Gli inizi dell’alpinismo italiano

Gli inizi dell’alpinismo italiano
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-14)

L’iniziativa montanara sulle Alpi Occidentali e la fondazione del Club Alpino Italiano
L’inizio dell’alpinismo italiano sulle Alpi Occidentali ha caratteri valligiani e non cittadini come invece si sarebbe portati a credere. Le prime imprese di carattere alpinistico vanno registrate nel massiccio del Monte Rosa, dove agiscono alcuni veri e propri pionieri, quali Giovanni Gnifetti, Nicolas Vincent, Sébastien Linthy, Jean-Joseph Beck e Balthasar Chamonin, una piccola schiera, assai agguerrita, di parroci, cacciatori e montanari, amanti appassionati delle loro belle valli che si snodano ai piedi del massiccio. Accanto alla conquista del Monte Bianco, va dunque anche ricordata la prima salita della Punta, oggi detta Gnifetti, del Monte Rosa, una magnifica impresa che sempre è stata un po’ adombrata e messa in disparte, come d’altronde tutto l’alpinismo che si è svolto sul Monte Rosa, per motivi che riescono difficilmente intuibili e comprensibili. Forse perché questo massiccio, così affascinante e grandioso visto dalla pianura piemontese, in realtà non presenta picchi e pareti spettacolari e difficili come il Bianco. O forse perché, per una sorta di modestia e di pudore delle genti valsesiane, le imprese su questo massiccio non sono mai state esaltate come quelle di altri gruppi della catena alpina.

Francesco Lurani Cernuschi

Comunque nella conquista del Rosa non vi fu impulso dato da un forestiero come al Bianco, ma l’iniziativa partì proprio dai montanari del luogo.

Iniziativa montanara troviamo anche a Courmayeur, dove ben presto si cerca di organizzare un qualcosa che possa rivaleggiare con l’organizzazione di guide creata a Chamonix, il villaggio posto sull’altro versante del Bianco, dove a seguito dell’impresa di Jacques Balmat e Jean-Michel Paccard, si cominciava a concludere affari d’oro con i turisti. Era necessario però trovare una via di salita al Bianco che fosse tutta «italiana». Ma solo nel 1854 alcune guide di Courmayeur aprirono un primo percorso attraverso il Col du Midi, il Mont Blanc du Tacul ed il Mont Maudit «pour joindre au chemin des chamoniards au sommet du Grand Corridor».

Sintetizzando questo periodo, l’alpinista Renato Chabod commenta: «A queste mirabili imprese del 1854 e 1855 le guide furono determinate dalle ragioni economico-concorrenziali rudemente espresse da Jean-Marie Perrod sulla vetta del Bianco il 13 agosto 1863, al termine della prima ascensione completa della via del Col du Midi: “Mes bougres de chamoniards, cette fois nous n’avons plus besoin de vous pour arriver au sommet du Mont Blanc!”. Il monopolio di Chamonix sul Bianco era infatti ormai infranto: da quel momento anche le guide di Courmayeur avrebbero potuto salirlo partendo direttamente dal loro villaggio senza dover più in alcun modo dipendere dai “bougres” di Chamonix. Ma non si può disconoscere che le esplorazioni del 1854 (dal Col du Midi e dalla Brenva), condotte senza clienti, dimostrano un forte gusto dell’avventura e l’ormai raggiunta capacità tecnica di affrontarla. A Courmayeur non vi erano, nel 1854, un animatore come De Saussure o un trascinatore come Paccard; le guide hanno fatto tutto da sole, andando animosamente alla scoperta dell’ignoto e quando, nel 1855, giunse il primo sospirato cliente, Ramsay, “ils ne voulurent pas s’engager pour un salaire, de crainte de ne pas réussir ou que le touriste fatigué n’eut voulu rebrousser chemin” (Joseph-Marie Henry)».

Se invece ci si trasferisce a livello cittadino, il discorso inevitabilmente cade sulla fondazione del Club Alpino Italiano, susseguente a quella dell’inglese Alpine Club e del Club Alpino Austriaco e alla famosa salita al Monviso di Quintino Sella e compagni, che appunto generò l’idea della fondazione. I caratteri di questo primo alpinismo cittadino in Italia sono naturalmente elitari ed aristocratici e, d’altronde, date le premesse già sovente espresse, non avrebbe potuto essere diversamente.

