Voluto dall’allora Presidente Generale del CAAI, Giacomo Stefani, nel 2013 si svolse a Torino un convegno che aveva l’intento di collegare la letteratura alpinistica all’attività degli Accademici. Il tema del convegno era: Gli Accademici si raccontano. I relatori: Spiro Dalla Porta Xydias per l’anteguerra, Ugo Manera dal 1945 fino agli anni ’60 e Pietro Crivellaro per gli anni ’70 e successivi. Dante Colli era il moderatore del dibattito. Ecco la relazione di Ugo Manera.
Gli accademici si raccontano
(dal dopo guerra agli anni ’60: fine dell’alpinismo eroico e borghese: il grande alpinismo diventa proletario)
di Ugo Manera
L’alpinismo è avventura e, come tutte le avventure, invoglia i protagonisti a raccontarle; a non tenere solo per sé le emozioni vissute ma a trasmetterle e a farle vivere ad altri attraverso il racconto scritto.
Più l’avventura è stata intensa, incerta, colma di rischi e maggiore è la spinta che prova l’attore a raccontarla perché non vuole che quelle emozioni, quelle paure e quei successi e insuccessi che fanno parte del patrimonio della propria vita vadano persi nell’oblio. La maggioranza delle persone “normali” poi non ha cercato né cercherà mai di vivere grandi avventure ma si emoziona ed esalta nel leggere quelle raccontate da chi le ha vissute. Questo è un ulteriore stimolo che spinge i protagonisti a raccontare.
Gli accademici, per diventare tali, hanno privilegiato un alpinismo di ricerca e di elevata difficoltà: quel modo di scalare montagne che propone l’avventura più intensa, emozionante e spesso rischiosa; è normale perciò che molti accademici abbiano cercato di raccontare le esperienze vissute sulle pareti. Le pubblicazioni sulle quali pubblicare i racconti alpinistici sono state, in molti periodi, esclusivamente quelle edite dal CAI e dalle sue Sezioni. E’ sempre esistita anche la strada più impegnativa del libro autobiografico; impresa che non ha scoraggiato gli accademici che in molti hanno inciso su questa traccia la storia delle loro avventure.
Il periodo che prendo in esame è probabilmente il più povero di pubblicazioni alpinistiche di tutta la storia dell’alpinismo. Gli Annuari del CAAI uscirono in quegli anni con parsimonia: contiamo solo l’annuario del 1955 che, oltre ai regolamenti, contiene un’illustrazione dei bivacchi fissi e nessuna notizia alpinistica e quello del 1963 ancora dedicato ai bivacchi e con un elenco di spedizioni alpinistico–esplorative compiute da accademici dal 1949 al 1962. Nessun racconto di scalate, stanti le ristrettezze economiche, non c’era spazio per la letteratura alpinistica. La stessa Rivista Mensile del CAI, nell’immediato dopoguerra, per alcuni anni non venne inviata ai soci e riprese ad essere la pubblicazione per tutti solo dal 1949; erano ancora lontanissime nel futuro le pubblicazioni alpinistiche private. Malgrado lo stentato riavvio la Rivista Mensile (ne uscivano però solo 6 numeri all’anno) divenne presto la testimonianza principale dell’evoluzione dell’alpinismo italiano e dal 1950 fino a oltre metà degli anni ’70, conta molti numeri che sono i migliori della sua storia. Sulla Rivista Mensile hanno scritto molto gli accademici che spesso sono stati protagonisti anche nei comitati di redazione della stessa. Attraverso questi scritti cercherò, oltre che una traccia letteraria, anche le testimonianze dell’evoluzione alpinistica di quegli anni.
Il grande alpinismo, che appare dalle testimonianze scritte dei primi 40 anni del secolo scorso, è un alpinismo “eroico” mosso da ideali “grandi” tra i quali prevalgono coraggio, abnegazione e senso del sacrificio estremo. La caratteristica “eroica” è stata figlia di quei tempi non solo per l’alpinismo, ma nella nostra attività era alimentata da una realtà effettiva quella che per compiere imprese di alto livello ci voleva effettivamente un coraggio enorme per affrontare i rischi elevatissimi in quanto, con i mezzi di assicurazione di allora, la caduta del primo di cordata si poteva risolvere molto spesso in tragedia. L’altra componente che caratterizzava l’eroicità delle imprese era una forma retorica di esaltazione dell’individuo e delle nazionalità che invase tutti i campi e alimentò le immani tragedie del ventesimo secolo.
Fino alla seconda guerra mondiale poi la maggior parte degli alpinisti accademici proveniva dalla borghesia, poche le eccezioni anche se di grande livello, limitate per lo più alla Lombardia. Nel dopo guerra c’è un netto cambio di tendenze, molti sono i giovani operai provenienti dalle fabbriche in ricostruzione che si avviano alla montagna, non solo per andare intruppati nelle gite sociali delle sezioni CAI, ma per avviarsi a grandi imprese di valore assoluto. E’ uno stravolgimento: anche i proletari compiono scalate estreme e diventano accademici.
Gli scampati all’immane tragedia della guerra di eroismi ideali ne hanno le tasche piene: si diventa più consapevoli che la vita è meglio rischiarla il meno possibile. Non che scompaia d’un tratto l’alpinismo eroico stile anni ’30, che continua a influenzare per anni la prosa di molti nuovi scalatori, ma è in declino e spesso appare più come espressione retorica che come ideale sentito e vissuto.
Di questa evoluzione cercherò di rilevare le tracce nelle testimonianze scritte da vari accademici.
La Rivista Mensile dei primi anni del dopo guerra aveva un comitato di redazione composto da accademici ad eccezione di Adolfo Balliano e Giovanni Bertoglio che ne furono redattori per molti anni. Troviamo infatti: Presidente Carlo Negri con Renato Chabod, Massimo Mila, Michele Rivero, tutti accademici. La Rivista non ha molte pagine, gli articoli sono pochi ma alcuni hanno spunti interessanti; sul numero settembre–ottobre 1946 troviamo un bel racconto di Matteo Campia sulla sua celebre via della parete sud del Corno Stella portata a termine il 15 luglio 1945, sette anni dopo il primo tentativo. Un racconto semplice e diretto, privo di retorica, recita di scalata tecnica senza fronzoli ma con un velo di rimpianto nostalgico per tanti anni perduti a causa della guerra. Nel numero di dicembre dello steso anno una commemorazione di Giusto Gervasutti, caduto nel medesimo anno, fatta da Renato Chabod nel suo stile diretto ed essenziale. Sulle Riviste uscite nel 1947 pochi sono i racconti di scalate, i più rivolti al passato, scarsa l’attualità e non emergono personaggi e storie nuove. Tra le firme di accademici troviamo Guglielmo del Vecchio che racconta l’invernale della gola Nord-est del Jôf Fuart (12 febbraio 1946), Piero Ghiglione, Carlo Sicola.
Nella raccolta del 1948 ancora protagonisti gli accademici: Carlo Negri racconta della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey, della cresta des Hirondelles alle Grandes Jorasses e del Pizzo Trubinasca da nord, racconto quest’ ultimo scarno e tecnico ma sentito, con ricordi essenziali anche legati alla fine della guerra.
Riccardo Cassin rivive i suoi “Ricordi Lontani” con sottile nostalgia condita da retorica semplice e sincera, tra gli altri anche un ricordo di Gervasutti.
Molte le “prime” raccontate da Guglielmo del Vecchio sulla Rivista del 1949, compiute con Mauro Mauri. Sono cime dolomitiche importanti: Croda del Toni, Monte Popera, Cima Auronzo. Racconti in prima persona piuttosto retorici e autocelebrativi. Compaiono più volte anche le firme di Giorgio Rosenkranz e Massimo Mila che dà una sua visione sul perché si va in montagna.
Iniziano gli anni delle ripetizioni delle grandi vie della fine degli anni ’30 e inizio anni ‘40, è un assedio, i giovani emergenti vogliono confrontarsi con i campioni del passato. Carlo Ramella e Guido Pagani sono titolari sulla Rivista Mensile di una Cronaca Alpina fatta molto bene, meticolosa e dettagliata che sprona certamente gli scalatori a inserirsi nelle liste dei ripetitori che si allungano sempre più.
Nel comitato di redazione prevalgono sempre gli accademici (4 su 5); nel 1953 redattore è sempre l’ing. Giovanni Bertoglio. Nel comitato di redazione: avv. Cesare Negri, avv. Renato Chabod, avv. Michele Rivero e Toni Ortelli. Ho riportato i titoli per evidenziare l’estrazione borghese di quegli accademici ma sulle pagine delle riviste troviamo i racconti di altri protagonisti giovani provenienti da una diversa classe sociale. Essi si lanciano in ardite ripetizioni ma si avviano anche verso il nuovo, oltre i livelli raggiunti dai grandi predecessori.
Sull’ultimo numero del 1950 troviamo un articolo di Iosve Aiazzi che racconta la seconda salita della via Vinatzer-Castiglioni compiuta con Baldassare Alini nei giorni 18-19-20-21 agosto 1949, salita drammatica, osteggiata dal maltempo, conclusasi con l’uscita effettuata grazie ad una corda buttata dall’alto dai soccorritori dopo che i due si trovarono bloccati negli ultimi metri dal camino finale ostruito dal ghiaccio e reso insuperabile con la loro attrezzatura. La prosa è semplice, un po’ ingenua, volta a descrivere più gli aspetti tecnici della scalata che le sensazioni ed emozioni. Non c’è drammaticità ricercata né forme retoriche stile alpinismo “eroico”, forse anche perché il bagaglio culturale di chi scrive non lo consente ma proprio per questo il racconto appare vero e interessante e dà pienamente la percezione della dimensione e drammaticità dell’impresa.
Aiazzi fa parte di quel gruppo “terribile” di monzesi, tutti di estrazione popolare, giovanissimi (alcuni non superani i 20 anni) che senza timori reverenziali si scatenano in una incredibile serie di imprese estreme.
Meglio ancora il valore e il coraggio di questi giovanissimi vengono evidenziati dal racconto di una serie impressionante di scalate apparso sulla Rivista N° 3-4 1951 a firma Andrea Oggioni: Dalle Dolomiti al Monte Bianco. Oggioni racconta della seconda salita del Croz dell’Altissimo per la via Oppio compiuta con Walter Bonatti e Iosve Aiazzi a fine giugno 1949 in 55 ore trascorse in parete. Poi della ripetizione della via Cassin al Badile con Iosve Aiazzi e Baldassare Alini all’inizio di agosto 1949, salita drammatica avversata dal maltempo con 73 ore trascorse in parete. Le avversità non frenano gli scatenati giovani, poco dopo ferragosto attaccano la Ratti-Vitali sulla Ovest della Noire di Peutérey: con Oggioni ci sono Bonatti ed Emilio Villa che morirà poco dopo per una caduta ai Corni del Nibbio in Grigna. La salita si svolge senza intoppi se non la consueta perdita dell’itinerario di discesa che provoca un bivacco imprevisto. Ritornati a valle ripartono subito con un quarto compagno: Mario Bianchi per la Cassin alla Walker delle Grandes Jorasses. I protagonisti sono stanchi, con equipaggiamento scarso e consunto e la scalata li impegna allo stremo. In 54 ore portano a termine la seconda scalata da parte di scalatori italiani di quella che in quel momento è considerata la scalata al top di tutte le Alpi. Sempre nello stesso scritto Oggioni racconta della salita alla via Cassin alla Cima Ovest di Lavaredo compiuta con Aiazzi nel 1950 in 15 ore.
