, se ed a che condizioni vi può essere responsabilità penale (del sopravvissuto) per la morte o ferimento di un compartecipe, più o meno diretto, nella stessa pratica alpinistica (o sportiva che dir si voglia)? Che caratteristiche materiali deve avere una caduta di neve per considerarsi valanga in senso tecnico? L’utilizzo o no di attrezzature salva-vita (e quali) si può sempre ripercuotere in responsabilità del sopravvissuto?

    Piuttosto, è certamente vero che in passato per questi fatti normalmente non si procedeva giudiziariamente e che in punto anche oggi occorrerebbero valutazioni più attente rispetto a quel che si sente dire in giro. Ma attenzione alle vie di difesa improprie.
    Carlo Bonardi

  8. Sono perfettamente d’accordo con l’articolo, non sono d’accordo con chi sostiene che servano normative: le normative mettono paletti e definiscono situazioni con metodi standardizzati che poi non fanno altro che “legare le mani” e spesso complicare situazioni che di per loro natura richiedono una valutazione esperenziale. Personalmente ritengo che finché non si scii su pendii a ridosso di strade o piste da sci (cioè che in caso di valanga possano aggettare su strutture di questo tipo) l’idea di porre in essere delle normative sia assolutamente deleterio.
    Quello che mi lascia sconcertato è che ormai qualunque tipo di gita, anche quelle che richiedono nevi primaverili e/o molto stabili siano percorse con qualunque condizione p.es, e di fronte a questi comportamenti non so che dire. Personalmente avrei piacere nel veder vietare qualunque intervento del soccorso alpino in giornate a rischio 4 o più, come unica cosa. Per il resto ritengo che pensare che uno scialpinista si “colpevole” del distacco di una valanga sia pari a considerare ESSERE scialpinista un reato, e a quel punto se proprio vogliono, che vietino la montagna. Ci andremo di notte.

  9. Qui di seguito elenco, tra le numerose mail da me ricevute dopo la spedizione della lettera aperta a Raffaele Guariniello, quelle che, oltre a testimoniare solidarietà, esprimono anche un concetto o un commento (favorevole o meno). Ho tagliato eventuali riferimenti alla mia persona e non ho riportato le mail nelle quali espressamente sono stato pregato di non farlo.

    Nicolò Mosca
    (sciatore alpinista da 43 anni, ex istruttore ed ex direttore del corso di scialpinismo della Scuola Nazionale di scialpinismo di Biella).
    Se c’è da firmare una petizione sono disponibilissimo.

    Matteo Zunino
    Al riguardo della lettera da Lei indicata mi complimento per l’accurata e dettagliata argomentazione anche se, mi permetta, avrei forse optato per una maggiore sintesi delle ragioni esposte.
    Le segnalo inoltre che il procuratore Guariniello, nel caso della tragica morte del giovane Tito Traversa ha chiamato a vario titolo in giudizio persino il rivenditore e il produttore delle fettucce del rinvio che passate erroneamente sui moschettoni hanno causato l’incidente.
    Continui quindi nei suoi propositi di informazione e di perseguimento delle minime condizioni di autodeterminazione e libertà individuali… questo Paese ne ha un disperato bisogno.

    Roberto Marion
    Non sono molto d’accordo con il tuo scritto in merito al “movimento d’opinione” che dovrebbe sollecitare un ripensamento del giudice sul tipo di accusa per l’incidente del Fraitève.
    Per esperienza diretta, vedendo da anni ogni tipologia di praticante e frequentatore della Montagna, credo che chi si avventura su terreno innevato debba essere cosciente di ciò che sta facendo. Non credo che, in nome di una “Libertà di Montagna” si possa accettare che, senza preparazione, conoscenza e prevenzione, chiunque possa scavalcare le regole del buon senso.
    Sarebbe come se, in nome di una ipotetica “Libertà di spostamento” ognuno fosse autorizzato a mettersi alla guida di un’auto senza conoscere tutto ciò che regolamenta la circolazione stradale. E, dopo aver causato un incidente per mancato rispetto di uno stop nel quale è morto un motociclista, invocare questa libertà di muoversi nel mondo in maniera del tutto incosciente.
    Soluzioni? Non ne conosco né, per fortuna, sta a me trovarne, ma mi auguro una maggiore conoscenza e preparazione da parte dei frequentatori della montagna e non certo i divieti o le ordinanze che qui al centro Italia stanno spuntando come funghi. Resto convinto che chi si mette, e mette altri, in una situazione di pericolo, deve sapere ciò che sta facendo.