«Intorno a Quintino Sella e compagni gravitava invece un piccolo mondo cittadino di personaggi assai autorevoli – gentiluomini, studiosi, agiati professionisti, benestanti, scienziati – che evadevano dalle costrizioni della vita di città percorrendo le Alpi, per lo più col pretesto di compiere studi geologici. Questa era la dignitosa copertura scientifica con la quale essi giustificavano di fronte a se stessi, magari di fronte a genitori, consorte, superiori, relazioni sociali e mondane, quella loro strana smania che li spingeva fuori dalle comodità della vita civile, a faticare e sudare su per greppi incolti, a dormire in fienili, a nutrirsi di polenta e latte, a sbrindellarsi gli abiti tra gli sterpi e le rocce. A vederli oggi, effigiati in fotografia, così autorevoli nei loro bianchi colletti duri, con la catena d’oro sul panciotto, così precocemente anziani, secondo il costume ottocentesco, con le loro barbe ed i loro mustacchi folti, si stenta a credere che fossero degli sportivi come noi, gente che aveva un soprappiù di energia da spendere rispetto alla media della umanità, e che molto probabilmente anch’essi, appena si erano lasciati alle spalle le mura della città e le solenni dimore del patriziato torinese, si comportavano come scolari in vacanza, scherzavano, si canzonavano, dicevano delle sciocchezze, scoppiettavano di quel buonumore irresistibile che viene indotto dal sano esercizio fisico all’aria aperta (Massimo Mila, Cento anni di alpinismo italiano)».

Comunque, sulla vetta del Monviso il 12 agosto 1863 si ritrovano il calabrese Giovanni Barracco, i fratelli Paolo e Giacinto di Saint-Robert e addirittura il ministro delle Finanze del Regno d’Italia, quel celebre Quintino Sella forse più noto ai più per la poco simpatica fama di spietato gabelliere che per i suoi meriti alpinistici…!

Vi è comunque un certo ritardo rispetto ai progressi che l’alpinismo inglese ed i suoi rappresentanti andavano facendo. Il Club Alpino Italiano sorge come imitazione di quello inglese ed anche l’alpinismo cittadino che si svilupperà intorno al nucleo torinese, avrà come modello quello inglese; anzi essendo sorto in ritardo rispetto a questo, dovrà, per così dire, rincorrere gli inglesi e accontentarsi dell’esplorazione delle vette secondarie, in un periodo in cui le maggiori cime erano state conquistate.

Bene o male i piemontesi, anche negli angoli più sperduti delle loro valli, si troveranno tra i piedi qualche Coolidge di passaggio, che farà «razzia» di cime inviolate. Vi è poi da tenere presente una sorta di inibizione e di un certo complesso di inferiorità nei riguardi dei celebri inglesi e delle loro guide quasi leggendarie. Solo dopo un lungo apprendistato sui monti di casa delle Valli di Lanzo e di Susa, i piemontesi si avvicineranno un po’ timidamente a montagne più difficili e celebrate, come il Bianco e il Rosa. Si accorgeranno allora che i loro complessi non avevano alcuna ragione di esistere e grazie a questa disinibizione, riusciranno a realizzare successi di elevato prestigio, colmando lo spazio di ritardo che li separava dagli inglesi, i grandi protagonisti del momento.

Chiunque in una giornata di vento salga sui rilievi della collina torinese, può facilmente constatare come forte e prepotente sia, per gli animi sensibili, il richiamo che giunge dalla candida e scintillante chiostra di vette che cinge a semicerchio tutta la pianura, come una vera e propria muraglia dentellata che delimita l’orizzonte oltre la grande città fumosa e dispersa nel piano. Certamente i sentimenti di quegli uomini di metà Ottocento non dovevano essere diversi dai nostri. Con una piccola differenza.

Che se oggi, in una bella giornata di sole e di primavera, sali al Monte dei Cappuccini e la vista dei monti lontani e nevosi ti mette addosso la voglia di arrampicare, non hai che da saltare in macchina: in un’ora o poco più ti ritrovi in Val di Lanzo o di Susa a più di mille metri, nel tuo ambiente favorito. Non hai che da cambiarti e cominciare ad arrampicare in una delle tante palestre di roccia scoperte nelle valli vicino a Torino. Allora l’azione era molto più desiderata e «cullata» nel tempo: sovente era necessario un giorno di carrozza per raggiungere il fondo delle valli e poi le marce d’avvicinamento alle montagne erano assai più lunghe e faticose.