Anche la prosa di Oggioni è semplice e diretta, racconta soprattutto l’azione, non c’è nessun tentativo aulico di esaltare le emozioni dei momenti di drammaticità o di esultanza per l’obiettivo raggiunto: il bagaglio culturale dello scrittore non lo consente ma il racconto rimane avvincente forse proprio per l’immediatezza a l’assenza di retorica.
Sullo stesso numero della Rivista compare il racconto dell’accademico Pino Gallotti di una ripetizione dello spigolo nord del Pizzo Céngalo. E’ uno scritto molto più vario e fiorito di quelli di Oggioni perché parte da una base letteraria evidentemente più ampia: ma risulta meno interessante.
Ho divorato tutti questi articoli 50 anni fa quando, con sconfinato entusiasmo, iniziavo la mia carriera di scalatore, oggi rileggendoli trovo che il loro interesse rimane immutato e ciò mi induce ad alcune considerazioni di carattere personale: allora le pubblicazioni alpinistiche erano poche e privilegiavano il racconto delle ascensioni da parte dei protagonisti, erano apprezzate dal mondo degli alpinisti che le collezionavano con cura. Oggi di pubblicazioni dedicate all’alpinismo ce ne sono molte: quelle ufficiali del Club Alpino e quelle edite da privati. La Rivista (non più mensile) del CAI è lontanissima dai successi degli anni migliori, c’è di tutto ma i temi alpinistici d’avanguardia sono quasi assenti e trattati in modo piuttosto spento. Lo Scarpone è un giornale di notizie spesso prolisso, soffocato dalla retorica celebrativa dei buoni sentimenti. Fa eccezione a questo standard la nuova edizione degli Annuari dell’Accademico.
Maggior fortuna non hanno le principali riviste private in continua affannosa modifica editoriale nella disperata ricerca di lettori disposti a sottoscrivere l’abbonamento. Su queste riviste è quasi scomparsa la relazione di ascensione scritta dal protagonista; gli spunti di letteratura alpinistica, sia di basso che di alto livello, sono rarissimi, prevale il notiziario asettico e le stesse ricerche storiche sono fatte più con l’ottica del saggio giornalistico (di medio e basso livello) che attraverso la rigorosa ricostruzione storica con il racconto avvincente degli avvenimenti; si punta spesso al sensazionale, poco al racconto “vero” dei fatti.
Le grandi avventure in montagna raramente sono raccontate in prima persona dai protagonisti ma vengono confezionate per i lettori attraverso domande ed interviste condotte da giornalisti o pseudo giornalisti specializzati di montagna. E’ come se Andrea Camilleri, invece di raccontare e animare con il suo straordinario linguaggio le avventure del commissario Montalbano, rispondesse alle domande di un giornalista sulle inchieste del celebre commissario; non avrebbe mai raggiunto lo straordinario successo editoriale.
Ritornando al nostro viaggio nel passato attraverso il racconto degli accademici, i giovani emergenti, con l’inizio degli anni ’50, non si accontentano più delle grandi ripetizioni, vanno oltre, si lanciano nell’apertura di nuove vie estreme. Nella collezione 1951 della Rivista Mensile troviamo due importanti testimonianze: il racconto di Luciano Ghigo della prima ascensione della Est del Gran Capucin e quello di Giovanni Mauro sulla prima ascensione del Pilier Gervasutti al Mont Blanc Tacul ove cadde nel 1946 il “Fortissimo”.
Sono due tra le più importanti imprese del periodo, una condotta dall’ormai noto Walter Bonatti, l’altra da Piero Fornelli, giovanissimo operaio torinese. I racconti sono scritti dai due secondi di cordata. Quello di Ghigo è lineare, senza fronzoli, non si prefigge null’altro che raccontare in modo preciso l’importante ascensione, obiettivo che appare raggiunto. Il racconto di Mauro, forse condizionato dall’emozione derivata dal fatto di aprire la via dove cadde Gervasutti, è farcito della più tradizionale retorica di un alpinismo d’altri tempi.
Anche nelle Dolomiti vengono superati i limiti stabiliti nel passato: alla Cima Su Alto lo specialista delle Calanques: il marsigliese Georges Livanos, con Robert Gabriel, vince il gran diedro nei giorni 10-11-12 settembre 1951. Racconta l’impresa sulla Rivista Mensile nel fascicolo 5-6: il suo racconto è stringato e tecnico e al termine non esita a dichiarare la loro via come la più difficile aperta fina ad allora nelle Dolomiti.
Non passa un anno che i monzesi ripetono la via Livanos e ne confermano le difficoltà: Andrea Oggioni e Iosve Aiazzi compiono l’impresa il 30 giugno e primo luglio 1952; Aiazzi lo racconta nel suo stile semplice sull’ultimo fascicolo della Rivista del 1952.
Andrea Oggioni scrive di due importanti imprese nel 1953: la prima invernale della via Costantini-Apollonio al Terzo Pilastro della Tofana di Rozes e la prima del gran Diedro della Brenta Alta nelle Dolomiti del Brenta, sempre in compagnia del fedele Iosve Aiazzi. E’ un ulteriore salto di qualità: dalle grandi ripetizioni alle vie nuove e prime invernali.
Dalle pagine della Rivista, edizione 1954, compare un nuovo protagonista accademico destinato a notevoli imprese: Armando Aste, con il racconto della sua prima salita alla parete est della Cima di Pratofiorito nella Val d’Ambiez nel Brenta (31-7 e 1-8 1953 con Fausto Susatti). Aste è un credente devoto e nel suo racconto cerca di far emergere la sua visione mistica.
Sempre nel 1954, sul fascicolo 9-10 vi è un lungo resoconto di Piero Ghiglione della tragica spedizione al Monte Api che costò la vita all’accademico Giorgio Rosenkranz, a Roberto Bignami e Giuseppe Barenghi. Ghiglione racconta i fatti in modo schematico e monotono, senza emozioni: non rende gli aspetti drammatici di quella spedizione.
Inizia in quegli anni l’assalto generalizzato alle grandi pareti nella stagione invernale, in pochi anni le vie che hanno fatto la storia dell’alpinismo estremo vengono percorse in inverno, sull’ultimo numero della Rivista del 1955 troviamo il racconto di Enrico Peironel della prima invernale, con Carlo Mauri, della via Supersaxo sulla parete nord del Breithorn Occidentale, racconto preciso della salita senza spunti di particolare interesse. Ritorna Andrea Oggioni nel 1956 a raccontare la “prima” della via della Concordia alla parete est della Cima d’Ambiez compiuta con Josve Aiazzi, Armando Aste e Angelo Miorandi nei giorni 30 giugno e primo luglio 1955. Il nome che venne dato alla nuova via vuole evidenziare il clima di collaborazione tra la cordata di Oggioni e quella di Aste casualmente dirette al medesimo obiettivo. L’accademico monzese in quell’occasione manifesta la sua gioia per esser lì a respirare l’aria delle cime dopo mesi di lavoro in raffineria di petrolio a respirare gas nocivi.
Walter Bonatti, prima Accademico, poi Guida alpina, è stato uno dei più grandi esponenti dell’alpinismo di quel periodo, rari sono però i suoi scritti al di fuori dei libri autobiografici. Sulla Rivista Mensile volume 3-4 1957 c’è un lungo racconto della salita al Monte Bianco del Natale 1956 con il tenente Silvano Gheser. Durante la salita si incrociarono con i giovani Jean Vincendon, francese, aspirante guida e François Henry studente belga. Il maltempo violentissimo si scatenò prima dell’arrivo in cima al Bianco, l’ascesa si trasformò in dramma: Bonatti e Gheser si salvarono a stento con gravi congelamenti per il militare, i due giovani d’oltralpe morirono dopo lunga agonia mentre i soccorritori tentavano inutilmente di raggiungerli. La tragedia sollevò un vero e proprio caso giornalistico. La scrittura di Bonatti è scorrevole, di piacevole lettura e rende bene il dramma vissuto.
Bonatti nel raccontare le proprie avventure non ripete lo stile dei suoi contemporanei, mentre negli scritti degli scalatori di punta del periodo si nota uno scostarsi sempre più netto dagli accenti eroici del passato e gli episodi drammatici occupano lo spazio dovuto senza avvolgere tutta la pratica dell’alpinismo, nella prosa di Bonatti notiamo esattamente l’opposto, egli è animato da individualismo esasperato, l’alpinismo per lui è soprattutto sofferenza da vincere con ferrea volontà, abnegazione e coraggio. Raramente nei suoi scritti vengono evidenziati momenti di gioia e spensieratezza, tutta l’attenzione è concentrata sugli aspetti drammatici. Sembra che la montagna riservi solo lotte all’ultimo sangue con la catastrofe sempre incombente, non c’è mai autoironia e divertimento; sembra un ritorno al passato con la montagna scuola di vita che ti tempra impegnandoti sempre ai limiti dell’esistenza. Contrariamente ad esempi del passato però la scrittura di Bonatti, pur esprimendo una visione eroica dell’alpinismo, è scorrevole ad avvincente e rifugge da manifestazioni retoriche di maniera.
La scalata su roccia negli anni ’50 diventa sempre più tecnica, si ricorre molto all’artificiale con largo impiego dei chiodi: entreranno presto nel gioco anche i chiodi a pressione con il conseguente perforamento artificiale della roccia. Quasi sempre la tecnica mal si sposa con i voli della fantasia, così le nuove imprese diventano sempre meno “eroiche” fino a esprimere dei veri e propri “anti eroi” come Georges Livanos, Le Grec. Nel suo bellissimo libro Al di là della nerticale, Livanos è dissacrante, autoironico, pungente. Spesso prende in giro proprio la rappresentazione epica dell’alpinismo che piaceva tanto a molti grandi alpinisti.
Giuseppe Dionisi sull’ultimo numero della Rivista del 1958 racconta della spedizione alla Cordillera Blanca (alla quale partecipavano, oltre lo stesso Dionisi, gli accademici Piero Fornelli, Luciano Ghigo, Giuseppe Marchese) culminata con la salita del Nevado Ranrapalca 6162 m. Il racconto è molto formale condito di retorica e non offre spunti intersanti.
Nelle Alpi, negli anni a cavallo del 1960, due sono i temi dominanti: l’apertura delle super direttissime sulle pareti dolomitiche e le grandi invernali. Sono caduti tutti i tabù, si dimostra che anche le vie più ostiche si possono vincere nella stagione fredda. Giorgio Redaelli ci racconta la prima invernale alla Livanos-Gabriel alla Cima su Alto e l’apertura della formidabile via sulla parete sud della Torre Trieste. La prima, compiuta con Roberto Sorgato e Giorgio Ronchi dal 18 al 22 febbraio 1962, ci è descritta sulla Rivista Mensile di settembre-ottobre 1962; la seconda, realizzata con Ignazio Piussi dal 6 al 10 settembre 1959, la troviamo raccontata sul numero di marzo 1964 sempre della Rivista Mensile. Redaelli racconta di queste due imprese al top quasi divertendosi, allegramente, senza auto esaltazione, evidenziando sì i momenti critici ma senza mai drammatizzare. Quelle pareti sono lì per essere salite, ci si impegna al massimo, si soffre e si rischia ma non per questo ci si sente eroi.
