Gli ottanta anni della Est delle Jorasses – 2

di Giusto Gervasutti

Agosto 1942: secondo tentativo

Nel 1941, dopo una settimana passata nel Gruppo del Brenta per completare l’allenamento, Paolo subisce una grave crisi di dubbio e parte per Portofino. Portofino io non lo conosco se non per averne sentito parlare e capisco benissimo che deve essere molto più piacevole abbandonarsi alle placide onde tirrene che non penare per dirupi e ghiacciai, ma incomincio a credere che stia nascendo tra questo Eden di delizie e me un fatto personale, perché è la terza volta che me lo trovo tra i piedi. Un giorno o l’altro però prevedo che dovrò anch’io recarmi a vedere quali recondite malie si nascondono dietro le pinete visibili dal treno. Così finisco per partire da solo per la Valle d’Aosta, dopo essermi accordato con Gagliardone che lo avrei chiamato telegraficamente sul posto non appena il tempo lo permettesse. Ma la stagione non era favorevole e così, dopo una settimana sprecata inutilmente, tornai a Torino. Un altr’anno di attesa: il 1942 s’iniziò con tutti gli auspici favorevoli. Di ritorno dalle Dolomiti, mi fermo una settimana a Torino per dare una occhiata agli affari più urgenti, poi l’8 agosto parto con Gagliardone per Cormaiore. Paolo, con mio grande rincrescimento, non può essere questa volta della partita; di ritorno dalle Dolomiti, obblighi militari lo impegnano a Torino e non sa quando potrà esserne libero.

Nella giornata medesima, verso le 18 raggiungiamo la Vachey dove abbiamo deciso di sistemare la nostra base di partenza. Il tempo è ottimo e le condizioni della montagna pure. Teniamo un breve consiglio di guerra per stabilire un programma. Dopo aver esaminato due o tre piani d’azione, decidiamo di partire al mattino seguente per il Colle des Hirondelles, per vedere com’è quest’anno il ghiacciaio che dovremo percorrere di notte senza luna e per lasciare sul colle un sacco con le corde e il materiale pesante. Difatti così facciamo, ma, giunti a metà del ghiacciaio, prima dii entrare nella zona dei grandi crepacci, siamo allettati dal tempo magnifico e decidiamo di accorciare i tempi e di attaccare il giorno seguente. Lasciamo in un crepaccio chiuso il sacco preparato per il Colle, e ridiscendiamo al bivacco fisso. Gagliardone si ferma, io scendo invece alla Vachey a prendere le provviste per la salita ed alle 21 sono nuovamente al Freboudze. Ci sono compagni nella piccola costruzione, la guida Ottoz Arturo con il figlio maggiore di Guido Alberto Rivetti e il suo amico Olcese.

Al mattino partiamo alle 3,20. Il buio è profondo e camminiamo malamente fra i sassi delle morene, pensando alle belle partenze dolomitiche dei giorni scorsi, quando la sveglia non veniva mai data prima delle 7. Sul ghiacciaio si cammina meglio, all’incerto chiarore delle stelle. Giungiamo nella zona dove dovremo riprendere il sacco ancora al buio e qui succede quello che avremmo dovuto prevedere, cioè il sacco non lo troviamo più. Sembra strano, ma quando si lascia un oggetto in un punto ben determinato, non si riesce mai a ritrovarlo. Ambedue giuravamo che il posto era proprio quello, che non potevamo sbagliarci, ma il sacco non c’era. Incominciamo a dubitare che il ghiacciaio ci abbia giocato qualche brutto scherzo, ma poi finalmente io mi decido a ridiscendere un tratto per riprendere le piste del giorno innanzi e così riesco a scovare il buco. Intanto, è passata oltre un’ora e comincia ad albeggiare. Riprendiamo la salita un po’ infreddoliti e rinunciamo a metterci in cordata per cercare di guadagnare tempo. Ma il ghiacciaio a metà non ha più il passaggio come negli anni scorsi e siamo costretti a fare un lungo giro a sinistra, contornando enormi crepacce. Il tempo passa veloce e quando giungiamo sul Colle sono le 8,30. Ci mettiamo in cordata e iniziamo la traversata che porta all’attacco. Sotto il canale che forma il braccio inferiore dell’Y, siamo però costretti a fermarci: una continua gragnuola di ghiaccioli e di sassi, provenienti dall’alto della parete già sotto l’azione del sole da un paio d’ore, rende pericolosissimo il passaggio. Restiamo una mezz’ora fermi, incerti sul da farsi, poi rinunciamo all’attacco di due anni fa e cerchiamo di raggiungere la via di salita più in alto, traversando il canale sotto uno strapiombo dal quale scende dell’acqua, ma che protegge abbastanza dalle scariche. Così facciamo, ma le perdite di tempo si sommano e, quando raggiungiamo la linea di salita, alquanto inzuppati per la doccia forzata, siamo in ritardo di quasi quattro ore sull’orario del 1940. Perveniamo sul terrazzo sotto al gran diedro, alle 15,30.