Questo, però, resta certamente uno tra i periodi più simpatici e vivi dell’alpinismo italiano. Giustamente, come osserva Mila nella sua analisi, lo studio scientifico probabilmente era un pretesto per questi uomini.

D’altronde basta leggere alcuni dei loro racconti per convincersi come essi sentissero il richiamo dell’avventura e il fascino dell’ignoto in montagna.

Baretti, Barale, Martelli e Vaccarone: esploratori delle Alpi piemontesi
Certamente per il torinese Martino Baretti il movente scientifico giocò un ruolo importante nel suo avvicinamento all’alpinismo. Era infatti professore di geologia, ma di fronte al numero stupefacente delle ascensioni effettuate, ci si chiede se la passione per l’alpinismo non venne a superare l’amore per la scienza. «Non si può muovere un passo in Val di Susa o nelle propaggini del Gran Paradiso, senza imbattersi nel nome di Martino Baretti. Era generalmente il suo un alpinismo di corto respiro o di portata locale. Forse non aveva larga disponibilità di mezzi o di tempo, e perciò era diventato un artista a sfruttare, per l’appunto, il dubbio vantaggio di vivere sul posto. Per la sua conoscenza delle vallate minori, per il fiuto verso le punte importanti, per la fertilità inventiva nel ricavare dal terreno stesso i suggerimenti alle sue prossime imprese, era davvero un piccolo Coolidge italiano; e al grande Coolidge riuscì infatti a «soffiare» più d’una «prima» che deve avere non poco scottato quell’onnipotente scorridore delle nostre montagne (Massimo Mila, Cento anni di alpinismo italiano)».

Il numero delle sue prime ascensioni nelle valli piemontesi è ingente: tra i successi più prestigiosi va ricordata la difficile ed ambita prima salita dell’Uia di Bessanese in Val di Lanzo e della Pierre Menue in Val di Susa. Anche se il suo raggio d’azione, come si è detto, è in gran parte limitato ai monti torinesi, tuttavia non mancarono anche ascensioni degne di nota nel Gruppo del Bianco. Va detto comunque, che attorno a questi primi esponenti dell’alpinismo italiano, si andò formando soprattutto nelle Valli di Lanzo, un forte gruppo di guide locali (i Castagneri, i Ferro Famil, i Ricchiardi) che in alcuni casi (vedi Antonio Castagneri, il famoso «Tuni da Tuni» di Balme) faranno gola anche agli inglesi per la loro bravura, che li condusse ad aprire nuovi itinerari anche su gruppi «fuori casa», come il Bianco o il Gran Paradiso, quando non il Delfinato o le Aiguilles d’Arves.

Amico di Baretti, anche se tra i due torinesi vi fu sempre una viva e simpatica competizione, fu Leopoldo Barale, un altro «specialista» delle Valli di Lanzo, dove veramente non gli sfuggì quasi nulla. Ma anche altrove sapeva farsi valere, tanto che seppe cogliere nel Gruppo del Gran Paradiso un successo di grande prestigio, conquistando, con Antonio e Giuseppe Castagneri, in prima ascensione, la bella piramide rocciosa dell’Herbétet (22 agosto 1873).

È comunque con Luigi Vaccarone (Torino 1849-1902), di professione avvocato, che l’alpinismo torinese e italiano compie un notevole scatto in avanti e si porta su livelli decisamente superiori, sia sul campo dell’attività alpinistica vera e propria, sia su quello più strettamente culturale. Ad avviarlo alla montagna era stato un altro attivissimo torinese, Alessandro Martelli, non solo «collezionista» di prime ascensioni, ma anche profondo studioso della montagna e dei suoi problemi. «Vaccarone è il primo vero storico del nostro alpinismo. Dedito come pochi all’azione – con 48 vie nuove detenne per quei tempi un primato italiano – è capace di farla oggetto di riflessione storica, di inquadrare la propria azione e quella degli amici nella più vasta cornice dell’alpinismo mondiale. E l’alpinismo stesso sente come cultura e come storia, inserendolo nel quadro degli aspetti economici, sociali, artigianali ed agricoli della vita nelle montagne. Avviato alla montagna da Martelli, compagno suo nella prima invernale dell’Uia di Mondrone, compagno suo e di Baretti alla Becca di Guin, giungerà, nonostante la non lunga esistenza, ad iniziare all’alpinismo persone come Guido Rey e Giovanni Bobba, svolgendo così un’opera di cerniera, di tramite tra diverse generazioni, che vedremo più tardi ripetersi attraverso figure autorevoli e prestigiose, come quella di Alfredo Corti (Massimo Mila, Cento anni di alpinismo italiano)».