A un’altra formidabile invernale è dedicato il racconto di Toni Hiebeler apparso sull’ultimo numero della Rivista 1963, la prima invernale della Solleder al Civetta: suoi compagni i soliti Ignazio Piussi e Giorgio Redaelli. E’ un lungo articolo ove Hiebeler racconta in modo discorsivo e leggero la grande impresa, certi episodi sono descritti ricorrendo al paradosso e all’ironia, non c’è dramma e le gesta descritte sono lontane dall’essere epiche.
Ancora l’inverno come protagonista: Corradino Rabbi ci racconta la prima invernale del Pilier Gervasutti al Tacul (28 febbraio 2 marzo 1965), bella impresa compiuta con Gianni Ribaldone, grande promessa dell’alpinismo torinese, caduto poco più di un anno dopo con due allievi della scuola di alpinismo G. Gervasutti di Torino.
Un lungo ricordo commosso dei protagonisti scomparsi nella tragedia del Pilone Centrale del Frêney da parte di Pierre Mazeaud compare sul numero di settembre del 1964, i fatti ed i sentimenti sono ben rappresentati dall’autore malgrado qualche scivolone nel melodrammatico.
Gli accademici in quegli anni hanno raccontato le loro avventure anche su altre pubblicazioni oltre che sulla Rivista Mensile, ma su quest’ultima troviamo i pezzi più significativi che danno, attraverso i fatti e le emozioni, anche una testimonianza significativa dell’evoluzione dell’alpinismo. Nel 1968 esce un numero della Rivista dedicato all’Accademico, il N° 6 del mese di giugno. Molti sono gli articoli scritti dagli Accademici e l’attualità è rappresentata dal racconto di Andrea Mellano delle salite alle tre grandi Nord: Cervino, Eiger, Grandes Jorasses, dal resoconto della seconda salita della via Hasse alla Torre Innerkofler, ad opera di Marino Stenico e Donato Zeni, scritto da Marino Stenico e la relazione di Gino Buscaini sulla prima salita della Aguja Saint- Exupéry in Patagonia. Racconto semplice e piacevole quello di Mellano che dà la giusta sensazione della dimensione e dell’impegno delle imprese senza scivolare nella retorica drammatica. Piuttosto sugli aspetti tecnici che su quelli emotivi è lo scritto di Stenico e una relazione di viaggio è quello di Buscaini.
Nel suo libro I giorni grandi Walter Bonatti racconta la sua salita invernale al Cervino: via nuova diretta, in solitaria e in inverno, in una sola salita le tre componenti qualificanti dell’alpinismo di punta di quegli anni. Il racconto è essenziale nella sua efficacia e avvincente: come in quasi tutte le rappresentazioni di Bonatti prevalgono volontà, sofferenza, rischio. Con questa impresa il grande scalatore pone la parola fine al suo alpinismo estremo, quasi come se oltre al limite da lui stabilito non fosse possibile creare nulla di più grande. Bonatti ha solo 35 anni e dopo poco meno di 20 anni di dedizione totale all’alpinismo chiude; è difficile capire questa rinuncia anche se egli ne dà ampia spiegazione.
Al di là delle spiegazioni fornite forse l’alpinismo bonattiano con quest’ultima impresa giunge effettivamente al capolinea. Bonatti non si è convertito all’uso del chiodo a pressione, anzi di questa “moda” è critico feroce, ma l’esempio che egli porta in contraddizione non guarda avanti, è rivolto al passato: ad una visione classica dell’alpinismo, e sì che fughe in avanti già si manifestano in quegli anni nell’alpinismo inglese e più ancora provengono dagli scalatori americani. Ma Bonatti questi esempi non li cita.
Negli anni a seguire molte cose cambieranno, verrà rivendicato con forza il ritorno all’arrampicata libera contrapposta alla scalata tecnologica, al dramma e alla sofferenza, cosi evidenziati nelle avventure raccontate da Bonatti. Verrà contrapposta una realtà più ludica e dissacrante. Un esempio è il Nuovo Mattino di Gian Piero Motti e compagni.
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Si comunica che il commento del Sig. Roberto Agostini Bols pubblicato sul nostro blog in relazione all’articolo Gli accademici si raccontano di Ugo Manera in data 28.12.2020 alle ore 18.04 è stato rimosso. Il commento, dal cui contenuto la Redazione prende assolutamente le distanze, non condividendo affatto le valutazioni in esso espresse e il tono adottato, è frutto di una valutazione personale dell’autore del commento, priva di alcun riscontro oggettivo con la realtà. Appena ne siamo venuti a conoscenza abbiamo provveduto ad eliminarlo.
Ci scusiamo quindi con gli amici dell’agenzia di comunicazione Cervelli in Azione, che da anni curano con grande professionalità e passione la Rivista mensile del CAI Montagne360, volendo con questo messaggio rinnovare la stima che questa Redazione ha sempre nutrito nei loro confronti e nei confronti del lavoro che l’agenzia svolge a sostegno di tutto il mondo CAI.
Cominetti. Infatti sei un operaio della montagna, o almeno ti piace presentarti come tale 😎saluti dalla tua Liguria, trasformata in Macondo dalla pioggia.
Caro Pasini, ho sempre notato con disappunto chi si lava le mani dopo avere pisciato. Ho sempre pensato che avesse un cattivo rapporto con il proprio “uccello”. Io le lavo prima e dopo no. Questione di gusti.
Crovella. Carlo, quanti ricordi. Ero un giovane consulente alle prime armi. Incontrai un mitico e temutissimo capo del personale Fiat nei bagni dell’Isvor in via Dante, ambiente tutto maschile dove si formavano gli operai e i tecnici. Mi guardò arcigno e mi disse “ Mi dicono che lei è un ragazzo brillante. Facciamo un test. Come si riconosce in bagno un impiegato da un operaio?” “Non saprei dottore, dall’abbigliamento, da come parla? “Lasci perdere. Glielo dico io. Lei deve ancora fare esperienza. Impari a osservare le persone, L’operaio si lava le mani prima di fare pipì perché ha le mani sporche e siccome poi se le sporca di nuovo, non ritiene di doversele lavare una seconda volta, l’impiegato se le lava sempre dopo.” Nei cessi della Fiat ho imparato che per capire noi umani contano di più i comportamenti che non le apparenze o le parole. Ciao
@54 Pasini: chapeau! Analisi molto professionale, di cui condivido il contenuto e le conclusioni. Preciso che M360 è in edicola, mi pare al prezzo di 3,40 euro (non sono certo). Non sono pubblicamente noti i feedback di mercato, ma sinceramente credo che ne vendano 10 copie (al mese) in tutta Italia, forse meno. La scelta “autogrill” è deliberatamente voluta dalla Presidenza che, come ho già ricordato, ha concluso la precedente redazione (Giorgetta, per chi lo conosce) e ha varato l’attuale modello (che non sto a ripetere: appalto agli assemblatori con contenuti gratuiti dei soci). M360 non è altro che un bollettino sezionale ampliato a livello nazionale. Questo vuole la Presidenza, questo vuole la grande pancia elettorale del CAI. L’unica cosa da fare è dare una spruzzata di qualità con 2-3 articoli “belli” ogni numero.
Cmq concordo che ormai non procediamo oltre a livello di nostro dibattito: chi vuole tirarsi su le maniche è ben accetto. Io non credo nell’ipotesi di “far saltare il banco” (cioè nuova rivista di alto profilo), ma non dovete convincere me, bensì la Presidenza. Avanti! A piangervi addosso perché ci sono solo mucche e fiori non succederà mai nulla, nella rivista resteranno mucche e fiori.
PS: nell’ambiente metalmeccanico torinese anni ’70-80 echeggiava una frase dalla sala presse di Mirafiori su fino ai piani altissimi di Corso Marconi (sde della direzione FIAT prima del Lingotto): “Daine nen da manca ai soegn!” (Più o meno: non dare spazio ai sogni, non correre dietro ai sogni…). Leggende metropolitane, non confermate da riscontri oggettivi, raccontano che perfino l’Avvocato l’abbia citata in qualche riunione… Sapeste quante volte me lo sono sentito urlare addosso (non a caso uso il verbo urlare…). Una volta collaboravo (da giovanissimo economista, consulente esterno) ad un piano di riassetto operativo di un pezzo di Mirafiori e il capo sala presse mi ha letteralmente scorticato vivo con quella frase. Lì ho imparato che i sogni sono una cosa (bella, ma aleatoria), il pragmatismo è tutt’un’altra cosa e fra i due è più importante quest’ultimo. La Juventus “operaia” (centrocampo: Furino-Tardelli-Benetti, tre mastini) ha vinto di più della Junventus “artistica”. PS2: a proposito di salse acide, mi domando: voi non avete mai lavorato in ambienti operativi? A Torino altro che bicarbonato si deve imparare a mandar giù… per questo viene la pelle da rinoceronte. Buona giornata a tutti.
Cominetti. E’ vero. Costa 3.90 € mi pare. Io non l’ho vista esposta nelle edicole che mi capita di frequentare. Hai idea, o qualcuno ce l’ha, di quante copie vende ? Se va a tutti i soci ha una tiratura altissima ( a proposito dello smaltimento 😊)
Pasini, M360 è in vendita nelle edicole. Infatti ha un prezzo di copertina.
Concordo con Di Natale sull’inadeguatezza del paragone qualitativo con Autogrill, ma ci trovo un collegamento. Quando sei in autostrada e hai fame, se non ti sei portato qualcosa da casa, sei costretto a sfamarti in Autogrill alle condizioni che quest’ultima azienda ti impone. Trovo lo stesso concetto applicato a M360.
Infine, siccome non mi trovo d’accordo con nessuna delle “soluzioni” proposte mi chiedo (e poi la smetto) che tipo di carta utilizza M360. Sembra molto plastificata ma non brucia se non quando il fuoco è ben avviato. Si smaltisce (visto che è incollezionabile e su questo mi sembra che siano d’accordo in molti) con la carta o con la plastica? Anche disfarsene è un problema. Grazie.
Gli Autogrill sono stati concepiti per vendere cibo e fare cassa, non per educare il palato degli avventori, quindi il tuo paragone dovrebbe essere sbagliato, almeno per chi concepisce il CAI come organismo formativo.
In realtá il tuo accostamento è probabilmente e tristemente azzeccato.
