Gli anni del CoViD-19 al rifugio Franchetti
di Luca Mazzoleni
Per due stagioni estive consecutive anche i rifugi di montagna hanno dovuto affrontare gli sconvolgimenti che l’epidemia del secolo ha imposto.
La società e l’economia del paese sono state influenzate profondamente dal virus e anche i rifugi arrampicati sulle alte vette non sono stati risparmiati dalle conseguenze, con ripercussioni diverse da zona a zona, con effetti più o meno importanti non solo da una regione all’altra, ma talvolta da rifugio a rifugio. Questo per norme e disposizioni diverse tra amministrazioni regionali pur contigue, con direttive sui distanziamenti differenti e linee di condotta a volte più severe e prudenti, altre più flessibili e accomodanti. Fatto sta che queste righe non vogliono riassumere e raccontare del CoViD-19 nei rifugi d’Italia, ma solo entrare nel particolare raccontando come al Franchetti il rischio del contagio abbia condizionato queste ultime due estati.
Quando il virus galoppava furioso nella primavera della sua scoperta lo sconcerto e la preoccupazione regnavano sovrani: furono numerosi i contatti con i dirigenti del Club Alpino Italiano e le video conferenze organizzate dal nostro Coordinamento Nazionale Rifugisti per capire come affrontare l’emergenza. Ci volle tempo per capire cosa fare, soprattutto per accettare che avremmo vissuto una stagione estiva come mai, con soluzioni, compromessi e novità che nessuno avrebbe immaginato solo poche settimane prima; un problema comune, che ogni rifugista affrontò secondo la propria capacità e le particolarità del luogo di lavoro, che in particolare per i rifugi di montagna è un po’ più complicato che altrove.
L’idea di tenere chiuso e sprangato per il Coronavirus il mio rifugio per tutta l’estate non riuscii neanche a concepirla: se la malattia avesse continuato e imperversare, se l’Abruzzo e l’Italia fossero rimaste in zona rossa avrei comunque passato l’estate su al rifugio, anche senza poter ospitare nessuno, anche senza aprire bar e ristoro a un pubblico che non ci sarebbe stato. Avrei passato l’estate al rifugio da solo o con qualche caro amico; sarei stato su a presidiare quella piccola costruzione di pietra e legno appollaiata sullo sperone tra il Corno Grande e il Corno Piccolo, a dare ricovero per le emergenze se qualcuno si fosse potuto avventurare lassù o a godermi la solitudine della montagna, quella solitudine che nei trent’anni e più che gestisco il Franchetti non ho quasi mai potuto godere nelle brevi estati, quando le montagne sono affollate di escursionisti e turisti.
Era seducente l’idea di un Franchetti come casa propria, quasi privata, senza ospiti, senza le frotte di turisti ferragostani, senza centinaia di alpinisti ed escursionisti che scorrazzano giorno e notte dentro e fuori il rifugio; senza correre qua e là a cucinare pasti per centinaia di persone, pulire camerate e gabinetti, faticare sotto il carico del pane e della carne: senza lavorare insomma.
Un’estate in villeggiatura nel mio rifugio, solo e isolato dal mondo, o quasi. Solitario guardiano del faro, con la luce ben visibile fin sulla costa dell’Adriatico, sulle colline dell’Abruzzo teramano, puntino luminoso cui molti avrebbero guardato con affetto e nostalgia di una libertà negata dal virus.