Anche il «tono» delle ascensioni realizzate si stacca nettamente da quello dei suoi contemporanei, per impegno e difficoltà. Vaccarone doveva avere doti atletiche non comuni ed anche doveva essere un camminatore instancabile, se si pensa che in un solo giorno, nel 1875, realizzò le prime ascensioni della Becca di Gay e del Becco Meridionale della Tribolazione, due cime molto eleganti del Gruppo del Gran Paradiso. Lo vedono come protagonista il Gruppo delle Aiguilles d’Arves, il Gruppo del Bianco, il Cervino, il Rosa ed anche il Delfinato, dove nel 1890 ripete la difficile salita alla Meije, da poco realizzata da Gaspard con Boileau de Castelnau, in compagnia della guida Michele Ricchiardi e del giovane Giuseppe Corrà, uno dei più bei nomi dell’alpinismo torinese di fine secolo.

La sua impresa più caratteristica e significativa resta comunque la prima invernale dell’Uia di Mondrone, in Val di Lanzo, realizzata nel 1874 alla vigilia di Natale, con l’amico Martelli e la forte guida Antonio Castagneri di Balme. È più significativa, in quanto fu la prima salita invernale dell’alpinismo italiano e poi perché attraverso il racconto dei due protagonisti si scopre una concezione nuova dell’alpinismo, ma anche un modo di sentire e di vedere le cose che non è affatto diverso da quello dei giorni nostri. Oggi alcuni critici vedono nella salita invernale di Vaccarone un punto di rottura tra cultura montanara e cultura cittadina e l’inizio di un rapporto gerarchico fra cittadini e valligiani, i quali saranno poi sfruttati per motivi economici nel rapporto alpinistico. Non solo, ma «l’accoglienza festosa alla sera del 24 dicembre 1874 da parte dei montanari di Balme, forse non segna tanto l’inizio di una collaborazione tra le antiche comunità alpine ed i giovani cittadini alla scoperta delle Alpi, ma la definitiva rinuncia da parte degli alpigiani ad un modo proprio ed autonomo di vivere la montagna, che affondava le sue radici nei secoli. Segna la sconfitta di un mondo antico e tenace, di una cultura, di tradizioni, di un modo originale e valido di vivere la montagna. L’alpinismo moderno, espressione di una cultura, e di una civiltà estranea e contrastante, spezza l’ultima difesa (quella dell’isolamento invernale) per asservire completamente le vallate alpine agli interessi economici, sociali e politici della borghesia cittadina e capitalistica. Martelli e Vaccarone sono le avanguardie, gli esploratori ingenui ed entusiasti che aprono la strada alla colonizzazione completa delle Alpi da parte della metropoli. Essi esplorano, conquistano la montagna, ne scoprono la bellezza solitaria, i nuovi paesaggi, provano la soddisfazione della conquista dopo la lotta e la fatica; ma sfugge loro completamente la realtà umana della montagna. Ignorano i montanari, essi sono pure comparse, paesaggio. Due sole persone spiccano nelle relazioni: il parroco don Didier de la Motte, missionario ed esploratore in Africa ed Antonio Castagneri, la grande e famosa guida, il montanaro già civilizzato, accompagnatore dei cittadini sull’Alpe. Cesare Abba in un libro per le scuole (che mi sembra intitolato Le Alpi ed il nostro Piemonte) scrive nella seconda metà del 1800 un’orribile poesia in cui Balme diviene il simbolo delle tenebre dell’ignoranza e della superstizione, che saranno fugate dal nuovo progresso e dall’avvento della nuova civiltà (Adolfo Brunati, Cento anni dopo, Rivista della Montagna, n. 24,1976)».