Come ho già detto, non sono socio CAI e sono fuori da questa disputa “in seno al popolo”. Avendo oggi un po’ di tempo causa pioggia e una certa curiosità, ho sfogliato le ultime annate disponibili in pdf sul sito e le ho confrontate con altre riviste di montagna straniere che guardo con una certa regolarità. Ho trovato conferme di quanto dice Crovella. Non siamo di fronte ad un prodotto che deve andare sul mercato, ma all’organo di una associazione. Quindi siamo in una diversa dimensione della produzione editoriale. Si percepisce inoltre molto bene che rispecchia probabilmente i gusti e gli orientamenti della maggior parte degli associati. Lo dimostrano la proporzione tra pezzi alpinistici e pezzi non alpinistici, il taglio dei titoli, degli occhielli, l’impaginazione, il linguaggio, il carattere e i corpi prescelti, il materiale iconografico (mediamente modesto ma a volte buono, tuttavia spesso sacrificato dalle dimensioni ristrette dell’impaginazione). I temi proposti e gli autori non sono mai troppo controversi o provocatori, si percepisce che non c’è una linea editoriale forte, ma un onesto lavoro di collazione di contenuti abbastanza classici entro schemi consolidati. Quindi gusti e scelte tradizionali, volti non tanto a “colpire e attirare” ma a non scontentare un pubblico ampio. Certamente il prodotto è ben lungi dall’essere “glamourous” , non so in edicola quanto venderebbe, ma non si può dire neppure brutto e imbarazzante. Una dignitosa modestia, un po’ come la cucina degli autogrill o dei motel: non fa male, ti nutre, ma non ti fa certo sognare, perché non è questo il suo obiettivo. Oggi anche molti media sul mercato ottengono il successo proprio rispecchiando e legittimando il pubblico, non proponendo modelli elevati da ammirare come ideali. L’idea di inserire, accanto al panino Camogli o Fattoria, qualche pezzo più sfizioso e magari più moderno potrebbe anche funzionare (lo fa anche Autogrill con grande prudenza). Un “progresso senza avventure”. Certamente un rovesciamento radicale comporterebbe un cambiamento di schema e sicuramente sarebbe un bell’azzardo. Potrebbero eventualmente tentare con qualche numero speciale, per vedere come va. Ultimamente le spinte ad aprire luoghi tradizionali” come una scatoletta di tonno” non hanno dato grandi esiti e hanno portato indietro invece che avanti e quindi è comprensibile lo scetticismo di Crovella (depurato dei sughi acidi con i quali ogni tanto, non sempre, condisce i suoi piatti, ma questo fa parte dello stile dello chef e i lettori dallo stomaco sensibile avrebbero dovuto ormai imparare l’uso del bicarbonato, un grande antinfiammatorio tra l’altro, che dovrebbe ottenere l’approvazione anche dai nostri seguaci delle medicine naturali ed olistiche che imperversano in Totem e Tabù. Domani è un altro giorno rosso.
E se invece il livello della rivista fosse tenuto volutamente basso per permettere a tutti i soci di scrivere la loro senza sfigurare più di tanto? Un altro prezzo da pagare per avvalersi della collaborazione gratuita del volontariato. E magari coi soldi risparmiati occuparsi di altro per allargare il consenso. Due piccioni con una fava.
Ognuno persegue l’avanguardia che predilige. È risaputo che non sono mai stato gramsciano (anche se ne conosco la visione, non fosse altro per i suoi trascorsi torinesi), ma, proprio per questo, oggi come oggi sono infiniramente più proiettato verso il futuro. Lucidamente. Ciao!
Carlo, l’avanguardista da te menzionato è figura storica leggerissimamente diversa dall’avanguardia intellettuale di Gramsci.
Firmato: uno che non si rende perfettamente conto.
A utilizzare il termine avanguardista andate a nozze con me, perché di natura sono strutturalmente proiettato verso il divenire (altro che che involuto…). Solo che so anche stare con i piedi per terra e voi invece non li tenete proprio per terra, i piedi. Vivete sulle nuvole. Nessuno di voi, con l’eccezione di Bianco e di Pasini, che però non e’ socio CAI, si rende perfettamente conto del dane’ complessivo che occorre investire per realizzare quello che proponete. Anche solo il direttore con maggiori deleghe, se ciò corrisponde a una professionalita’ di categoria superiore e soprattutto “investita” a tempo pieno nella specifica mission, richiederebbe un compenso di importo molto maggiore. Figuriamoci l’intero carrozzone richiesto da una rivista di alto profilo: giornalisti, locali, scrivanie, pc, linee telefoniche e wifi, collaboratori laterali (grafici, editor, segretarie…), corrispondenti… Siamo in scala uno a mille rispetto al budget attualmente destinato per far assemblare la rivista da una società che, meccanicamente, assemblea riviste di mestiere e quindi “divide” i costi di struttura sui suoi clienti. Anche ipotizzando di scaricare su una società terza la produzione della rivista di prestigio, gli ingenti costi ci sarebbero lo stesso (indiretti anziché diretti), sennò si ricadrebbe piu’ o meno nell’attuale modello.
E poi: per cosa? Per prestigio? Ma non è più tempo del prestigio cartaceo, con la concorrenza del web gratuito. E soprattutto: per chi? I soci interessati a una rivista di qualità sono davvero quattro gatti spelacchiati. Sul piano intellettuale anche io faccio parte di questa categoria, ma so riconoscere che pragmaticamente non ha senso per il CAI. Soprattutto per il CAI di oggi e di domani. Bisogna partire per le ascensioni che sono alla nostra portata: se un terzogradista si ficca sulla Walker, è molto probabile che ci lasci le penne. Capiterebbe anche al CAI se perseguisse ciò che vaneggiate. La dissonanza è che voi pensate che il CAI sia (ancora) composto principalmente da top player, mentre l’enorme pancia del CAI e’ composta da fungaioli (faccio riferimento a un termine gia’ utilizzato da altri, quindi senza intendimenti offensivi).
Immagino qui per “peso elettorale” si intendesse la rappresentatività di un gruppo di persone in un sistema democratico in cui è la maggioranza a decidere. Mi sembra normale, la difesa della casta non credo c’entrare nulla. Piuttosto sarebbe interessante discutere se in materia di politica culturale sia la maggioranza a dover decidere, con un probabile appiattimento della qualità verso il basso, o se sia più interessante delegare a persone competenti in grado di formare il grande publico a gusti nuovi, magari anche con scelte che all’inizio sembrano impopolari. (Non è niente di nuovo, Gramsci parlava del ruolo delle avanguardie intellettuale.)
Bianco. Hai perfettamente ragione. Solo che un direttore forte professionslmente e con gli attributi è più difficile di gestire ed è più autonomo e dice più no. È sempre la solita storia. Come quando gli azionisti si lamentano del management, ma santa miseria chi ce li ha messi lì perché faceva comodo qualcuno che non si opponesse e non avesse scrupoli! Un po’ come gli italiani e i loro governanti, ma scusa non divaghiamo, anche se in questi giorni è difficile essere sereni e distrarsi dalle priorità del quotidiano.
Basterebbe riuscire ad ottenere un direttore responsabile con ampie deleghe , in grado di sollecitare ed ottenere collaborazioni di qualità , capace di contenere le pressioni non alpinistiche in proporzioni decenti e far arrivare 3 – 4 pezzi interessanti in ogni numero . Molto più facile con soli 6 numeri .
E non penso proprio che ciò sia impossibile ; in fondo anche ai sommi vertici del Club Alpino farebbe piacere e comodo avere una buona ed apprezzata rivista senza spendere un euro in più .
Caro Bianco, me ne guardo bene dal fare proposte. L’editoria non è il mio campo e per di più non sono neppure iscritto al CAI da una vita. La mia era una considerazione di metodo, frutto di conversazioni informali con amici e conoscenti che operano in quel business. Gli spazi sul mercato per i media cartacei si restringono sempre più e la lotta è davvero dura. Trovare la formula per andare avanti richiede grande professionalità e infatti molti si sono schiantati o sono passati all’online. Diverso il caso dei mercati “protetti” degli organi delle associazioni. In questo caso c’è il vantaggio di non dover vendere il numero ogni settimana o ogni mese o l’abbonamento annuale e questo dovrebbe lasciare meno spazio alle pressioni di marketing. Contemporaneamente, tuttavia, la minore pressione tende magari a far sì che ci si accontenti e che si adottino soluzioni a volte obsolete e pigre. Il problema non riguarda solo il CAI, che conosco poco. Io sono iscritto ad un’associazione di categoria piuttosto potente e danarosa (paghiamo cifre elevate di iscrizione e in più riceve generosi contributi dagli sponsor). Ti assicuro che l’organo ufficiale è imbarazzante, sia come contenuti che come forma e veste grafica, tenendo conto anche del pubblico a cui si rivolge. Sembra un giornale aziendale degli anni ‘70. L’illustrato Fiat dei tempi di Romiti era meglio. Tutti i tentativi di promuovere qualche cambiamento si sono scontrati con la burocrazia associativa e forse anche con qualche intresse personale di piccolo cabottaggio, favori agli amici e sodali per intenderci. Vantaggi e svantaggi di non stare sul mercato selvaggio. Quindi capisco che non è un’operazione facile e capisco la proposta di Crovella, che in un gergo antico si sarebbe definita “entrista”. Auguri. Pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà, come al solito.
I ragionamenti sul tavolo riguardano gli articoli da pubblicare prospetticamente, non quelli passati. Se vogliamo far risalire la qualità della rivista, dobbiamo metterci a scrivere a tambur battente da oggi in poi. Quello che abbiamo pubblicato (o non pubblicato) fino a oggi, non conta più per il futuro.
Rispondendo a Marcello Cominetti (32 ) ed Alberto Benassi ( 36 ) : martedì 29 dicembre ho scritto a Luca Calzolari invitandolo a prendere visione della nostra discussione ( eravamo arrivati al nono intervento ) e dire qualche parola in merito …. Purtroppo nessuna risposta ! Ho sempre sperato di veder apparire un suo intervento sul blog o almeno una risposta personale. Assolutamente nulla !
Condivido con Alberto Benassi le considerazioni sul cartaceo.
A mio avviso le soluzioni potrebbero essere due. La prima più semplice e facile da realizzare è quella sostenuta me e Carlo Crovella : collaborare con l’attuale situazione . La seconda , più radicale e difficile , ma anche molto bella : far saltare il banco ! Provare a rivoluzionare tutto ed impostare la linea suggerita da Roberto Pasini . Mai dire mai . Se c’è la convinzione si può tentare .
Io invece articoli per la Rivista, ne ho scritti, ovviamente gratis, eccome.
Articoli non ne ho mai scritti mi sono limitato alla cronaca alpinistica.
Però essendo istruttore del CAI dal 1984 (e non solo) penso di avergli dato tanto alla realtà del sodalizio.
Per pura combinazione cronologica (ovvero NON per farvi uno specifico dispetto, ma perché già da tempo avevo così impostato la mia programmazione editoriale) da domenica scorsa sto scrivendo un articolo che intendo presentare a M360 per un’eventuale pubblicazione (gratis, ovviamente) nel 2021. Non so se e quando uscirà di preciso, primo perché occorre che la redazione legga per intero il testo e lo avvalli, secondo perché è incentrato su un argomento tendenzialmente “estivo” e quindi sarà, se del caso, inserito a fine primavera-inizio estate o addirittura in estate piena.
Questo è l’approccio corretto di chi è genuinamente interessato al “bene” della rivista. Invece ora pongo un’altra domanda: da che si è innescato questo specifico dibattito sul blog, qualcuno di voi ha, per caso, scritto anche solo una riga da mettere a disposizione di M360? Penso di non sbagliare a dire che non è successo. E allora cosa vi aspettate? Prima dare e poi eventualmente ricevere in cambio.
Altro tema: aspettarsi che il Presidente Generale, di sua iniziativa, vada a contattare uno per uno i suoi 350.000 soci, spiegando a ciascuno “la rava e la fava” (modo di dire piemontese, autoesplicativo) è davvero velleitario. Vivete davvero in un mondo che non ha niente a che fare con l’effettiva realtà del sodalizio. Anche su questo punto, però, avete in mano il destino del CAI. Volete davvero cambiare il CAI? Bene, date inizio alle danze: elaborate un programma, raccogliete adesioni, presentatevi in assemblea, battagliate con vigore, vincete le votazioni, salite sullo scranno del Presidente Generale e poi… voglio vedere, a quel punto, cosa combinerete davvero. Soprattutto se sarete capaci di sottrarvi alle morse politico-istituzionali che oggi tanto disprezzate.
Nel frattempo, più prosaicamente: scrivete articoli (di qualità, ovviamente) e inviateli alla redazione.