    Paolo Scoz
    ho provveduto a diffondere e far diffondere la tua importante lettera!
    Sai se si è formato il Gruppo trasversale dei parlamentari “Amici della montagna”?
    Se sì, potremo sommergerli di una “valanga” dolosa di e-mail prima di spedirli a casa!!??

    Paolo Scaricabarozzi
    Sento sempre più la pressione di persone che pur non sapendo nulla di montagna, decidono cosa dobbiamo fare, quando lo dobbiamo fare, come e se lo dobbiamo fare. Ho il sospetto che si tratti sempre di persone che passano il loro tempo libero, stravaccati in spiaggia spalmati di crema. Un po’ come quando vai dal medico per un infortunio sportivo e il medico non è uno sportivo. La prima cosa che ti dice è: smetta di andare in montagna/smetta di correre. E te lo dice dall’alto della sua pancia rigonfia a causa dell’inattività! Follia pura… Rivendico la mia libertà di rischiare e di essere un uomo libero.

    Alberto Rampini
    Grazie per il contributo puntuale e qualificato a sostegno dei diritti di noi tutti frequentatori della montagna.

    Lupoweb
    Il rischio è enorme, la pratica dell’alpinismo non può essere ricondotta alle regole che determinano la sicurezza in un impianto sportivo in città ed è palesemente assurdo che i fortunati sopravvissuti ad una valanga siano processati per omicidio. Andiamo avanti, è importante.

    Lorenzo Merlo
    Eleggere la libertà a valore di riferimento tende ad essere il punto di un equivoco. Solo assumendo il ruolo di despota da parte di colui che non condivide i nostri argomenti l’equivoco non avrebbe terreno sotto i piedi per muoversi e perpetuarsi.
    La libertà è troppo reciproca. È un perfetto campione per sostenere che la realtà è nella relazione. Diversamente o noi o il giudice si deve recedere. Ma così facendo resteremmo nel sistema dello scontro, quando solo quello della reciproca legittimazione ha le dinamiche per sciogliere il problema, di più, per non crearlo. Il percorso è lungo ma non sarà “ultimato” finché non avviato.
    Condivido invece porre al centro la prospettiva culturale. Nel nostro caso questa può essere regolamentativa o responsabilizzativa. A parte tutti gli argomenti che hai in parte già portato accennerei solo alle fioriture terminali alle quali esse conducono.
    Quella regolamentativa comporta un uomo via via più lontano da se stesso, inidoneo alla creazione di una società capace di formare persone soddisfatte.
    Quella responsabilizzativa implica un uomo che ha nell’assunzione di responsabilità il valore centrale del proprio procedere; più opportuno a dirigere il futuro secondo i propri talenti e attraverso quelli realizzarsi e riconoscerne il vero proprio sé; più all’altezza di rispettare il prossimo, in quanto se stesso in altro modo e tempo.
    Il primo tende a ripetere facendo dell’autoreferenzialità il proprio baluardo di verità. L’altro tende a creare, quindi a muoversi anche attraverso il sentire. Un modo idoneo per ricomporre una realtà che ci hanno insegnato essere scomposta in sezioni e materie tra cui quella giuridica. Finché si tratta di materia tecnica, possiamo capirne la biografia. Quando si vuole ridurre l’umano a due dimensioni qualcosa di disumano diventa protagonista morale, quindi della sofferenza.
    La ricomposizione della realtà è nodale. In essa tendiamo a riconoscere la fratellanza tra gli esseri. A rispettare la terra e a vivere secondo misura. A vedere i limiti del pensiero razionale e ideologico, a riconoscere la biografia dei dogmi e quindi a rivisitarli. A emanciparci dalle paure, a vivere nella soddisfazione e nella pace.
    Diversamente avremmo sempre un nemico verso cui puntare il dito.
    Ogni azione fatta in una di queste due direzioni. Anche da parte degli amministratori.
    Questi vogliono deliberatamente e consapevolmente concorre ad una società misera di bellezza? Mercificata in ogni suo aspetto. Strutturata secondo morale e non secondo etica?
    In quale delle due prospettive necessariamente vorranno spingere la cultura?
    Per quanto riguarda le attività alpinistiche, è opportuno non assoggettarlo a “sport”. Esso non sta chiuso entro regole definitive. Così facendo si tende a creare la consapevolezza che solo l’assunzione di responsabilità permette la frequentazione della montagna – della vita – nel modo più opportuno alla sicurezza.