Brunati parla di esploratori ingenui ed entusiasti. Ascoltando il racconto dei primi salitori ascensionisti, non si può parlare in altra maniera: «Brillava nel suo più fulgido ammanto di stelle la regina del silenzio, che faceva l’aria tutt’intorno biancheggiante, ed i monti, e le valli, e i colli, e le cascate dalle immani stalattiti di ghiaccio tinti di bella luce argentina. Che beltà, che magnificenza in quella solitudine! Quant’è soave ed eloquente la quiete della natura che riposa!… Scendemmo attraverso paesetti silenziosi, immersi tuttavia nel sonno, e dopo mezz’ora piegammo a manca salendo ai casolari della Molerà. La soffice neve s’apre sotto ai nostri piedi; spesso ci troviamo affondati fino alla cintola, e lavoriamo a tutto potere nello stricare le gambe dalle buche in cui si trovano cacciate… Dalla parte d’oriente un color d’oro si fa a mano a mano più limpido e sgorga dai monti il sole, e riverberandosi sul nevato in una infinità di luminosissime scintille ci abbaglia e costringe ad armare gli occhi di lenti affumicate… Tutto è silenzio in quell’oceano di luce, più non si ascolta, come in altra stagione, il tintinnio degli armenti, l’abbaiar dei cani e le cadenzate voci del mandriano, né l’eco ripete la ballata della pastorella, né il suono dell’alpestre corno. Taciti procediamo gustando nel suo segreto la voluttà che muove dall’aspetto delle meraviglie del creato (Luigi Vaccarone, L’alpinista, n. 2,1874)».

Tuttavia Brunati ancora precisa: «Per spiegare come s’innesta l’alpinismo moderno nella disgregazione e nella distruzione di ogni vita autonoma ed originale delle vallate alpine, bisogna considerare che questo alpinismo è l’espressione di una determinata società: la società borghese-capitalista della rivoluzione industriale, che in Italia si esprime nella classe dirigente del nuovo stato nazionale. Non per nulla il fondatore del Club Alpino Italiano è il ministro Quintino Sella. L’alpinismo – o meglio il nostro alpinismo moderno – è un fatto nuovo legato ai rapporti economici-sociali, alla cultura (illuminismo e romanticismo) delle nuove classi dominanti europee e rappresenta un nuovo modo di andare in montagna da parte di persone finora lontane dalla vita della montagna. Scienziati, viaggiatori inglesi, giovani oziosi benestanti in cerca d’avventura e d’evasione percorrono e scoprono le Alpi. Per motivi scientifici, per pura curiosità, per evasione ed esibizione sempre nuovi forestieri percorrono le vallate e scalano le vette; si scopre un modo nuovo di viaggiare, di vivere la natura; nasce uno sport affascinante: l’alpinismo (art. cit.)».

Come precedentemente si è ricordato, Vaccarone fu anche studioso dei problemi di montagna. Insieme all’amico Martelli e a Giovanni Bobba, scrisse, in tre volumi, la Guida delle Alpi Occidentali, un modello difficilmente imitabile dai posteri. Come purtroppo oggi ben di rado accade nella compilazione di guide alpinistiche, i tre poterono dare informazioni di assoluta esattezza in quanto il loro scritto muoveva da esperienza personale a seguito delle innumerevoli «ricognizioni» compiute personalmente sul terreno…!

Martino Baretti

L’inizio dell’alpinismo nelle Alpi Centrali
«Mancando nella regione montagne di altitudine eccezionale (l’unica cima superiore ai 4000 metri è il Pizzo Bernina) né in possesso di requisiti tali da esercitare un fascino particolare anche da lontano sulla popolazione dei fondovalle e delle zone pedemontane, l’incentivo principale all’esplorazione e alla conquista delle vette doveva giungere dall’esterno. In genere esso fu rappresentato dall’assiduità di alpinisti stranieri, principalmente inglesi, che giunsero tra questi monti poco dopo l’inizio della seconda metà del secolo scorso, alla ricerca di cime ancora invitte prima che famose. Non mancarono le eccezioni, casi sporadici di ascensioni effettuate anche molti anni prima (come l’Ortles, che dovette impressionare fortemente con la propria mole grandiosa i sudtirolesi e che infatti era già stato scalato agli albori dell’Ottocento, nel 1804, dal cacciatore di camosci della Val Passiria, Josef Pichler). Altre cime furono raggiunte da topografi, come il Pizzo Scalino (nel 1830) e lo stesso Bernina (nel 1850) la cui ascensione è però già legata ad un’attività esplorativa condotta con sistematica diligenza da Johann Coaz di Coira. Tuttavia un vero e proprio ambiente alpinistico poteva nascere in una valle soltanto in seguito al formarsi di un nucleo di guide che avvertissero il bisogno di conoscere più a fondo le proprie montagne; perché questo accadesse fu necessario lo stimolo (esempio, spirito di emulazione) dei successi degli alpinisti anglosassoni e delle loro guide, in genere forestiere».