Ciao!
Crovella caro, sei un caso disperato. Capisci solo quello che già sai. Involuto.
poi ci si domanda perchè la gente se ne frega del CAI, non ha più interesse per la rivista e vede questa organizzazione come un carrozzone di burocrati da cui starci alla larg ilpiù possibile.
Se si fa politica per la poltrona ci credo.
peso elettorale??
quindi il problema sono sempre le poltrone da mantenere!!
Complimenti, lungimiranti! Questo vuol dire avere visione.
Mi ripeto, specie sui questo tema, perché effettivamente mi irrita tantissimo l’atteggiamento che esprimete: non date nessun contributo alla rivista ed anzi “esigete” che il CAI faccia quello che piace a voi, che siete davvero quattro gatti in croce e non rappresentate nessun peso elettorale. Ci vuole tanto a capirlo? La realtà è questa: i tre quarti del popolo CAI non ha nessuna nostalgia della rivista di altro profilo e non capirebbe l’uso distorto di risorse finanziarie a tal fine. Ma quale “governante” prenderebbe una siffatta decisione, mettendosi contro ai 3/4 dei suo bacino elettorale? E chiedete pure che ve lo vengano a dire esplicitamente? Ma dai…
io impiango le belle riviste di un tempo. Mi piace il profumo della carta, un pò come la bellezza delle copertine dei dischi. Mi piace prendere in mano quello che leggo, come avere in mano un fotografia, una diapositiva, piuttosto che invece unì’immagine sul PC. Poi non si può negare la comodità di internet, dove con una veloce ricerca e un clik si trova tutto o quasi.
Posso capire che un’associazione come il CAI, dove ci sono dagli alpinisti estremi, agli escursionisti, ai magiatori di tordelli alle befanate dei rifugi, debba con la sua rivista accontentare e rappresentare un pò tutti e, non fare una rivista tutta tecnica dove si parla di sola scalata.
Ma il livello di adesso della rivista è veramente basso. Come invita Cominetti, la redazione e la presidenza CAI potrebbero intervenire e dare spiegazioni sulle scelte editoriali, magari chiedendo più partecipazione ai soci, stimolare chi ha argomenti ed esperienze vissute ad inviare articoli.
Se lo fa il nuovo direttore di Meridiani Montagne, che spiega in un’intervista la direzioni, le scelte, gli argomenti per la rivista, perchè non lo dovrebbe fare il CAI ?!?!
Caro Marcello, io e te – assieme a quasi tutti gli altri – siamo evidentemente un po’ tonti. È per questo che Carlo ci ripete sempre le cose, ancora e poi ancora. Fino alla prostrazione.
Prostrazione nostra, beninteso, non sua.
Crovella, abbiamo capito come la pensi. L’hai scritto compulsivamente in ogni tuo commento. Dovresti avere la decenza di fare un passo indietro lasciando anche agli altri il tempo di riflettere e magari scrivere qualcosa, se vogliono.
Appunto, il quadro in essere esiste perché siete solo in quattro gatti ad auspicare una rivista CAI di elevato profilo: alla stragrande maggioranza dei 350.000 soci nazionali NON interessa un fico secco. Tanto le info di cui hanno bisogno (sostanzialmente limitate alla combinazione di 1) relazioni di itinerari e 2) resoconti di uscite per aggiornamento sulle condizioni) le trovano gratis su internet. Il popolo CAI non capirebbe l’uso “distorto” di ingenti risorse finanziarie per una finalità (la rivista di eccellenza) che al popolo CAI non interessa minimamente. In ogni caso, non dovete convincere me, ma la Presidenza: prendete carta e penna, stilate un progetto, aggiungete un business plan, spedite il tutto a Presidenza/Consiglio Centrale, chiedendo un incontro illustrativo. Secondo me manco vi rispondono, oppure vi daranno una risposta di circostanza del tipo “interessante, vi faremo sapere”… Ma magari mi sbaglio, finché non si va a “vedere” le carte dell’avversario, non si può avere la certezza assoluta. Nel dubbio, io percorro da tempo un’altra strada, quella di proporre degli articoli di qualità a costo zero per il CAI. Se tutti noi “quattro gatti” facessimo così, anziché perdere tempo a lamentarci sulla qualità della rivista, la rivista migliorerebbe da sé.
Pasini, concordo con te, anche se Meridiani Montagne è diversa anche nei propositi da M360. Intendevo dire a chi continua a non capire che le risorse economiche che il Cai investe per M360 potrebbe impiegarle meglio. Nonostante le previsioni pessimistiche crovelliane, se mi guardo intorno, vedo sprechi di denaro pubblico provenienti da progetti finanziati dai ristori covid. Sarebbe lungo da spiegare…
Poi siamo sempre qui a raccontarcela nei soliti 4 gatti, ma perché non interviene qualcuno della redazione (o il direttore) di M360 per illuminarci?
@27 interessante l’intervista, ma paragonare riviste private e già presenti sul metcato con quella ipotetica di alto profilo del CAI e’ come mescolare pere e cipolle. Il discorso è articolato per cui soprassiedo. Segnalo solo due cose: 1) il CAI non vuole (a livello di alte cariche) e non può investire grosse cifre: se si caricano i costi della nuova ipotetica rivista sulle quote annue di iscrizione, si rischia di perdere consistenti quantitativi di soci, tutti quelli che non sono interessati all’abbonamento implicito e obbligatorio alla rivista; se invece si pensa di scaricare questi costi sul contributo statale, si è fuori dal mondo: le casse pubbliche nel loro complesso sono quasi vuote e dal 1 aprile prossimo lo Stato non pagherà più la cassa integrazione, per cui avremo milioni di disoccupati affamati per le strade e voi ipotizzate di reimpostare una rivista di elevati profilo a carico del contributo pubblico? Politicamente insostenibile. 2) leggo abbastanza regolarmente ma non sistematicamente Meridiani Montagne: non ne parlo assolutamente male, ci mancherebbe, ma non è il mio ideale di rivista, tra l’altro la scelta monotematica per numero non calzerebbe a meraviglia con le esigenze CAI.
Per me la soluzione più semplice è quella che ho gia’ indicato: mantenere l’attuale modello d arricvhirlo con articoli di qualita’. Bastano 20-30 soci, abili di penna, e si ottengono almeno due articoli di qualità per ogni numero. Per noi soci “scribacchini” scrivere un articolo all’anno a testa è uno sforzo minimo, per la rivista sarebbe un tesoro inestimabile. Ciao!
Marcello. L’esempio che ho portato gestito da un grande gruppo come Editoriale Domus, va proprio nella direzione opposta alla parrocchia. Con la buona volontà e il volontariato si fanno i bollettini parrochiali, cose utili e degne nell’ambito di un mercato protetto o di nicchia. Con la professionalità giornalistica, un piano di business e i dane’ si può forse osare ancora sulla carta, forse.
Benissimo, se vi piace la rivista parrocchiale fatevela tra di voi. Mi sembra un dialogo tra sordi. Cambio bar.
Questa volta devo ammettere di essere pienamente d’accordo con gli ultimi due interventi di Carlo Crovella e Roberto Pasini .
Trovo anche che su questo blog non manchino persone amanti della montagna che scrivono bene di vari argomenti interessanti , con ragionamenti coinvolgenti ed intelligenti . Presi dalla passione , non esitano a fare lunghe e circostanziate repliche sostenendo giustamente il loro punto di vista . Se ogni tanto scrivessero anche un articoletto per 360°sarebbe buona cosa per molti di noi . Cordialmente.
Dichiaro in anticipo il conflitto di interessi: Paolo Paci è un amico. Il mondo esterno al Cai si muove. Qualcuno crede ancora nelle riviste cartacee di montagna. Meridiani Montagne cambia direzione e si rinnova investendo. C’è dunque forse ancora uno spazio per la carta se di qualità? Ecco l’intervista al nuovo direttore, Paci appunto.
http://www.mountcity.it/index.php/2021/01/04/i-nuovi-orizzonti-di-meridiani-montagne/
Troverei più utile e maturo fare dei tentativi concreti piuttosto che stare sempre e solo a parlare e basta. Tra l’altro non dovete convincere me, bensì la Presidenza. Allora si prende carta e penna, si stila un prospetto illustrativo del progetto “Rivista di eccellenza”, lo si correda di un business plan e lo si fa pervenire alla Presidenza, chiedendo un incontro operativo. Può darsi che da lì nasca qualcosa, chissà. Io temo di no, secondo me non vi concedono neppure l’appuntamento. Onestamente, quella strada è impercorribile. Oltretutto non è più tempo per impiantare/re-impiantare una rivista cartacea di elevato profilo: a prescindere dalla volontà o meno della Presidenza, occorre mettere su un carrozzone con costi e risorse umane/organizzative/logistiche che non sta in piedi. Inoltre il risultato finale (la rivista di eccellenza) interessa davvero a quattro gatti in croce, specie se parametrati al totale dei soci CAI nazionali. Tra l’altro, in un contesto generale in cui sul web i lettori trovano facilmente e gratis informazione di qualità, ad iniziare proprio dal Gogna Blog. A ciò va aggiunto, cosa che taglia la testa la toro, che la Presidenza ha fatto da tempo la sua scelta esplicita per un altro modello (quello in essere), per cui bisognerebbe combattere contro la Presidenza per riuscire a imporle un progetto che, imprenditorialmente, non ha nessun senso. La vedo dura, ma nulla osta a provarci. Certo non venite a chiedere a me di provarci, visto che io non sono convinto del progetto “rivista di alto profilo”. Chi è davvero convinto di tale progetto, si attivi lui, infilandosi in ‘sta grana colossale.
Sono invece convinto di un’altra cosa, ovvero che basterebbero 2-3 articoli di qualità per ogni numero, stante l’attuale modello organizzativo, e la qualità risalirebbe subito ad un livello più che accettabile. A maggior ragione se gli articoli di qualità dispongono di un contenuto alpinisti/scialpinistico. Lo conferma anche Roby Bianco che cita alcuni numeri specifici (mi pare gennaio 2019 e maggio 2016) dove uno o due o al massimo tre articoli di qualità per numero lo hanno colpito a tal punto che ha conservato quei numeri, mentre gli altri li butta via sistematicamente. Quindi basterebbe che 20-30 soci CAI fornissero ciascuno un solo articolo all’anno di qualità (e gratis, ovviamente) che avremmo 2-3 articoli di qualità per ogni numero (2 articoli di qualità per 12 numeri mensili=24 articoli/anno). Questa impostazione ha diversi vantaggi rispetto al progetto (irrealizzabile) di una nuova rivista di alto profilo: costa poco (anzi nulla in termini marginali: gli articoli dei soci sono gratuiti), non stravolge il modello in essere, non pesta i piedi né alla Presidenza né al direttore responsabile. Inoltre per concretizzarlo non è necessario aprire questioni in seno al CAI né condurre faticose battaglie assembleari. E’ però necessario che gli interessati non perdano tempo in lamentele improduttive e si concentrino a confezionare degli articoli di qualità per proporli alla redazione. Orsù, dunque: se siete davvero interessati alla qualità della rivista, scrivete articoli e inviateli. Ho già detto che non è obbligatorio fare così, ma allora (cioè se non siete disponibili a inviare articoli gratis alla rivista), meglio che tacciate sul tema. Continuare a lamentarsi e basta è indisponente, irrita la Presidenza/redazione e irrita anche quei (pochi) soci che il loro contributo lo danno. Buona giornata a tutti.