La vecchia capanna Gervasutti

L’ansia di vedere cosa si cela al disopra della fessura verticale, mi fa dimenticare le disavventure e, lasciato il sacco, attacco decisamente. La fessura, molto faticosa, è vinta di slancio con l’ausilio di un chiodo a metà, e porta ad un terrazzino più piccolo. Davani a me ora si apre la grande zona delle placche. Ho l’impressione di poter proseguire agevolmente e grido a Gagliardone di affrettarsi a legare i sacchi che ritiro uno alla volta: questa manovra dovrà essere ripetuta d’ora in avanti quasi ad ogni passaggio perché abbiamo dei sacchi molto ben provvisti e, con l’aggiunta dei ramponi e della picozza, molto pesanti. La manovra porta ad un notevole dispendio di energie per me e a una notevole perdita di tempo, ma è necessaria. Non appena giunge il mio compagno, attacco la placca sulla destra. Le mie illusioni sono di breve durata. Salgo altri due metri, poi gli appigli diventano microscopici, e non trovo che fessure chiuse. Mi porto più a sinistra scendendo un po’, e riesco a piantare un chiodo che entra due centimetri nella roccia, poi traverso ancora con grande difficoltà e riesco a raggiungere un diedro con una fessura sul fondo. Tanto valeva che mi fossi portato subito a sinistra, ma questo mi servirà per la prossima volta. Ancora qualche metro di estrema difficoltà, poi la pendenza diminuisce e posso proseguire agevolmente. La «porta proibita» dell’ingresso alla zona centrale della parete, è forzata. Vedremo ora se sarà altrettanto breve forzare l’uscita. Un’altra lunghezza di corda ci porta ad un terrazzo, tagliato netto nella parete, molto più piccolo di quello dal quale parte il gran diedro, e piuttosto inclinato. Se non troveremo più in alto altri posti per bivaccare, ridiscenderemo qui. Sopra il terrazzino la parete strapiomba, ma verso destra sale un altro diedro verticale. La parete è tutta caratterizzata da questi diedri e da questi terrazzini che costituiscono l’unica possibilità di strisciare a zig-zag tra le placche strapiombanti. M’innalzo per il fondo piantando tre chiodi, poi la fessura si allarga. Con estremo sforzo riesco ad allungarmi sulla parete di destra, dove trovo il modo di fare entrare un chiodo in un foro circolare, chiodo che risolve il passaggio. Mi faccio tirare dal compagno più sotto possibile con le due corde, poi raccolgo le forze. «Molla tutto». Scatto violentemente nel momento preciso e arrivo a un punto di riposo. Ritiro i sacchi, poi sale Gagliardone. Sempre per il fondo del diedro che continua strapiombante, fino a un punto di sosta sui chiodi dove il cambio è molto difficile. Per ritirare i sacchi devo compiere una complicata manovra: ritirata come al solito, una corda dei moschettoni, devo lanciarla al compagno, ma lo strapiombo la porta in fuori e sono costretto a ripetere 5 volte il noioso tentativo. Con il secondo sacco però va meglio perché, fatto esperto, riesco al secondo colpo.

Massimo Giuliberti al bivacco Jachia alle Grandes Jorasses. Foto: Andrea Giorda.

Intanto le ombre della sera hanno invaso le valli e siamo vicini al momento in cui dovremo fermarci: dieci metri più in alto un terrazzo sembra invitare. Lo raggiungo, ma non è che una placca meno inclinata delle altre. L’unico posto dove possiamo stare abbastanza bene è il terrazzino 40 metri sotto di noi. Dico a Gagliardone di assicurarsi a un chiodo con un cordino, e di slegarsi, mentre io preparo la corda doppia per scendere. Le due corde di 30 metri arrivano giuste al primo posto di riposo sopra il terrazzino, ma lo strapiombo obliquo del diedro le porta in fuori completamente. Bisognerà rientrare pendolando. Gagliardone scende e si ancora alla roccia. Poi, dall’alto scendo io, naturalmente, la corda, tirata da sotto allo strapiombo, non scorre sul cordino mettendoci così in un bell’impiccio. Sembra impossibile, ma in quasi tutte le salite dove ci sono corde doppie difficili, a me succede che, almeno una volta, la corda resta bloccata in alto. Così mi accadde sulla Cima de Gasperi, al Pic Adolf da Sud, sulla Nord delle Jorasses, e potrei continuare. In buona parte, c’entra anche la negligenza, ma ci deve essere anche il mio buon amico «caso» che, al momento opportuno, mi dà una pestatina di piedi. Qui il momento non era poi scelto con molta convenienza perché erano quasi le 21 e di luce ne restava ben poca. Dopo i soliti inutili tentativi, non mi rimane che la solita soluzione: risalire slegato a braccia per la corda fino a raggiungere almeno il posto del cambio sui chiodi. La manovra è tutt’altro semplice e molto pericolosa perché quando mi appendo alla corda questa tende a portarsi sulla verticale e, quindi, a trasportarmi nel vuoto. Faccio un primo assaggio tentando di tenermi sul fondo del diedro e utilizzando solo in parte la corda. Riesco a salire quattro o cinque metri, ma poi rinuncio e ridiscendo. Effettivamente, la sensazione di doversi affidare, senza essere assicurato, alla forza delle sole mani che stringono le corde troppo sottili per fornire una solida presa, è troppo sgradevole. Ma la nostra situazione non ci fornisce molte soluzioni. Scendere quei dieci metri che ci separano dal posto di bivacco in arrampicata libera è impossibile, quindi o bivacchiamo in piedi in questo angusto spazio o riusciamo a recuperare la corda. La notte che sta già avvolgendo la parete e ogni cosa, non dà tempo a studiare la scelta e mi costringe a decidermi per il rischio fortissimo. Mi afferro a due mani alla corda e salgo il più veloce possibile, puntando i piedi sulla lontana e liscia parete di destra dove la corda mi ha portato. Sei, sette, otto metri: a mano a mano che salgo, mi avvicino alla parete. Riesco così a mettermi in piedi su due appigli. Mi mancano ancora due metri, poi sono al punto di riposo. Ma le braccia e le mani accusano dei crampi dati dallo sforzo violento richiesto ai muscoli già provati. Ancora un metro. Scatto ancora, poi mantengo l’equilibrio afferrando con i denti la corda e riuscendo con la mano sinistra libera ad agganciarmi a un grosso appiglio e guadagnare, così, i chiodi del punto di sosta. Da questa posizione riesco a far scorrere bene la corda che poi passo su uno di questi chiodi e scendo veloce a doppia corda. Il mio compagno mi accoglie tranquillo e soddisfatto dell’esito perché un po’ per l’oscurità un po’ per la posizione, non aveva potuto rendersi ben conto del breve dramma da me vissuto. Ma ora è finito e mi sembra strano e lontano il fatto che pochi istanti prima avrei anche potuto lasciarci la pelle.