Nell’interessante analisi dell’alpinista e storico dell’alpinismo Giovanni Rossi si giunge facilmente a comprendere i motivi di un certo ritardo, rispetto al Monte Bianco e alle Alpi Orientali, con cui l’alpinismo giunse alla ribalta nelle Alpi Centrali. Vi è anche da dire che furono dapprima le valli del versante svizzero, già conosciute ed apprezzate dai turisti, a beneficiare dei vantaggi offerti dagli alpinisti stranieri. Le valli italiane di questi massicci, in genere assai più selvagge, dirupate e rocciose, solo in un secondo momento incontrarono il favore degli alpinisti che, qualche decennio più tardi, vi scopriranno invece un campo di attività di eccezionale livello tecnico, soprattutto per l’arrampicata su roccia granitica (Masino e Bregaglia).

Comunque, a partire dal 1860, si cominciano a vedere le prime ascensioni di rilievo, naturalmente effettuate dai soliti inglesi al fianco delle loro guide svizzere. È la volta del Monte Disgrazia nel 1862, salito da Leslie Stephen (uno dei pochi che seppe spaziare con la sua attività dalle Alpi Occidentali fino alle Dolomiti), il non meno attivo Edward Stuart Kennedy e la forte guida Melchior Anderegg, dei cui meriti già si è detto precedentemente. Qualche anno più tardi, esattamente nel 1865, è la volta del Pizzo Roseg, una montagna di puro aspetto occidentale, assai bella e difficile, che presenta un versante settentrionale degno delle più ardue pareti glaciali del Bianco, per ripidezza e lunghezza. Protagonisti sono ancora due «collezionisti» di salite britannici, due nomi che più volte sono già stati citati nella nostra analisi: Adolphus Warburton Moore, il vincitore dello Sperone della Brenva al Bianco sempre nel 1865, l’amico Horace Walker e Jakob Anderegg in qualità di guida. Nel 1867 viene salito il Pizzo Badile, montagna non molto elevata, ma veramente elegante e magnifica, soprattutto dal suo imponente versante settentrionale dove, in una vasta conca, si raggruppano le più belle pareti granitiche delle Alpi intere: Sciora, Céngalo e Badile. Comunque, in quell’occasione, il Pizzo Badile fu salito dal suo versante più facile (ma non troppo facile), ossia da quello italiano, da un altro attivissimo «collezionista» di salite, quel solito William Auguste Brevoort  Coolidge che, pur non essendo arrampicatore ed alpinista di classe elevata, era comunque camminatore instancabile, ricercatore e scopritore di problemi insoluti sulla catena alpina come in quel periodo non ve ne furono altri. Al suo fianco le guide François ed Henry Dévouassoud.

Come si può facilmente constatare, in tutte queste importanti realizzazioni, non vi fu alcun contributo da parte di elementi locali. Comunque la reazione, soprattutto in Engadina, non si fece attendere a lungo: una guida locale, Hans Grass di Pontresina, si rivelò ghiacciatore di capacità veramente eccezionali, in quanto nel giro di pochi anni portò a termine alcune imprese di livello tecnico decisamente superiore. Basta citare la traversata nord-sud della Porta Roseg (1862), la prima ascensione del Monte Scerscen lungo il versante settentrionale, dove addirittura fu superato un «naso» di ghiaccio quasi strapiombante (1877). In ognuna delle due imprese, il cliente di Grass era Paul Gussfeldt, di cui già si è parlato a riguardo dell’esplorazione dolomitica. Infatti Gussfeldt espresse un’attività veramente di primo piano sui monti calcarei orientali, ma non va dimenticato che egli fu soprattutto un formidabile ghiacciatore, come dimostrano le numerose imprese di questo genere compiute sulle Alpi Centrali ed anche nel Gruppo del Bianco.

Nel 1887 giunse alla ribalta un altro nome, Martin Schocher, un’altra guida di Pontresina, che con Hans Bumiller realizza una splendida salita di ghiaccio lungo lo sperone settentrionale del Pizzo Centrale di Palù. Si tenga presente che a tutt’oggi quest’ascensione, pur rientrando nel novero delle grandi classiche alpine, è una delle scalate di ghiaccio più ambite e difficili di tutto il massiccio. E, una volta di più, se si vuole esattamente comprendere il valore di queste imprese, si tenga presente che in tutte queste ascensioni non si sapeva ancora cosa fossero piccozze, ramponi e chiodi da ghiaccio. Ci si avventurava su pendii di ghiaccio inclinati a 50-55 ed anche 60 gradi muniti unicamente di un’ascia rudimentale per intagliare, con un lavoro veramente bestiale, centinaia e centinaia di gradini.