Crovella io non frigno ma mi sono rotto il cazzo di tanta mediocrità, e lo dico.
Buonanotte.
Ho dimenticato di ri-precisare che, accanto al direttore responsabile, c’è una task force, più o meno informale, di persone di provata esperienza alpinistica ed editoriale, con l’obiettivo di definire i contenuti dei numeri. Tali contenuti a loro volta si interfacciano con quanto giunge spontaneamente dai soci. Il fuoco in gran parte si fa con la legna che arriva. Se (aderendo all’invito di Roby Bianco) ci impegniamo a fornire tanta “bella” legna, il fuoco brillerà di più, anche senza cambiare il modello organizzativo. Buonanotte a tutti.
Temo che non sia chiaro a tutto che gli attuali vertici nazionali hanno preso da tempo la loro decisione sul tema rivista, quando hanno destituito la precedente redazione Giorgetta e hanno affidato l’incarico non di “fare” la rivista, ma di “assemblare” la rivista all’attuale società bolognese a fronte di contratto remunerato e con precisi termini temporali. Questi signori, ad eccezione del direttore responsabile, sono soggetti operativi (segretarie, grafici, editor ecc), che di montagna sanno poco o addirittura nulla. Non è una colpa: nessuno nasce imparato, difatti io stesso rinfaccio la decisione ai vertici CAI, non ai bolognesi. Ma la decisione e’ operativa e non può essere smontata sui due piedi solo perché lo chiedono quattro gatti. Inoltre: proprio perché gli assemblatori non sanno nulla di montagna, i contenuti della rivista arrivano fondamdntalmente dai soci. Questo è il modello esplicitamente scelto dalla Presidenza, che a sua volta tiene conto delle preferenze del popolo CAI. La rivista “di eccellenza” (che presuppone tutto un’altra modello organizzativo) interessa solo a quattro gatti e non credo che la Presidenza si ponga neppure il problema di modificare l’attuale modello. Se ritenete che valga la pena provare a cambiare l’impostazione a monte, dovete elaborare un nuovo progetto e portarlo sul tavolo della presidenza. A mio modesto parere, si insabbiera’ li’. L’alternativa è cambiare la presidenza, ma per farlo occorre avere i numeri in assemblea (discorso gia’ fatto in passato sul tema generale del CAI, per cui non mi ripeto). Temo che anche in assemblea vi scornerete perché la maggioranza del popolo del CAI non corrispinde a quello che avete in testa voi. Restando allo specifico tema della rivista, io per primo ho ben chiare le attuali magagne di M360, ma NON auspico un cambiamento strutturale di modello, perché la rivista di eccellenza non e’ (o forse non e’ più) nelle corde del CAI (cioè non interessa alla stragrande maggioranza degli attuali soci, i cosiddetti “non alpinisti”) e presuppone degli investimenti che non sono più sostenibili, specie con il giro di vite prospettico post Covid che, secondo me, coinvolgerà tutte le istituzioni parapubbliche. Io mi accontenterei di rialzare marginalmente la qualità dell’attuale rivista (mantenendo inalterato il modello organizzativo in essere), attraverso un maggior numero di articoli di qualita’. Sempre però nella tradizione del volontariato CAI, cioè articoli forniti gratuitamente dai soci. Non è obbligatorio: se non vi piace collaborare gratis con M360, siete liberissimi di non farlo. Tuttavia, chi non da’, non può pretendere e e inoltre le lamentele prive di disponibilità operativa non producono nulla e non cambiano la situazione. Se non vi aggrada la collaborazione gratuita, M360 non migliorerà neppure di un millimetro. In tal caso, piuttosto che stare sempre a frignare, troverei più illuminato non aprire neppure la rivista. Io sono più pragmatico e investo tempo e denaro per elaborare dei testi che poi presento alla redazione. È il mio piccolo contributo concreto per migliorare la qualità. Se ragionassero così 20-30 soci, ovviamente capaci di redigere testi di qualità, la situazione migliorerebbe già in modo eclatante, senza avventurarsi in strade che non sono sostenibili dall’attuale CAI.
Crovella ma mi prendi per scemo?
So benissimo tutte le cose che hai scritto ma il mio commento (anche tu non leggi bene a volte, hai hai hai…) poneva l’accento sul fatto che il Cai si fa fare la rivista da terzi e questi non la sanno fare, secondo me. Magari saranno bravissimi a fare un sacco di altre cose, ma non M360. Sono inserzionista a pagamento (non aggratis come certi raccomandati, e qui mi fermo perché sono già stato minacciato da avvocati, presidenti, ecc…) da decenni per la pubblicità anche con la mia ex agenzia di trek e spedizioni che ho lasciato nel 2010 e qualche decina di migliaia di euro li ho pagati alla GNP ovvero l’agenzia che è concessionaria per il Cai della pubblicità. Inoltre gli spazi sono costosissimi e per fortuna come guida alpina godo di un piccolo sconto vista la mia lunga fedeltà alle pagine pubblicitarie di M360 ora e de La Rivista prima.
Quindi parlo anche in relazione a questa mia esperienza. Non sono un socio e basta ma un professionista.
I contributi volontari in articoli dei soci vanno già a finire nelle migliaia di riviste sezionali, lo faccio anch’io con le Alpi Venete e Quota Zero, ma a M360 non mi sognerei mai di regalare materiale prodotto da me. In pratica: un’agenzia viene pagata dal Cai per “fare” la Rivista ma quest’ultima non piace alla più parte dei soci. Forse non è che si dovrebbe pensare di farla fare a qualcun altro?
Personalmente non ho niente contro l’agenzia Cervelli in Azione che “fa” la Rivista M360, ma la Rivista è di bassa qualità e mi piacerebbe che venisse fatta da persone più competenti, perché in Italia da quando hanno chiuso RdM e ALP non ci sono più state testate degne di nota e lo ritengo un peccato.
Pensate che bello sarebbe avere dal nostro Cai una Rivista come quelle di una volta, quelle che si collezionavano per intenderci. Per farla basterebbe che il Cai si rivolgesse a un team di esperti. Li pagherebbe al posto di altri con la differenza che avremmo una pubblicazione di qualità migliore. Potremo diventare un’eccellenza, visto la storia che abbiamo alle spalle e l’attività odierna. L’alpinismo italiano ha fatto e continua a fare scuola nel mondo ma su M360 si esibiscono alpinisti spesso piuttosto mediocri che solo agli occhi di incompetenti o di gente “fuori dal giro” appaiono come i migliori. C’è da mettersi le mani nei capelli!!!
Poi concordo con te quando dici che si rischia legalmente pur dedicando tempo gratis a cause in cui si crede, ma questo è il grosso limite del volontariato, fenomeno nobile ma che purtroppo viene sfruttato abilmente da chi ci vede un modo per coinvolgere risorse umane risparmiando.
Da sempre le collaborazioni dei soci CAI con le iniziative dei CAI (dalla commissione rifugi alle gite sociali, dal ruolo di istruttore/direttore a quello di autore di articoli per la rivista, passando per infinite altre ipotesi) sono esclusivamente GRATUITE. Nel mio piccolo io sono istruttore titolato da 40 anni in più scuole e con svariati ruoli di responsabilità e non ho mai preso una lira, anzi da direttore di scuola ho smenato tanti di quei soldi in spese spicciole (telefonate, sopralluoghi, convegni ecc) che, sul piano prettamente contabile, è stato un investimento a perdere, non una fonte di remunerazione. Con l’appesantirsi della burocrazia tecnico-giuridica, molti ruoli (Presidente di Sezione, Direttore di Scuole o di Corsi, Responsabili di Commissioni rifugi ecc ecc ecc) comportano addirittura il potenziale rischio di farsi raggiungere da “avvisi di garanzia”… C’è da non dormire la notte, altro che fare i conti su quanto si può incassare. Eppure è pieno zeppo di gente che lo fa, perché lo spirito dominante NON è quello che anima molti di voi, ma esattamente l’opposto: volontariato puro, anzi “investimento” di tempo e denaro personali. Sono convinto che il suggerimento di Roberto Bianco (da cui è partita questa serie di riflessioni) ha lo stesso ceppo ideologico cui mi ispiro io: infatti a nessuno di noi passa per la testa di chiedere soldi alla rivista CAI, né alle riviste sezionali cui collaboriamo più o meno istituzionalmente. Invece se vi aspettate contributi economici peri vostri eventuali articoli pubblicati su M360, allora sono io il primo a dirvi che è meglio che stiate ben lontani dalla rivista: non è il vostro mondo, cioè voi non avete la mentalità giusta per quel mondo. In tal caso, è chiaro che la rivista non vi piace: esprime una ideologia che, rispetto alla vostra, è esattamente l’opposto. Di conseguenza vi suggerisco di non aprirla neppure: vi infliggete solo delle inutili sofferenze. Meno che mai ” c’azzeccherebbero” i vostri eventuali articoli: stonerebbero come il parmigiano sugli spaghetti allo scoglio.
Crovella, io non sono tra quelli che mancano all’appello, ma gli articoli li scrivo se me li pagano e lo stesso vale per le foto. Quelli per “beneficienza” li pubblico sul mio sito. Il Cai elogia il volontariato quando gli fa comodo ma l’agenzia che gestisce M360 immagino lo faccia a titolo commerciale.Senza scomodare gran consigli, elezioni e direttivi, bisognerebbe che semmai questi ultimi si guardassero allo specchio per decidere cosa fare dell’organo istituzionale editoriale. Non dimentichiamo che l’organo di informazione è Lo Scarpone presente ormai solo online.
Se il Cai volesse pubblicare una Rivista prestigiosa dovrebbe fare un bando per trovare le menti, penne e persone d’azione e cultura alpina e alpinistica. Allora vedresti che risponderebbero in molti, perché queste persone in Italia non mancano.
Ma finché M360 sarà una pubblicazione per fungaioli (con tutto il rispetto) verrà criticata dagli alpinisti. E vorrei ricordare che agli alpinisti non piacciono solo appigli e piccozzate ma anche tutti gli aspetti storici e culturali connessi. Lo dico prima che tu attacchi una delle tue solite pippe accademico-liriche sulla montagna che ben conosciamo.
Cerchiamo di essere sintetici. Baci.
Per la precisione ho detto che non sono così negativo, come voi, sulla rivista, non ho detto che la amo da impazzire. Registro la rarefatta presenza di articoli di alpinismo, ma soprattutto la rarissima presenza di articoli di qualità. Non credo sia una questione di redazione (parlo di quella, informale, che gestisce i contenuti, non di quella operativa che in effetti di montagna non sa nulla…). La radice del problema è a monte, ovvero nelle scelte dei massimi vertici del CAI. La rivista è l’organo di stampa dell’associazione e riflette le scelte strategiche dei vertici. Però va ricordato che i vertici, seppur indirettamente (attraverso i delegati sezionali all’assemblea nazionale), li eleggiamo noi soci. Se non ci piace una certa modalità di gestione, all’interno della quale si inserisce anche la linea editoriale della rivista, basta che eleggiamo altri individui. Però succede che, alla fine, mai nessuno di alternativo si propone, né per i ruoli di vertice dell’associazione, né per quello di direttore della rivista e neppure come semplici autori. Iniziamo dal facile, cioè dagli articoli: scriviamo tanti articoli “belli”, cioè di qualita’, e inviamoli alla redazione. Solo se quest’ultima dovesse respingerli sistematicamente, allora saremmo giustificati nel criticarla così aspramente come voi gia’ fate. Allo stato attuale, osservandovi il quadretto che ne esce è quello dei pensionati che vanno a guardare i cantieri, volendo insegnare come si fa. E’ un modo di fare che non produce nulla. Io cerco di dare un contributo di qualità alla rivista: ho pubblicato una dozzina di articoli in circa 5 anni. Alcuni di alpinismo, altri di scialpinismo, altri ancora di storia o di cultura alpina. Ho sempre incontrato grande disponibilita’ da parte dei redattori “alpinistici”, ma ho sperimentato che non è facile lavorare con l’ambiente operativo (per i motivi gia’ espressi), però alla fine il mio piccolo mattone l’ho messo per dare un po’ più di qualità alla rivista. Altri lo hanno fatto, cito Giorgio Daidola, visto che e’ un lettore di questo blog, ma non è l’unico. Molti di voi, invece, mancano all’appello. Sparare a zero senza mettersi in gioco non risolve il problema. Ciao!