    Gianni Carnevale
    Ma scusate anche il più sprovveduto sa che in montagna si staccano le valanghe, e che sono più pericolose subito dopo le nevicate. Quindi bisogna essere prudenti e non andare fuori pista. E se vogliamo evitare altri morti è giusto andarci con il pugno di ferro. Far morire un amico sotto una valanga è come farlo morire in macchina con noi in un incidente, non è omicidio colposo anche quello?

    Egidio Bona
    Liberi ma “consapevoli” di praticare la montagna è sicuramente la strada da percorrere. Mi auguro per il bene di tutti noi frequentatori appassionati di montagna che le giuste tesi dell’Osservatorio della Libertà in Montagna e Alpinismo possano trovare logica considerazione.

    Giovanni Zucco
    Sono pienamente d’accordo sulla libertà in montagna!
    Perfetta è la frase: “La sicurezza totale è una pura illusione della società assistenzialista e consumistica”.
    Aggiungo che in molti campi (lavoro, sport, ecc.) oggi si vuole per legge “eliminare” gli inesperti, gli incoscienti, gli imbecilli… pia illusione!

    Nereo Savioli
    direttore Scuola Pietramora
    La Magistratura inizia ad interessarsi ad un ambiente a cui teniamo molto: la Montagna e la sua libera frequentazione.
    Gli aspetti sono molteplici e serve aprire una discussione articolata che non sarà ne facile ne breve.

  10. Fondamentale è frequentare la montagna con intelligenza e quindi con consapevolezza.
    Nella odierna società alienante e consumistica quanti approcciano alla montagna con intelligenza e “con la consapevolezza del rischio che si corre e dei danni che possono derivarne ad altri”?
    Di fronte ai possibili “reali” pericoli (che nella stagione invernale sono più insidiosi) è necessario agire ponderatamente e responsabilmente e la sola informazione (nel caso specifico riguardo ai bollettini meteo) si rivela insufficiente.
    “Una tipica differenza che assai spesso emerge nella vita quotidiana tra persone comuni e persone intelligenti è che le prime, nel riflettere e calcolare possibili pericoli, si limitano a informarsi e a considerare i casi del genere che già sono accaduti; le seconde invece ponderano ciò che eventualmente potrebbe accadere (Arthur Shopenhauer)”.

  11. Sono pienamente daccordo e plaudo l’iniziativa di Alessandro Gogna.
    Non se ne può più di gente che parla solo per restringere obbligare,condannare e sentirsi cosi col potere in mano.
    Almeno in montagna libertà di muoversi è per questo che ci andiamo, sempre con la testa e il rispetto degli altri.

  12. Il mio plauso incondizionato per la lettera aperta. Non aver prodotto il documento sarebbe stata una grave omissione. Il CAI dimostra ancora una volta di essere il migliore interprete e il miglior difensore dello spirito alpinistico.
    Complimenti.
    Franco Cabrelle

  13. Preoccupa assai questa deriva giudiziaria del colpevole a tutti costi, ma ancor di piu’ le perizie redatte dagli esperti col senno di poi che difatto determineranno le sentenze. Perizie che inevitabilmente saranno basate su scarsi elementi obiettivi e molto su pareri soggettivi e probabilistici più che dati certi.
    La domanda alla quale nessuno può dar risposta è sempre quella: “ma la valanga sarebbe scesa comunque prima o dopo indipendentemente dal passaggio dello sciatore?” Se potessimo rispondere sì senza se e senza ma, lo sciatore l’avrebbe solo anticipata ed allora di cosa potrebbe essere accusato??!! Se potessimo rispondere no senza se e senza ma, lo sciatore sarebbe responsabile dell’evento. Sfido però chiunque a giurare un categorico e onesto “no” per quanto esperto sia!!
    Nel 71, esperienza circa zero, salivamo in due con sci e pelli di foca verso il Cornetto del Bondone: arrivati in vista della pala finale ci fermammo perplessi sul da fare vista la pendenza con cui ci saremmo dovuti misurare. Dopo un po’ sulla pala nevosa in un istante apparve una ragnatela di crepe, come una gigantesca martellata si fosse abbattuta su un vetro, un altro istante e lo spessore di neve ventata e crepata si ammucchiò ad impressionante velocità nella conca sottostante mentre ci si gelava il sangue. Se non ci fossimo fermati quegli alcuni minuti il nostro arrivo sulla pala sarebbe coinciso con la caduta della slavina e… Meditate gente, meditate!!