Per fortuna la situazione si alleggerì con la bella stagione e con molte incertezze si andò delineando una situazione meno pesante e con norme meno restrittive: non si sarebbe potuto pernottare in rifugio, ma con qualche precauzione era possibile aprire al pubblico il ristoro di bar e cucina. Così con un po’ di preoccupazione si iniziò a organizzare la stagione: assumere il personale, compilare la complessa scacchiera dei turni di lavoro e soprattutto stilare la lunga e articolata lista di viveri e materiali occorrenti per la stagione estiva: dieci e più tonnellate di carichi da pesare scrupolosamente, imballare e immagazzinare in attesa della data stabilita per l’annuale impegnativo trasporto con l’elicottero, che ogni inizio estate come un rito imprescindibile segna l’apertura del Franchetti. È già difficile in anni normali prevedere le quantità precise di cosa necessita un rifugio, in quell’anno di incertezze, chiusure e limitazioni fu davvero come giocare a tombola bendati; non avevo idea se si sarebbe potuto riaprire ai pernottamenti nel corso della stagione, o se il Coronavirus avrebbe ripreso la sua corsa riportando l’Abruzzo in zona rossa, quindi limai le quantità e il peso dei carichi levando qui e lì, ma i dubbi rimanevano tanti, tra la paura di acquistare troppa roba e quella di rimanere senza viveri e bevande nel bel mezzo di agosto. Così il volo con l’elicottero lo posticipai ai primi di luglio, un paio di settimane più tardi rispetto al consueto, per capire meglio l’evolversi della situazione e poter intervenire in caso di sostanziali novità dovute al progredire o meno dell’epidemia.
A giugno riaprimmo con calma: non proprio ai primi del mese ma verso la metà; gente in giro poca, completamente assenti gli stranieri dal nord Europa, presenza consueta a inizio e fine stagione. Ai primi di luglio in tre ore di volo l’Ecureil rosso fiammante dell’Eliabruzzo trasportò una ventina di bancali da mezza tonnellata fuori del rifugio e cominciò la stagione.
Un’estate strana, che via via che avanzava vedeva serate tranquille con la sala da pranzo senza ospiti e noi soli a cenare al nostro tavolo in un rifugio vuoto, e giornate sempre più affollate, coi tavoli gremiti di ospiti, la fila al bancone del bar, folla e a volte confusione oltre misura. Furono giornate calde i fine settimana di luglio e poi agosto un delirio di gente: tante, forse troppe persone per un rifugio piccolo e spartano come il Franchetti e fu dura, ma avevamo bisogno di lavorare e col lavoro dei pranzi compensavamo la mancanza dei pernottamenti.
Alla fine non fu una cattiva stagione quella del 2020: preoccupazioni e disagi tanti sì, ma il tracollo economico non ci fu e con un certo orgoglio fu possibile saldare l’importo completo del canone annuale al CAI, nonostante una disponibilità della Sezione di Roma, proprietaria del Franchetti, di rinunciare all’affitto in un momento difficile per il gestore.
Passò un altro inverno, altri mesi di restrizioni e difficoltà per il CoViD-19 che si faticava a contenere, ma fu con ottimismo che ci preparammo ad una seconda stagione in tempi di pandemia. L’esperienza dell’anno precedente ci rendeva fiduciosi e sicuri: in fondo la situazione era molto simile e la avevamo già affrontata senza troppi casini, quindi di che preoccuparsi?
Infatti non fu il CoViD-19 a creare problemi, affatto: l’epidemia e le norme su protezione e distanziamento non erano una novità e avevamo imparato a gestirle. Il Franchetti era pronto per una seconda stagione di gestione e a convivere colla pandemia: la dispensa piena dopo il volo con l’elicottero, i turni di lavoro ben divisi tra noi, la sorgente del Calderone riattivata, tutto il rifugio in ordine e pulito. La pessima estate del 2021, la peggiore di oltre trent’anni di gestione, è stata una conseguenza dell’incapacità di gestione del territorio da parte dei suoi amministratori, dall’incapacità di imprenditori e politica di risolvere problemi che rimangono insoluti da anni, il virus ha contribuito certo, ma in misura minima.