Aquile e fagiani a parte (comunque tra i due volatili ci sono sostanziali differenze) mi sembra che M360 abbia perso l’occasione per essere la migliore pubblicazione cartacea nel nostro paese. Le riviste che oggi “insistono” a uscire in edicola non sono di certo eccelse pure loro. Manca un’intellighenzia che le diriga e sarebbe molto bello, e non impossibile, partorire qualcosa alla Alpinist sotto l’egida del Cai.Purtroppo i tempi dei Camanni & Mantovani (e collaboratori) sembrano essere ormai passati in Italia e l’editoria privata forse ha troppi pochi soldi per intraprendere progetti validi. Oggi manca soprattutto un’ideologia di base e si ha paura di scontentare qualcuno accontentando altri in relazione agli argomenti trattati. Mancano le palle, in parole povere, perché un po’ come succede nella politica (che iddio me ne scampi) si vuole essere benvoluti da tutti, dai negri a quelli che i negri li vorrebbero arrostire. Vedi la polemica tra Toti e Rixi (stesso partito) sulla prima nata a Genova nel nuovo anno: una bellissima bambina GENOVESE perché lì è nata, ma figlia di nigeriani. E cosa sarà per una città in cui c’è sempre stata gente di colore che parlava il dialetto stretto nei carruggi…Tornando alla rivista mi sembra che l’attuale redazione non c’acchiappi molto e mi piacerebbe sapere se, a parte gli alpinisti che si annoiano mortalmente a leggere di ricette, funghi e erbe mediche, insetti e pastori pentiti, tutti gli altri (escursionisti, ciaspolatori, birdwatchers, rockwallwatchers, sciclubbari, magliacalzettisti & C.) la bgradiscono così o no. Fanno parte del Cai pure loro, no? E allora ci facciano sapere per favore. Il nostro parere di alpinisti sudo ma godo col ghiaccio nelle orecchie l’abbiamo già espresso ampiamente, mi pare.
Non capisco come Carlo Crovella riesca a trovare interessante l’attuale Rivista , ma rispetto l’opinione . Meno male che non siamo tutti uguali ! Concordo con il resto e ribadisco con vigore che trovo appropriato e giusto che il Club alpino abbia una sua rivista cartacea possibilmente di qualità migliore . E’ evidente che la formula attuale non va bene e qualcosa va cambiato e mi sono permesso di dare dei suggerimenti per provare a migliorare .
Proseguendo , devo dire che le parole di Luciano mettono tristezza , e chiedo scusa se mi sbaglio , ma mi sembrano le parole di uno che, amareggiato , ha smesso di lottare . Non ci si può dichiarare ex- alpinista , ex tesserato ! Alpinisti si resta fino alla fine , almeno mentalmente. Dopo una certa età si può continuare con ancora un buon scialpinismo ed escursionismo spinto con qualche puntata di alpinismo facile. Conosco ancora persone tra i 50 e 70 anni che praticano un alpinismo classico di ottimo livello ed avrebbero tanto piacere di leggere qualche bel articolo sulla Rivista del loro Club alpino italiano. E sottolineo ” alpino” . E penso proprio che siano anche orgogliosi dello stemma con l’aquila.
Preciso però che io non sono così negativo sulla attuale rivista, però si tratta di una valutazione personale (…de gustibus). La leggo con gusto e le conservo tutte. Per il resto, avendo come obiettivo strategico quello di rialzare la qualita’, concordo sulla necessità di un maggiore presenza di articoli di alpinismo, purché si tratti di articoli di qualità. Questo è il vero punto: non è detto che un articolo, solo perché e’ di alpinismo, sia un testo di qualità. Mi piace molto l’accenno alle aquile! Anche qui il tema è teoricamente tutt’altro che assodato, come lo consideriamo noi della vecchia scuola. Proprio sul Blog, qualche mese fa, si è seriamente proposto di modificare lo stemma CAI, poiché “obsoleto”, in particolare per l’aquila. Io non concordo, ovviamente, ma riporto l’episodio per testimoniare che le visioni che emergono oggi non sono sempre quelle cui siamo abituati noi. Che dire, ci sono evidenti e diffusi muri di gomma impliciti che, a mio parere, oggi renderebbero complicato fare con M360 quello che avete fatto voi con Scandere. Si può invece proporre alla redazione, quella che si occupa dei contenuti, testi di qualità. Questa è la strada maestra e io, nel mio piccolo, mi muovo da tempo in quella direzione. Se siamo in tanti, avremo più probabilità di raggiungere l’obiettivo. Ciao a tutti!
Vorrei puntualizzare con Carlo Crovella due punti importanti .
Penso che senza distinzione di patacche , tutti coloro che amano la Montagna siano diventati , con dispiacere , ” prevenuti ” verso la Rivista mensile del Club alpino italiano a causa dell’infimo livello raggiunto . Di conseguenza verrebbe spontaneo applicare un vecchio detto piemontese che tradotto in italiano suona più o meno così : ” Non bisogna dare il boccone buono al porcello ! “. Diciamoci la verità : allo stato attuale la Rivista è uno spreco di soldi e di carta. Dai vostri commenti ne deduco che è un sentimento diffuso non solo tra gli accademici , ma tra moltissimi soci . Quindi bisogna cercare di fare concretamente qualcosa per migliorare la situazione. Toccherebbe ai giovani alpinisti attivi ed operativi sul campo iniettare energie e nuova linfa nella Rivista ( ottimo esempio è Matteo Dellabordella ).
Secondo punto : la Rivista deve riflettere tutte le componenti del mondo della Montagna ! Va bene fino ad un certo punto ; ma quando i corollari soffocano il tema principale non mi va più bene. Si parla di mucche , di fiori e piante , di insetti , di formaggi , di cori e non si parla più di ALPINISMO ! Quasi zero !
Su questo blog Ugo ha ricordato con un bel articolo dal titolo” Le mani su Scandere “una vicenda in parte analoga anche se in forma assai più lieve, avvenuta più di quarant’anni fa . L’annuario del Cai Torino stava scivolando sulla stessa china : erano usciti articoli pseudo-storici su Napoleone che si era inciampato a cavallo , coleotteri, bocciofile , cori e merende e via cantando. Tutto ciò a scapito dei contenuti Alpinistici. Ci ribellammo e venne alla luce Scandere 79 .
Mi parrebbe corretto proporre un 50% di Alpinismo e Scialpinismo ed il restante 50% suddiviso tra i più differenti aspetti del mondo alpino. Ricordiamoci sempre che sul distintivo del Club ci sono le aquile e non i fagiani ( pensiero di Renato Chabod ).
Concordo con Roberto sull’opportunità di “ridurre” M360 a 6 numeri annui, per privilegiare la qualità alla quantità. Concordo nella sostanza, ma nella forma solo in parte, con l’ultimo intervento di Ugo, al quale (data la reciproca conoscenza di lunga data) mi permetto amichevolmente di obiettare che i soci del CAAI (per un osservatore esterno) danno l’impressione di essere loro i “prevenuti” verso la rivista CAI e non viceversa: preferiscono tenere i loro bellissimi scritti per l’annuario CAAI (che di fatti è bellissimo) oppure per i vari siti internet, fra cui in primis il Gogna Blog. Perché non vi fate vivi voi con la redazione (quella dei contenuti, non quella meramente operativa) di M360 proponendo articoli di vostra mano? Non credo proprio che ci sia prevenzione nei vostri confronti, sarebbero tutti felicissimi e prenderemmo due piccioni con una fava, come si dice in gergo. La mia sensazione è che la redazione di M360 non venga a sollecitare voi accademici perché teme una serie di rifiuti con un fondo un po’ snob. Se viceversa siete voi a rompere il ghiaccio, i rapporto potrebbero ristabilirsi e irrobustirsi in futuro. E’ una mia impressione, va verificata all’atto pratico, ma sono abbastanza convinto che sia fondata.
Che poi il modo di fare redazione alpinistica sia mutato con i tempi (specie rispetto a quando Ugo e GPM facevano parte della redazione che allora aveva base a Torino, se non ricordo male) è purtroppo un fenomeno generalizzato. Sottolineo purtroppo, perché è un male profondo ed io stesso, nel mio piccolo, mi devo arrabattare, facendo i salti mortali con il nuovo corso. Il fenomeno, che non riguarda solo la rivista CAI ma tutte le redazioni sia cartacee che on line (ad eccezione del Gogna Blog, ovviamente…) si porta dietro altri fastidiosi risvolti, quali l’attuale incontrastata propensione per foto di impatto (alpinisti vestiti in modo sgargiante, in pose plastiche, primi piani o semi-primi piani che potrebbero esser stati scattati ovunque…), a scapito di foto panoramiche che viceversa sono più istruttive per comprendere la morfologia delle montagne o delle pareti di cui parla lo scritto; la già citata preferenza per testi stringati, superficiali, poco analitici; lo scarso interesse per approfondimenti in qualsiasi campo e viceversa trattazioni semi-promozionali sia di località che, soprattutto, di nuove discipline o di nuove versioni delle discipline tradizionali… l’idea di fondo, che si analizzi M360 o qualsiasi altra rivista (anzi, le altre sono anche peggio!) , è “fare nuovi adepti”. C’è il sottile sospetto che domini una specie di pubblicità sotterranea, di nuove attrezzature, di nuovi sport, di nuove location turistiche. Ribadisco, trattasi di un male generalizzato, in cui confluisce anche M360 più che altro perché, in seno ai massimi vertici CAI, non c’è lo stimolo né l’interesse ideologico ad andare contro corrente.