  14. Per quanto concerne il “pericolo” – pericolo oggettivo – non possiamo non cosiderare che anche l’uomo (in quanto parte della natura) è un potenziale pericolo oggettivo per l’uomo.
    Quindi non solo “I pericoli e i rischi vengono dalla disparità tra persona e montagna” ma anche dalla disparità tra persona e persona.
    Leggo: “Chi percorre una pista da sci si deve solo preoccupare di non arrecare danno agli altri con la sua condotta. Perché si tratta di attività sportiva.”
    Ritengo che anche colui che percorre un pendio innevato lontano dalla pista da sci, non importa quale sia la lontananza, si debba preoccupare di non arrecare danno agli altri con la sua condotta. Anche se non trattasi di attività sportiva ovvero che si tratti di qualsiasi attività.
    E chi arreca danno non può esimersi dall’affrontare un giudizio in sede civile e sede penale. La montagna non può essere considerata alla stessa stregua di una zona franca e non “galleggia nell’aria” è sempre un territorio (anche se limitatamente antropizzato).

  15. Sono convinto che la maggior parte dei giudici e di pm non conoscano affatto cosa significhi andar per i monti a cercare quel poco di libertà che ancora ci rimane per provare emozioni che difficilmente la quotidianità ci offre. Mi pare ovvio che la legittima aspirazione ad una ricerca della libertà non deve sfociare nella superficiale e forzata ricerca dell’emozione.
    Complimenti a Gogna.
    Riccardo

  16. Normative/Regole.

    Io però di quelli che oggi ci fanno queste cose mi fido niente.
    C’è un libro di Roger Abravanel (+ Luca D’Agnese) che si chiama “Regole” (viene tra “Meritocrazia” e “Italia, cresci o esci!”, sempre suoi; tutti nell’arco dal 2008 al 2012, ed. Garzanti).
    Non si occupano di alpinismo (si occupano solo di tutto) ma dal primo citato ne traggo una (pag. 21) – omissis il resto: “Tre grandi imprenditori, Carlo De Benedetti, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Micheli ed altri leader di impresa, come Luigi Abete, Guido Robero Vitale, Paolo Scaroni, Corrado Passera, Andrea Guerra hanno condiviso, dopo una paziente lettura, l’idea che ‘le regole possono essere un buon affare’ e hanno fornito suggerimenti preziosi e grandi incoraggiamenti”.
    Giusto per annusare.

  17. LIBERTA’ = libero di fare o dire qualsiasi cosa che non arrechi o possa in futuro arrecare danni materiali o psicologici a terzi.
    Partendo da quanto espresso sopra, la libertà è un concetto che prevede delle regole personali o societarie, qualcuno prima o poi le scriverà, credo che il nostro compito come CAI assieme alle altre organizzazioni mondiali coinvolte sia: scrivere e consegnare al legislatore un insieme di comportamenti da rispettare in base al luogo (vicinanza di piste o luoghi molto frequentati) e al grado ufficiale di pericolosità del momento. Questo potrebbe prevenire l’ideazione di normative assurde con relativa produzione di cause assurde. Fermo restando che “la libertà di scelta è personale, è e deve restare assolutamente libera” sarò libero di scegliere solo quando sarò in grado di sapere l’insieme di conseguenze dettate dalla mia scelta. Essere consapevoli è la prima regola, non potendo esistere un patentino del consapevole, non basta essere iscritti al CAI o altro, oppure essere istruttore o guida: servono delle normative di riferimento.

  18. Al di là di considerazioni ed opinioni personali su singoli aspetti della questione, il tema di fondo è quello della libertà/responsabilità di ciascun individuo, minacciata da uno stato impiccione e prevaricatore che pretende di decidere ogni aspetto della vita di ciascuno “per il suo bene”: uno stato-balia (gli studiosi direbbero stato etico) che “protegge” con una normativa sempre più ipertrofica ed asfissiante i cittadini considerati minorenni incapaci di scegliere per conto proprio. Se si aggiunge a questo la tendenza di certa magistratura a considerarsi come strumento onnipotente per l’equità assoluta (da cui anche la necessità di trovare un colpevole ad ogni costo per qualunque evento negativo, perché solo così la “giustizia” trionfa) risulta evidente il grande pericolo per la libertà di ciascuno di noi.
    Naturalmente risulta ininfluente ricordare che lo Stato, mentre vuole insegnarci in modo obbligatorio cosa e come dobbiamo fare, non riesce a fare le cose importanti di sua competenza; o analogamente che la magistratura, mentre investe tempo e risorse ad accusare di omicidio gli scampati ad una valanga durante un’escursione, impiega tempi biblici per arrivare a sentenze discordanti su argomenti di ben altra gravità.
    Il tema mi sembra di grande importanza e un grosso GRAZIE vada ai pochi che, come Gogna, si fanno carico di combattere questa deriva della cultura comune.