In poche parole è oramai dal settembre 2020 che la cabinovia dei Prati di Tivo, che sale ai 2000 metri della Madonnina e dimezza i tempi per salire al Franchetti e agevola ogni escursione sul versante di Teramo dei Due Corni, è chiusa per beghe di concessioni e canoni non corrisposti. È una questione contorta quanto deprimente, della quale sono tanti i protagonisti ma nessuno sembra avere la capacità di portare ad una soluzione le parti contrapposte. È più di un anno che la cabinovia della Madonnina è chiusa, un impianto costato al pubblico oltre 12 milioni di euro è fermo e nessuno pare preoccuparsene.
Quindi come concludere questo racconto del Franchetti e degli anni di pandemia?
Più dell’epidemia sono stati gli uomini a recare danno…
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In mezzo a tanta depressione, almeno ho scoperto che una mascherina messa bene sul naso, in modo che il vapore sfiati sotto e non appanni lenti ,lo tiene caldo mentre si scia o si va in bici. Augurandosi sempre che ce ne saranno scorte non piu’ necessarie.Circa i vari impianti ripescherei il detto.”da giovani e incendiari ,si invecchia diventando pompieri).. chi disprezza forse un giorno, piu’ lontano nel tempo possibile, dopo aver arrancato o rinunciato, apprezzera’ la scorciatoria tecnologica dei mezzi di risalita.In certi offrono sconto over N anni (prima la soglia N era 65, poi hanno alzato a 70…..forse arriveremo a 90 accompagnati dai genitori ?)oppure sconti famiglia SE con X figli( x parte da 7), Esibire stato di famiglia e carta identita’ elettronica, spid, codice fiscale , Isee.
Fausto, non è egoismo alpinistico, ma spirito di adattamento. Adattarsi all’ambiente che ci circonda. Ognuno di noi in relazione alle proprie forse fisiche e morali.
Andiamo in montagna alla ricerca di quello che in città non c’è. Non è trasportandoci le comodità e le frenesia cittadina che troveremo e respireremo quello che la montagna ci può dare.
Per arrivare dal parcheggio dell’Arapietra alla Madonnina ci vogliono 40 minuti di semplice e innoqua camminata. Se poi vai più lento e ci metti un ora che problema c’è. Dai non siamo fatti per stare in poltrona dalla mattina alla sera.
Una volta riposati se si a voglia si può continuare per arrivare al Franchetti. Altrimenti si può bighellonare sui prati prima della Madonnina.
Per gli arrampicatori che vanno a scalare alle Spalle il problema sarebbe camminare 40/50 minuti in più a piedi ???? Se è così siamo alla frutta.
Vedo leggendo, due diversi pensieri…uno imprescindibile circa la frequenza poetica e atletica della montagna, che tutti coloro che la amano veramente vorrebbero sempre libera da qualsiasi impianto o “forzatura umana”… ma se mettiamo da parte solo un attimo questi poetici aspetti e consideriamo che le verità stanno nel mezzo… guardiamo anche l’aspetto sociale ed economico che essa rappresenta oggi , e quando parliamo di oggi , parliamo di ritorno alle origini anche da un punto di vista fonte di lavoro, in un contesto (regione Abruzzo) dove le alternative alle industrie (che chiudono) o ai megastore(del riciclo o dei cinesi (non me ne vogliano) possono e devono essere legate anche all’ambiente, al turismo SOSTENIBILE e quindi anche alle sinergie che devono svilupparsi tra chi gestisce in loco e offre servizi ai turisti, escursionisti, alpinisti e chi da la possibilità di gestire (politica) ! Il controllo del territorio e la corretta fruizione dello stesso devono avere un unico comune denominatore: non stravolgere, ma far vivere e quindi anche lavorare… mettiamo da parte un pò di egoismo alpinistico, perchè arrampicare nel silenzio è bello …ma questa società oggi ha anche altri problemi !