Approfitto però dell’occasione per puntualizzare un altro concetto. Voi tutti, alpinisti dalla passione genuina e indubbia, partite da un presupposto che io giudico incompleto, se non addirittura errato. Cioè che gli articoli “belli” siano esclusivamente gli articoli di alpinismo in senso stretto (salire e scendere le montagne, al limite con gli sci). In realtà non è così: la cultura della montagna è trasversale e invade mille risvolti. Quando leggo (sia chiaro scritto in assoluta buona fede) che M360 è oggi piena di testi di mucche, piante, sentieri e alpinismo giovanile (attività in realtà fondamentale per il CAI perché è il vivaio in cui formiamo i nostri soci futuri: a Torino la tradizione è così profonda e radicata nel tempo che è stata trasformata in una vera e propria Scuola), la cosa mi amareggia. Lo dico senza malanimo, ci mancherebbe. Che in M360 manchino articoli di alpinismo è un conto. Che questi ultimi debbano riempire l’intera rivista a scapito di mucche e piante, è un principio che non condivido e lo troverei un fenomeno negativo. Nella stessa tradizione della Rivista CAI c’è sempre stato spazio per i temi che rientrano nel più generale concetto di “studio delle montagne, in particolare italiane” (mi pare sia il succo dell’art 1 dello Statuto CAI, tuttora in vigore). Lo so per certo anche per esperienza diretta: mia moglie, in quanto botanica in campo universitario, si occupa di vegetazione alpina (in particolare di alta quota) e, per fare i raffronti storici dei mutamenti della vegetazione a parità di quota (ahimè è un’ulteriore conseguenza del riscaldamento globale), utilizza articoli di botanica pubblicati sulle riviste CAI anche dei primi decenni del ‘900. Si tratta di preziosissimi riferimenti storici che, senza la Rivista CAI, non esisterebbero e che testimoniano che, fin dalle origini, il contenuto della Rivista CAI non era limitato al solo alpinismo in senso stretto.
La mia conclusione è: sposo in pieno l’idea di ridare elevata qualità alla Rivista CAI (che dovrebbe essere la migliore nel settore editoriale nazionale), ma non condivido la limitazione dello spezio ai soli temi alpinistici in senso stretto. Sarebbe un limite che ridurrebbe il numero dei lettori anziché aumentarlo. E questo la Rivista CAI non può permetterselo istituzionalmente, perché è il trait d’union fra il Club ce i suoi 350.000 soci nazionali. Occorre incuriosirli tutti, con una programmazioni che verta su una vasta gamma di contenuti. Buon week end a tutti! Ciao!
Tutte condivisibili le opinioni di Roberto Bianco e Carlo Crovella ma io non credo che basti aspettare che la collaborazione qualificata piovi dal cielo perché dovuta alla Pubblicazione Ufficiale del CAI. Sono convinto che bisogna anche cercarla, sollecitarla e selezionarla e soprattutto bisogna essere competenti ed aggiornati in alpinismo. Così si faceva negli anni ’70 quando Gian Piero Motti ed io facevamo parte del comitato di redazione. Gli alpinisti continuano a raccontare le loro storie antiche e moderne, basta scorrere Gogna Blog, Sherpa, Valli di Lanzo in Verticale, il sito della Gervasutti ecc. e per restare nel cartaceo: l’Annuario dell’Accademico, UP Climbing e certamente altre pubblicazioni che io non ho occasione di leggere. Molti scalatori sono però un po’ restii a proporsi, occorre fare azione di promozione e creare il clima giusto. Credo che il difetto della nostra attuale rivista dal titolo così infelice e brutto sia da ricercare nel manico.
Grazie a Carlo Crovella per il suo intervento che apprezzo . Ho scritto personalmente ad alcuni componenti della Redazione della Rivista invitandoli a replicare alle nostre osservazioni su Gognablog : purtroppo nulla !
Ma non scoraggiamoci e proviamo a dare legna da ardere alla Redazione seguendo l’esempio di Gobetti , Daidola , Crovella ed il formidabile Dellabordella. Avere una Rivista interessante sarà il premio per tutti noi.
Un suggerimento : forse sarebbe meglio uscire con soli 6 numeri , ma più curati e ricchi di contenuti validi .
Condivido in pieno quanto affermato da Roberto Bianco. In realtà la verità sta un po’ nel mezzo: certamente non depone a favore dei vertici CAI l’aver appaltato l’assemblaggio della Rivista a una società che, di mestiere, produce riviste di qualsiasi tipo e natura. La redazione spicciola (dalle segretarie ai grafici, agli editor…) fa riviste (di ogni genere) e non fa in modo specifico riviste di montagna. Questo è il problema. Si tratta di un grosso limite, anzi diciamo pure di un marcato errore strategico, che io per primo (da socio) rinfaccio ai vertici CAI. Ciò premesso, esiste una task force concettuale di stampo alpinistico che gestisce i contenuti di M360. Non voglio fare nomi, ma sono tutte persone di affermata esperienze e affidabilità, sia alpinistica che editoriale. Io parlo spesso con gli esponenti di questa task force e loro sono i primi a dirmi che “fanno il fuoco con la legna che hanno”, ovvero con la legna che arriva loro dal mondo dei soci CAI. Il fuoco nel complesso è modesto perché, salvo eccezioni, la legna è modesta. Ma la colpa non è dei tanti soci CAI di medio-basdo livello (sia alpinisti che editoriale) che scrivono con entusiasmo e buona fede, anche se gli articoli sono di scarsa qualita’. La colpa è che i soci potenzialmente in grado di scrivere articoli “belli”, non li propongono alla redazione, o li propongono in numero molto limitato. Quando arrivano articoli di spessore, in redazione (parlo della task force) fanno salti di gioia. Io non ho mai avuto problemi con loro, anzi mi fanno sempre ponti d’oro. Se siete lettori attenti, avrete notato anche firme di rilievo, dal gia’ citato Giorgio Daidola fino addirittura ad un paio di testi redatti da Andrea Gobetti, certo non una firma conformista e “filogovernativa”. Quindo non c’è nessuna preclusione, da parte della redazione, agli articoli “belli” di alpinismo, da chiunque provengano. Quindi basta proporli: li aspettano con piacere. Il punto è che gli alpinisti impegnati, oggi, storcono il naso a scrivere per il CAI, percepiscono che è una “diminutio” uscire su M360. Inoltre il web ha il vantaggio (che anche io preferisco) dell’assenza di limiti di spazi. Le riviste cartacee (non solo quella del CAI, ma tutte), oggigiorno, prediligono articoli corti, sintetici, poco analitici. Hanno pochissimo spazio a disposizione. Insomma testi tendenzialmente “superficiali” e questo è un problema per autori vecchia scuola, come me e molti altri. Io detesto quell’impostazione e mi sono accorto che, a parità di probabilità di pubblicazione, tendo ormai a prediligere il web. Forse se M360 si trasformasse in un magazine totalmente informatico, molti autori di prima fascia tornerebbero a frequentarlo più assiduamente. Temo però che i tempi (di tale ipotetica evoluzione verso il web) saranno lunghetti. Inoltre io per primo, questa volta da socio-lettore, farei resistenza perché mi piace conservare la Rivista cartacea, anche i numeri della versione recente. Ho la collezione completa: sono un feticista di magazine di montagna. Il web è bello ma…passa via veloce. La carta resta. Per questo auspico una strutturale ripresa qualitativa della Rivista e mi accodo alla conclusione di Roberto Bianco: scrivete, scrivete, scrivete!
L’avremmo dovuto capire solo dal nome della rivista.
questo è vero, è una riflessione che ho fatto anch’io. Perchè sulle riviste dovrebbero essere pubblicati solo articoli di personaggi conosciuti?
Molti potrebbero portare il proprio contribuito di alpinisti non professionisti, domenicali, ma comunque ricchi di interessanti e originali esperienze da raccontare.
Condivido il giudizio poco lusinghiero dato nei vostri commenti sulla Rivista del Club alpino italiano . Un vero peccato .
Perché si é arrivati tanto in basso ? Non sarà forse anche un poco colpa nostra , che gradiremmo leggere tanti interessanti articoli di Alpinismo , ma ci guardiamo bene dal collaborare e proporre argomenti ed articoli validi. Guardiamo per esempio il numero di gennaio 2019 : ci troviamo uno splendido articolo ” Ski Spirit ” di parecchi bravi autori tra cui brilla Giorgio Daidola, segue un bel pezzo di Domenico Sinapi ” Il grado non è tutto , riflessioni sull’avventura “, ed infine una mia testimonianza sul nuovo mattino, che può piacere o meno , ma senz’altro parla di Alpinismo.
Tutto sommato un bel numero , che ho conservato con piacere insieme a quello del maggio 2016 in cui Carlo Crovella ci regala un magnifico articolo su Giusto Gervasutti, a cui segue Tamara Lunger sul Nanga Parbat.
Proviamo a collaborare e probabilmente la Rivista migliorerà
Nulla per il nulla, che è sempre più maggioranza. Nulla che non puzza di me, di te o di culo di vecchia.
Non lo so quale sia il problema . Mancanza di idee? Non c’e più nulla da raccontare? Problemi economici? Con i vari social la carta non attira più il lettore?
Ma come dicono Fabio ed Emanuele la rivista del CAI è veramente deludente. Va bene che la montagna non è solo alpinismo , ma cosi è veramente nulla.
Come Bertoncelli ritengo che l’attuale rivista del CAI abbia raggiunto un livello molto basso e il comitato di redazione ha da tempo abbandonato purtroppo il “racconto” dell’alpinismo per dedicarsi a varie attività turistiche e ricreative. Una rivista inutile!
Alpinisti che non scrivevano.
E’ decisamente una bella analisi di ciò che si trova in quegli scritti.
Condivido senza dubbi e senza alcuna fatica la presa di distanza dall’alpinismo eroico e dall’abuso di chiodature per aprire vie nuove superverticali perchè già a suo tempo erano aspetti che mi disturbavano e che spesso invadevano le pubblicazioni di allora. Ricordo ad esempio, sulla rivista del CAI, un kilometrico articolo di Rudatis che sproloquiava sui criteri, secondo lui oggettivi, con cui valutare la difficoltà delle vie. L’accanimento in materia non serviva a dare corrette informazioni per i ripetitori informandoli su ciò che avrebbero trovato, ma ad avere una indiscutibile scala su cui valutare le capacità alpinistiche. Un fondamento scientifico al narcisismo in montagna.
E’ per questi e altri motivi che non ero affascinato dalla letteratura alpinistica.
Mi disturbavano molto, sulle guide delle dolomiti orientali del Berti, le sue note sugli episodi della grande guerra. Avrei voluto sapere anche di più su ciò che era accaduto su quei monti, ma non attraverso quell’ottica distorta da inaccetabile patriottismo eroico.
Avevo trovato una eccezione nei due affascinanti libri di Tita Piaz, un ladino innamorato delle sue dolomiti e dell’alpinismo esplorativo. Era l’unico in cui potevo identificarmi.
Ce ne saranno certamente esistiti altri, ma a me è bastato leggere l’autobiografia di Herman Bull (con la raccapricciante conclusione di Kurt Dienberger) per vederci il testo sacro di un alpinismo da cui ero non solo lontano, ma decisamente contrapposto.
Eppure ho conosciuto tanti alpinisti del tutto estranei a quelle sgradevoli distorsioni dell’alpinismo. Direi che in quei tempi gli alpinisti erano molto meglio della letteratura sull’alpinismo.
Pensare che l’alpinismo sia stato quello degli scrittori di alpinismo sarebbe fare un torto agli alpinisti di allora, a quella maggioranza che la loro montagna se la vivevano, non si vantavano delle loro bravure, non scrivevano.
Poi molto è cambiato; quasi sempre in meglio, direi.
Geri
La “Rivista Mensile del CAI” negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta era magnifica. Ne ho recuperato le copie arretrate, che conservo gelosamente. Cosí pure era in precedenza (anni Trenta e Venti, ecc.).
Da almeno due decenni invece, dopo una rapida lettura, la rivista passa direttamente nel cestino. Non vale la pena conservarla. L’alpinismo classico non è quasi piú trattato. Ci sono appena vaghe notizie di alpinismo extraeuropeo, e poi soltanto arrampicata sportiva con relative gare, “alpinismo” giovanile, sentieri, fiori e mucche, editoriali vacui e retorici.