  19. devo riconoscere di aver letto un po’ in fretta il tutto ma credo di essermi fatto un idea e sono d’accordo con l’iniziativa. Per me è colpevole chi scia a monte di persone, in situazioni pericolose. Ci sono alcune accortezze da rispettare (scendere uno alla volta, e poi ripararsi dietro e sotto una roccia quando scende l’altro da sopra, etc…)
    Chi non sa e non rispetta certe norme è colpevole, per me. Ma a volte può capitare che uno scenda ed esponga altri al pericolo, solo perchè è arrivato prima in punta e nemmeno sa che ci può essere qualcuno sotto per il semplice fatto che non lo vede… altre volte capita che uno decida di scendere perché giudica il pendio pericoloso e il compagno continui, e in discesa stacchi la valanga addosso al tipo che aveva deciso di scendere…

    Nella lettera a Guariniello , in uno degli ultimi periodi, avrei specificato meglio la frase, in questo senso: “Chi invece si avvale degli impianti di risalita e poi scende… IN FUORIPISTA A MONTE DI UNA…. pista confonde le due attività, e spesso non basta neppure esporre cartelli di divieto.
    ciau.

  20. Sono assolutamente d’accordo sul contenuto della lettera.
    Credo, comunque, che sarà una battaglia durissima da combattere anche, e soprattutto, perchè nel nostro ordinamento giuridico ogni sentenza è un caso a sè stante. Sarebbe anche interessante sapere cosa c’è realmente dietro. Cioè quello che mi sto’ domandando è in che misura una decisione come quella di processare per omicidio colposo gli scampati ad una valanga, dove peraltro potevano anch’essi perdere la vita, sia frutto di una evoluzione/involuzione di certi principi del diritto oppure una risposta, assolutamente spropositata, a pressioni esterne (e con ciò non voglio riferirmi a qualche fantomatico personaggio avente specifici interessi economici o politici ma anche alla sola e semplice opinione pubblica).
    E i parenti dei futuri deceduti in circostanze analoghe cosa faranno? Si dimostreranno solidali con gli scampati omicidi o cominceranno a partecipare, insieme ai rispettivi avvocati blasonati, a trasmissioni tipo “Quarto grado” in cui proferiranno l’ormai consueta frase “vogliamo giustizia”? Dove in realtà la parola giustizia, soprattutto nei casi dubbi, equivale all’ottenimento di un congruo risarcimento monetario.
    Sì perché poi non dobbiamo dimenticarci nemmeno di tutti questi possibili retroscena che, oltre a trasformare in spettacolo la morte di una persona ed il dolore dei relativi congiunti, alimentano l’opinione pubblica a prendere posizione su questioni di cui la maggioranza delle persone non ha nemmeno competenza per esprimere giudizi.
    Spero vivamente che si possa uscire al più presto da questo pantano auspicando che la Cassazione (perché tanto prima o poi si arriverà lì) prenda delle decisioni forti e chiare in maniera da dissuadere i pubblici ministeri a muovere accuse come quella in oggetto.

  21. Da vecchio alpinista non posso che condividere e, ancora di più, plaudire per la presa di posizione; purtroppo la nostra società sta andando verso una deresponzabilizzazione inaudita (tutto è previsto e segnalato… a prova di stupido e guai a chi contravviene!) che alla fine porta ad accrescere e non a diminuire gli incidenti!
    Vittorio Bedogni

  22. Purtroppo l’approccio culturale alla montagna invernale è tale da esporre l’attività su neve a critiche più forti rispetto all’alpinismo estivo. Un ferratista muscoloso non si avventurerà all’improvviso su vie di arrampicata. D’inverno il rischio è poco correlato alla difficoltà o alla fatica: impianti a fune, motoslitte, elicotteri “sparano” sciatori poco interessati alla montagna in sé, palestrati alla ricerca di “powder” (in inglese è più figo) in ambienti a loro poco noti; le valanghe possono poi centrarti anche su sentiero. Per difendere il diritto ad uscire d’inverno è essenziale che all’idea di impresa si sostituisca la gioia di essere in montagna a fare una cosa bella in un ambiente bello e che per questo merita di essere conosciuto.