IL FASCINO DELLA MONTAGNA
Luca ha perfettamente ragione a denunciare lo sperpero di denaro pubblico sulla seggiovia (poi diventata cabinovia) ma la cosa migliore è sicuramente quella di smantellarla e ridare ai due corni la loro dignità di montagne, su cui ci va chi usa le sue gambe e ci arrampica chi usa anche le braccia.
Lo dico io che su quelle amate montagne non ci posso più andare per le mie gambe malfunzionanti. Non sia mai che il mio handicap serva a giustificare funivie!
Quando ripetevo le vie dei pionieri, come La crepa o I pulpiti di Giancola, pensavo che quegli alpinisti con la loro scarsa attrezzatura affrontavano un Gran Sasso ben più grande e imponente del mio: allora si partiva a soli mille metri di quota da Pietracamela per sentieri o, sull’altro versante, da Assergi, ancora più lontano e in basso. Allora l’unico “rifugio” era un solitario anfratto roccioso sotto il Calderone.
Più scomodo, ma certo più affascinante e avventuroso.
Geri
IL FASCINO DELLA MONTAGNA
Luca Mazzoleni è giustamente innamorato del suo rifugio di cui è bravissimo, simpatico e accogliente conduttore.
“Rifugio” è parola che alludeva al maltempo e al freddo, ma ci si rifugia anche dalla vita inappagante delle città.
Arrampicavo da quelle parti quando il piccolo Franchetti era proprio un “rifugio”: nessun gestore e pochissimi alpinisti. Poi lo ha preso in gestione Gigi Mario che si trasportava tutto a spalla dai prati di Tivo, mille metri sotto: niente muli o elicotteri; ricordo una volta che sul sentiero lo ho raggiunto che lui saliva con una pesante bombola di gas sulle spalle.
Era felice di aver lasciato il sicuro lavoro in banca e di svolgere precariamente e faticosamente quel lavoro fra le amate montagne.
Nessuno sentiva il bisogno di elicotteri e di seggiovie, eravamo felici di goderci quella particolare montagna così come era.
segue
@Pasini. Roberto sicuramente ci sarà un pò di selezione, ma non credo che il rifugio ne soffrirà. Qualcuno rinuncerà ma chi ha voglia di arrivarci, chi ha voglia di gustarsi l’ambiente, e ce ne sono tanti, ci andrà comunque.
In tanti anni che giro intorno al Franchetti ho sempre visto il rifugio super frequentato.
Percorrere un sentiero con le proprie forze è educativo, permette di guardarsi intorno con calma, di fermarsi anche ad ammirare un fiore, un animale. Permette ai propri polmoni di lavorare, di ritornare alla sera stanchi ma orgogliosi di avere fatto qualcosa con le proprie forze.
frequento questi luoghi da parecchi anni . L’impianto va smantellato perchè è una bruttura.
Per arrivare alla Madonnina ci vogliono 40 minuti a piedi di BANALE camminata.
Per gli avvicinamenti alle vie, ne ho salite tante li alle Spalle. Si è vero l’impianto fa risparmiare termpo, ma ricordo che non c’è solo il chiappa e tira e l’avvicinamento fa parte dell’ esperienza alpinistica.
Quindi ci si alza prima e si cammina . Non fa male alla salute…anzi!!!
Bravo Luca come sempre. Senza inutili polemiche, posizioni ideologiche e la fracca di puttanate che bormalmente qui si leggono. Speriamo di vederci per l’annuale pellata al gran sercio e per i saluti a Zen che Giovanna non vuole mancare.
Sono d’accordo con Alberto (benassi). Giusto tre settimane fa ero lì per arrampicare alle spalle con un corso e non ci siamo fatto problemi a camminare 40/50 minuti in più per l’impianto chiuso. Al franchetti c’era un bel casino ed evidentemente le persone lo hanno raggiunto anche senza impianto. Oramai tutti gli impianti a fune sono a rimessa, funzionano solo perché ci mettono i soldi tutti gli interessati : albergatori, noleggiatori di sci, ristoratori e perché no anche i rifugisti ma vengono pagati da tutti noi. Sarebbe l’ora di cambiare registro favorendo altre attività che non sto ad elencare che tutti conosciamo. Andate a vedere l’elenco degli impianti chiusi e che ancora non sono stati smantellati. Andate a vedere quelli che vorrebbero costruire e che spero non facciano (es doganaccia lago scaffaiolo, appennino).