Tra le guide engadinesi che eccellono in questo periodo (anche i loro nomi sono pressoché sconosciuti ai più) va ricordato Christian Klucker, di certo uno dei massimi protagonisti dell’alpinismo non solo nelle Alpi Centrali ma di tutto questo periodo di fine Ottocento. Per ora è sufficiente una breve citazione, in quanto si parlerà con maggior ampiezza della sua figura nella trattazione riservata alle grandi guide di questo periodo.

La prima iniziativa italiana nelle Alpi Centrali
Si è già detto che sul versante italiano, l’inizio dell’attività alpinistica fu assai più stentato. Comunque non tardarono a lungo gli amanti ed i conoscitori di queste splendide valli. Un vero pioniere è il conte Francesco Lurani Cernuschi, che a fianco della prima guida italiana delle Alpi Centrali, Antonio Baroni, nel giro di quattro intense campagne estive esplorò tutto il settore della Val Masino, prima che vi giungessero gli inglesi a far messe di prime ascensioni. Naturalmente durante queste «campagne» furono compiute anche numerose prime ascensioni, anche se non di elevata difficoltà. Va detto che il merito unanimemente riconosciuto del Cernuschi, sta nell’aver redatto un’accuratissima monografia di tutta la Val Masino, ritenuta da molti come un lavoro impeccabile e quasi insuperato. La guida Baroni seppe creare un ambiente valligiano intorno a sé e a poco a poco si sviluppò un forte nucleo di guide locali, come i Fiorelli, che saranno poi i veri protagonisti (come guide) della storia alpinistica del Masino. Anche Bortolo Sertori è un nome da ricordare, in quanto forse, come guida, è quello che riuscì ad esprimere l’attività più rilevante in quel periodo. Di lui si ricorda la prima salita al Monte di Zocca (1890), splendida montagna granitica che si eleva nel settore più aspro e selvaggio del Masino. «Come dappertutto sulle Alpi, lo sviluppo dell’alpinismo italiano in questa regione è inizialmente legato all’incontro tra un alpinista di classe ed una guida capace ed intelligente, quali appunto Lurani e Baroni… Con la figura del conte Lurani inizia la tradizione degli alpinisti non valligiani che si dedicarono al perfezionamento della conoscenza della montagna con quel particolare sentimento che derivava loro dall’essere nativi o consuetudinari delle più prossime zone pedemontane (non quindi puro spirito d’avventura). Si trovano, tra questi, nomi legati alla pubblicazione di studi e memorie su riviste alpinistiche, di guide alpinistiche vere e proprie o di opere a carattere illustrativo più generale, come Bruno Galli-Valerio, Alfredo Corti, Romano Balabio, Aldo Bonacossa, i grigionesi H.A. Tanner e Hans Rütter e Walther Flaig, tedesco ma a lungo dimorante nella regione di confine con i Grigioni. A questi va aggiunto il britannico Edward Lisle Strutt, autore di una piacevole guida della regione. Essi contribuirono decisamente con l’attività alpinistica, gli scritti e la diretta influenza sulle guide più capaci alla transizione tra fase esplorativa propriamente detta e la fase successiva, nel corso della quale i primi veri e propri problemi alpinistici furono localizzati ed affrontati (le due fasi si sovrapposero in parte nei gruppi a carattere prevalentemente nevoso) (Giovanni Rossi)».

Bisogna dunque dire che accanto al piccolo nucleo piemontese, si va formando in Lombardia un altro importante «centro» di alpinisti cittadini, che inizialmente svolge una forte attività sulle Alpi Centrali. A poco a poco, sull’esempio di un Lurani o di un Melzi, nuovi nomi (come Carlo Magnaghi, Antonio Cederna, Damiano Marinelli e l’ingegner Pietro Pogliaghi) vengono alla ribalta. Instaurando un’abitudine che ancor oggi perdura, l’attività dei lombardi, anche se nelle Alpi Centrali, per ovvi motivi di comodità e di vicinanza, trova maggior sfogo, tuttavia si apriva e si apre a raggiera su tutta la catena alpina, dalle Occidentali alle Dolomiti.

Tuttavia, sia in Piemonte che in Lombardia, questa prima fase dell’alpinismo italiano non riesce ancora a reggere il confronto con il modello inglese.