  23. Mi limito a riportare ancora una volta alcuni “spunti giuridici”, esemplificativi di due periodi storici.

    Tradizionale

    Una sentenza della Corte di cassazione penale (Sezione II, 27 novembre 1957, Cambiaso, in Rivista penale 1958, II, 761, e altrove) forniva due indicazioni chiare e solide (invocabili a favore della libertà d’alpinismo ma senza che significassero impunità):

    – “Gli infortuni verificatisi nell’esercizio di attività sportive lecite, siano esse riconosciute dal diritto, siano esse consacrate dalla consuetudine, non sono punibili. In particolare, per quanto concerne l’attività sportiva in montagna, è la consuetudine che esclude la responsabilità solidale dei compartecipi di un’azione richiesta [n.d.r., presumo: rischiosa], in quanto – se da una parte giuoca, come fattore psicologico comune, la cosidetta induzione reciproca – dall’altra rimangono pur sempre personali e libere la volontà e l’iniziativa del cimento”;
    – “Nel caso di sinistro durante una gita alpinistica, sussiste la responsabilità di uno dei partecipanti in relazione alla decisione di affrontare un rischio e la scelta dei modi e dei mezzi tecnici da impiegare solo quando preesista tra i compartecipi un rapporto di sicura subordinazione”.

    Più di recente

    L’estratto da uno dei vari “Pacchetti sicurezza” (Consiglio dei Ministri n. 72 del 30 ottobre 2007) ben evidenzia il cambio di “approccio” nei confronti delle attività in montagna: esse vengono trattate, dopo averle messe insieme (!) ad altre quali “omicidio e lesioni colpose aggravati da stato ebbrezza alcoolica o da stupefacenti, terrorismo e migrazione illegale, criminalità organizzata, criminalità di strada, riduzione in schiavitù e commercio di esseri umani, falso in bilancio, contraffazione, alterazione e uso di marchi, usurpazione di segni e modelli”, ipotizzando la successiva approvazione di “un disegno di legge che integra e rende più incisive, sotto il profilo della vigilanza e della prevenzione, la normativa in materia di sicurezza nella pratica dello sci e degli sport invernali di discesa. … per gli sciatori sono previste nuove misure in materia di comportamento sciistico, velocità ed utilizzo delle attrezzature. Le norme interessano chi pratica tali sport e gli operatori del settore, ma non mancheranno di avere una ricaduta positiva sul turismo connesso, fino ad oggi danneggiato dai troppi incidenti dovuti ad incuria e lacune normative….”.
    Qui in via diretta si sono riferiti allo sci da pista, ma già lo “spirito” può essere esteso al restante.
    A differenza dei principi affermati nel 1957 e fermo che necessiterebbero approfondimenti ed altre considerazioni (specie sull’esigenza ritenuta sempre più penetrante di proteggere la persona umana), si nota che il fuoco non è nell’ambito ristretto della compartecipazione alpinistica in sé, ma risulta spostato (motivato) da interessi ad essa esterni (esempio proprio la “ricaduta positiva sul turismo connesso, fino ad oggi danneggiato dai troppi incidenti dovuti ad incuria e lacune normative”) – inconsistenti o sovente strumentalizzati – donde le ovvie applicazioni pratiche. In questo filone da un paio di decenni sono orientati gli interventi di vari soggetti privati e di autorità pubbliche.

  24. Io condivido e trovo molto interessante questo passaggio:

    “Il diritto al rischio è valido solo quando è frutto di una scelta consapevole e
    rispettosa degli altri, sapendo che non esistono la pretesa e la certezza di
    essere soccorsi sempre, comunque e in ogni condizione.”

    In mare non esiste il tempo per organizzare un valido soccorso, quindi occorre arrangiarsi con le proprie forze.
    Prima di determinare una scelta e mettersi in pericolo, si valutano e soppesano gli scenari possibili 100 volte.
    Forse è questa eccessiva certezza nell’intervento di altri (lo spettacolare e costosissimo elicottero)
    che induce gli sprovveduti ad avventurarsi ben oltre le loro capacità.
    In molti ricercano l’IMPRESA, ma al giorno d’oggi, sulle nostre Alpi, esistono ancora imprese da compiere degne di nota?
    Il gioco vale la candela?