Smantellare l’impianto? Stiamo scherzando?
Va potenziato e reso molto più veloce per risparmiare ancora più tempo tempo per gli avvicinamenti alle vie di roccia e portare in quota più escursionisti e semplici turisti che vogliono arrivare alla madonnina e godersi il panorama.
Il tempo è prezioso e non si può certo sprecare facendo gli avvicinamenti alle vie di roccia a piedi sprecando inutilmente le energie e poi dover arrivare alla madonnina già stanchi il panorama non te lo godi bene.
… infatti il virus in questa storia non c’entra nulla…sono anni che commentiamo l’incapacità o la capacità di pensare solo a qualche tornaconto personale che comandano anche sulle nostre montagne…
Il virus andrà via…le persone…certe persone… certa politica… certa mentalità…restano e non riusciamo a invertire la rotta. ABBBBRUZZZO storia di una regione in cerca di una classe politica seria !
Come smantellare l’impianto? L’impianto è costato tantissimo e deve funzionare perche’ ti fa risparmiare un ora e mezza di tempo per glia avvicinamenti alle vie di roccia e porta in quota escursionisti e semplici turisti che vogliono arrivare alla madonnina e godersi il panorama, altro che smantellare.questa estate il fatto che non abbia funzionato è stata una vergogna, vediamo adesso con la stagione degli sciatori cosa succede, voglio ridere.
@Benassi. Quale impatto sul rifugio?
sarebbe l’ora di smantellarlo quell’impianto.
Se non ho capito male, qui il problema è in gran parte non il Covid ma il blocco dell’ovovia causa beghe. Questo ci fa riflettere sulle implicazioni e conseguenze pratiche del tema impianti.
La conclusione di Mazzoleni è che la pandemia non c’entri quasi niente. Le beghe del luogo, come in mille altre parti d’Italia, sono ben altre e spesso riconducibili, direttamente o indirettamente, all’avidità umana. Tutte le questione burocratiche hanno come origine scontri di interessi, economici in primis.
Bravi Mazzoleni e Cominetti, voi alla pandemia ci credete come alla verginità della Madonna.
Con me facciamo un bel tris di fanti!
Caro Luca,
Ci incontriamo si e no una volta l’anno e con la pandemia anche più raramente, ma il Rifugio Franchetti è un pensiero fisso tra gli alpinisti e gli amanti della montagna e del Gran Sasso. Non che questo aiuti a risolvere i capricci burocratici è chiaro. Dispiace profondamente ogni volta leggere ed ascoltare queste storie di amministrazione del territorio ottusa ed ottocentesca. Spero davvero che le cose migliorino e che le teste possano cambiare.
Ciao, luigi.
Buono a sapersi, anche se triste. In Dolomiti, invece, l’estate scorsa il covid proprio non c’era. Essendo in Italia, il virus aveva preso le ferie raggiungendo l’apice in Agosto, mese in cui non cera proprio più. Era sparito! Aveva preso le mediocri abitudini nazionali che da sempre (almeno da quando sono nato) prevedono che in Agosto si vada in vacanza dimenticando problemi politici, economici e sanitari. Il Covid19 lo si è obbligato ad andare in vacanza anche se lui non voleva, ma ha dovuto farlo. È stato riammesso al lavoro dal primo di Settembre e si è messo in coda con la più parte degli italioti lavoratori. E dire che mi sarei aspettato un bel lockdown estivo, ma non è stato così. Le ferie hanno prevalso su tutto e tutti. Ritmi bestiali.