A proposito Massimo Mila dice: «Non è facile al giorno d’oggi, anzi è praticamente impossibile rendersi conto esatto del valore tecnico, della bravura propriamente alpinistica di quel manipolo di pionieri raccolti da Quintino Sella intorno alla sua bandiera. Forse, mettendo la sordina alla naturale voce dell’affetto, bisognerà riconoscere che il loro valore non era altissimo. La sconfitta degli italiani nel duello per il Cervino non fu un caso sfortunato (anche se gli altri dovettero pagare a così caro prezzo la vittoria), ma rispecchia il reale rapporto dei valori in campo. È vero, la seconda ascensione del Cervino, e prima per la cresta del Colle del Leone, fu italiana, ma di soli montanari, con Carrel in testa. Giordano, come abbiamo visto, ne fu escluso… Eccettuato Tyndall, che con la guida Maquignaz compì la prima traversata del Cervino da Breuil a Zermatt, non si incontrano, negli annali di queste prime ripetizioni al Cervino, nomi celebri d’alpinisti stranieri di gran classe, e ciò rende ancora più fondato il sospetto che i nostri Baretti, Barale, Vallino, Corona, ecc. non fossero alpinisti della tempra di un Whymper, di un Moore, di un Walker. I loro modelli inglesi erano piuttosto i grandi scorridori geografici e topografici delle Alpi, i Ball, i Conway, i Tuckett ed in tempi più recenti il Coolidge, temibile solo per la formidabile resistenza e per il saldo affiatamento d’equipe con le sue guide Ulrich e Christian Almer: ma è lui, infatti, che i nostri impegnano nei più tenaci duelli. La concezione alpinistica dell’epoca non comportava la ricerca della difficoltà, ma al contrario era tutta tesa ad evitarla, ad eluderla astutamente. L’alpinismo era eminentemente esplorativo, strumento di scoperta geografica. Le mete erano le grandi punte vergini, isolate e ben visibili, o comunque che spiccassero imponenti: merito dell’alpinista sapervi giungere col minimo di rischio, se non di fatica (Massimo Mila, Cento anni di alpinismo italiano)».
Va anche ricordato che il carattere dell’alpinismo piemontese e lombardo dell’epoca fu tipicamente classico: solo più tardi comincerà ad affacciarsi timidamente una prima fase di alpinismo senza guida. Ma in Piemonte, praticamente fino all’epoca in cui agiranno Francesco Ravelli e i fratelli Gugliermina (che però realizzeranno alcune delle loro imprese con guida) non si avrà un vero alpinismo senza guide di livello veramente elevato, anche se uomini come Fiorio, Canzio, Vigna, Mondini e Lampugnani sapranno esprimersi assai bene per proprio conto, gettando le basi di quello che sarà poi il Club Alpino Accademico Italiano.

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Gli inizi dell’alpinismo italiano ultima modifica: 2023-04-10T05:21:00+02:00 da GognaBlog

3 pensieri su “Gli inizi dell’alpinismo italiano”

  1. 3
    Grazia Pitruzzella says:

    Splendida la descrizione dei gentiluomini montanari fatta da Massimo Milla.
    Molto interessante anche l’analisi di Adolfo Brunati rispetto al rapporto fra valligiani e cittadini e le dinamiche che sono seguite all’alpinismo messo al servizio del popolo delle città e, per contro, davvero triste la visione dell’ambiente montano insieme alla falsa idea di progresso e civiltà. Non mi ero mai soffermata sull’inizio dell’alpinismo da parte delle élite come espressione stessa della propaganda, sebbene si usassero, non a caso, termini quali “conquista”, “assalto”, “disfatta”, “impresa”.

  2. 2
    Carlo says:

    Unica cosa che trovo ostica è, per mia ignoranza linguistica, queste frequenti citazioni in lingua originale senza traduzione. Oltre a perdere il filo del discorso, mi rendono difficile il contesto. 

  3. 1
    Carlo says:

    Gran bel libro, quando uscì ai suoi tempi fu da me molto apprezzato. Mi permetto di dare una mia personale risposta alla domanda perché il Bianco divenne più famoso del Rosa: la risposta, secondo me, è proprio nel fatto che il primo fu salito da gentlemen forestieri che seppero divulgare la loro impresa, mentre il Rosa venne salito da valligiani che non seppero far pubblicità di ciò che fecero.   La promozione , nelle mani giuste, funzionava bene allora come oggi.

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