  25. Solo una piccola considerazione su una parte del commento di LUCA (“La Libertà della Montagna non è l’incoscienza…”) del 21 febbraio 2014 at 10:39, e più precisamente sulla sua affermazione: “[ . . . . . . ] Questa è la VERITA’… (che è sempre unica), il resto…”: non voglio entrare nel merito di opinioni e argomentazioni, tutti i pareri sono rispettabili e ognuno è legittimato a pensarla come crede, ma mi sembra il caso di citare Pirandello perché con la sua opera ci ha mirabilmente dimostrato quanto sia illusorio pensare che ci sia una sola “Verità”. La verità cambia secondo i punti di vista, secondo chi la racconta e il suo stato d’animo, i modelli culturali, i pregiudizi, e le variabili potrebbero essere infinite. Persino la stessa persona, in momenti diversi, può raccontare, senza mentire, verità diverse. Sono solo convinto che non si possa essere così categorici e intransigenti. “Oggettività” e “obbiettività” sono idee aleatorie, astratte, tutto è filtrato dagli occhi e dall’interiorità di chi osserva. Neppure una fotografia è completamente neutrale, ma condizionata da chi sta dietro l’obbiettivo: nell’immagine c’è sempre qualcosa che manca, e potrebbe essere dentro, e viceversa.
    Poi, dopo tutto questo sermone, penso che una società incrementi sempre più leggi e regole quando, in proporzione, si riduce la sua dimensione etica. Quanto più si sono persi i riferimenti interiori ai valori fondamentali, maggiore è la necessità di “regolamentare”, “vietare”, “punire”…, ma è come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati: un milione di leggi non valgono quanto una briciola di sani principi radicati nella cultura delle persone, e comunque tutte le analisi e le prospettive salienti del problema sono contenute nella vostra lettera e nelle riflessioni già pervenute. Un caro saluto a tutti

  26. Ciao Alessandro, qualche tempo fa mi confrontai con un magistrato sul tema della responsabilità in caso di valanghe; quello che ne emerse è che l’elemento cruciale dei tempi più recenti (diciamo da più di una ventina d’anni) sarebbe lo sviluppo della tecnica (sia essa di bonifica che di informazione sul livello di pericolo). Ora il punto che a me pare centrale è che chi pratica la montagna consapevolmente la vive come luogo della libertà, anche dalla tecnica (ricorda Reinhard Karl: l’alpinista non vuole diventare un plastic people).
    Ecco, questo credo sia un punto centrale: il rischio è che questa “nuova” giurisprudenza de-responsabilizzi il praticante spostando l’attenzione da se stessi ad “altri”. E’ un poco come se, dirigendosi verso una cascata si trovino altre cordate già impegnate e, invece di cercare una diversa linea o di rinunciare dandosi anche un poco del fesso (bastava alzarsi prima) ci si metta in coda…..

  27. Sono d’accordo con quanto scritto.
    Vogliono tutelare tutto e tutti, ci trattano da potenziali omicidi/suicidi come se chi va in montagna lo fa solo per cercare la morte.
    Ma esiste ancora la libertà di scelta?? Se durante un’arrampicata od un escursione degli animali fanno cadere dei sassi e vengo colpito che dobbiamo fare? Li ammazziamo tutti così da eliminare una potenziale minaccia?

  28. E’ a mio nome, ma il commento è di Vitale Zanchettin

    Mi chiedo nel caso specifico come si possa distinguere la responsabilità di chi ha avuto la sventura di morire da quella di chi invece miracolosamente si è salvato. Non erano in gruppo? E non è stato l’itero gruppo a causare la slavina?

    Vorrei estendere la domanda all’arrampicata, perché è una dimensione che conosco più da vicino.
    In cordata la responsabilità penale come si condivide? Da mio punto di vista, a meno che non sia dimostrabile il dolo, la colpa è generalmente ripartita in modo omogeneo e soprattutto indivisibile.
    La solidarietà in cordata, e più in generale in montagna non è come quella al bar. Uno al bar non pensa che potrebbe cadergli in testa il lampadario, quindi se qualcuno accidentalmente lo fa cadere sulla testa di qualcun altro è colpevole, anche se non vi è dolo.

    Quindi se accidentalmente un membro di una cordata causa danni a un compagno le colpe non possono essere imputate integralmente a chi ha causato l’incidente, perché la consapevolezza dei rischi specifici di qualsiasi condizione in parete sono assunti in modo autonomo da ognuno e divengono indivisibili, a mio avviso, a partire da un semplice atto: quello di legarsi alla stessa corda. Non a caso vi sono condizioni in cui la corda deliberatamente viene slegata per non far assumere al secondo i rischi di cui si fa carico il primo.

    Ho vicino a me due casi specifici di cadute di primi di cordata in montagna che hanno causato danni ai secondi in sosta, fortunatamente non letali ma consistenti. Mi sembrerebbe fuori da ogni ragionevolezza ritenere che la colpa ricada solo sul capocordata, proprio perché entrambi hanno assunto consapevolmente i rischi in modo indivisibile.

    In sostanza credo che una cordata vada considerata una unità e che le responsabilità penali, quindi personali, vadano equamente distribuite e siano una sorta di entità indivisibile, indipendentemente dai danni subiti.

    Forse in modo molto simile considererei la condizione di un gruppo durante un’uscita di sci alpinismo. La solidarietà in montagna non è come quella che lega quattro persone sulla stessa automobile, ma una forma di solidarietà specifica proprio per quello che si mette in conto dal primo minuto, ma purtroppo temo sia pressoché impossibile da comunicare a chi non l’ha mai provata.
    Vitale Zanchettin

  29. Sono totalmente in accordo con quanto da voi scritto. Siamo viaggiando verso forme societarie folli!
    Colpo Claudio

  30. Il rischio di essere accusati di omicidio potrebbe indurre a non prestare soccorso!!
    Mi sembra una impostazione lontana dallo spirito e dalla filosofia della montagna!

  31. Caro Alessandro, mi trovi pienamente d’accordo e colgo l’occasione per ringraziarti per la tua iniziativa che sento molto vicina. Sento sempre più la pressione di persone che pur non sapendo nulla di montagna, decidono cosa dobbiamo fare, quando lo dobbiamo fare, come e se lo dobbiamo fare. Ho il sospetto che si tratti sempre di persone che passano il loro tempo libero, stravaccati in spiaggia spalmati di crema. Un po’ come quando vai dal medico per un infortunio sportivo e il medico non è uno sportivo. La prima cosa che ti dice è: smetta di andare in montagna/smetta di correre. E te lo dice dall’alto della sua pancia rigonfia a causa dell’inattività! Follia pura… Rivendico la mia libertà di rischiare e di essere un uomo libero.

  32. La Libertà della Montagna non è l’incoscienza di andarci portandosi su di essa senza le doverose cautele che, nel caso di disgrazia, dimostrano oggettivamente di non essere state prese a sufficienza.
    La Libertà della montagna non è la Libertà di andarci a morire o per portarci la morte propria o di altri; quando ciò avviene è colpa solo degli uomini!! Per loro volontà o negligenza solitaria o del branco…
    Gli stessi si devono regolamentare con la SAGGEZZA PROPRIA per evitare ciò.
    Se non ne sono capaci deve intervenire la magistratura con giurisprudenza seria.
    Sono d’accordo che chiunque partecipi in montagna a un evento che si rivela tragico è responsabile di non aver preso le necessarie cautele atte a evitare la tragedia e per tale motivo anche se sopravvissuto non è vittima ma colpevole:
    – verso gli uomini come se fosse il comandante di sé e degli altri…
    – verso la montagna per aver contribuito con la propria impreparazione a renderla assassina, quando Lei era lì per accogliere tutti in lietezza.

    Questa è la VERITA’… (che è sempre unica), il resto è ipocrisia e retorica… (che l’uomo ha a tonnellate…!!!!!).
    Il fatalismo è per i bugiardi e vanitosi, verso loro stessi e verso gli altri…
    E’ OVVIO che tutti possono andare in Libertà sulla montagna, ma hanno la responsabilità di tornare vivi e con tutti i compagni sani, senza offendere la natura e l’ambiente con la propria negligenza e impreparazione diffamando in caso di disgrazia la dolcezza della Montagna.

    Luca Ricci

  33. Come guida e Resp. del Socc. Alpino ho apprezzato molto le tue parole. Bravo Alessandro.
    Renato

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