È già buio quando possiamo finalmente sistemarci sul terrazzino. Il bivacco, si sa, è una prova di pazienza, e si cerca di rendere questa prova meno lunga possibile compiendo i lavori di preparazione con la maggior lentezza di cui si è capaci. Ma quando ci si è sistemati sotto la tendina, quando si sono mangiati quei pochi viveri con calma, quando ci si è cambiati di calze o si sono fatte cento altre cose, se ci si arrischia a guardar l’ora ci si accorge che al massimo sono le 23. Per tutto il resto della notte non rimane altro che la solita magra risorsa di pensare alle cose di maggior contrasto.

Giusto Gervasutti in traversata sotto la Torre (parete est delle Grandes Jorasses)

Alle prime luci dell’alba ci accorgiamo che il cielo è coperto. Nebbie basse ricoprono la valle, lunghe nubi chiudono l’orizzonte. Il sole non potrà riscaldarci che molto tardi, se potrà rompere la cerchia dei cirri. Verso le 8,30 il tempo sembra migliorare: ripartiamo. Io rifaccio il passaggio della corda doppia, fino al punto di sosta; poi un’improvvisa folata di nebbia ci avvolge completamente e qualche granulo di pioggia gelata incomincia a picchiare sulla roccia. A distanza, ci consultiamo brevemente. Conveniamo che è meglio non insistere e io ridiscendo. Ma, appena giunto sul terrazzino, una raffica di vento spazza la nebbia e un po’ di sole riappare nel cielo velato. Il vento è però sempre di Ovest. Rinviamo la decisione di rinunciare e attendiamo. Verso le dieci, il tempo migliora e allora riprendiamo a salire.

Dopo il punto più alto che io avevo raggiunto la sera precedente, non si può più procedere direttamente. Attraversiamo verso destra su ardite costruzioni di ghiaccio fino a raggiungere una rientranza della roccia sotto la «torre». La «torre» è una specie di sperone roccioso che io avevo così definito all’esame del binocolo. Ma dal punto in cui siamo l’aspetto cambia completamente e vediamo soltanto una liscia parete strapiombante, che incombe sulle nostre teste. Al primo sommario esame, si presentano tre possibilità di superare il salto: a sinistra, una fessura verticale stretta, liscia, a bordi svasati, senza un appiglio; in centro, una rientranza della roccia potrebbe lasciare qualche speranza, ma è ancora ricoperta di abbondante vetrato; a destra, dove lo sperone si stacca dalla parete formando una specie di diedro-camino che però resta defilato alla vista. Un po’ contrariato dall’aspetto di ciò che vedo, decido di provare ciò che non vedo. Dal camino mi separa una grande placca liscia che non si può salire. Però, l’intersecazione di questa placca con il salto della torre forma alcune fessure dove possono entrare le dita e che io salgo con estrema difficoltà, alla Dülfer. Dopo quindici metri molto duri, aggiro lo spigolo che forma un lato del diedro; ma qui mi aspetta una spiacevole sorpresa: all’uscita, il diedro è ostruito da una spessa colata di ghiaccio verde. Mi rendo subito conto che è impossibile passare e allora mi calo facendo scorrere una corda su un chiodo con moschettone che abbandono lassù, e ritorno presso il mio compagno. Nel fervore della lotta, non ci siamo quasi accorti che le nubi si sono nuovamente richiuse e che qualche granello gelato ricomincia a battere sui nostri capelli.

In arrampicata sulla Est delle Jorasses. Foto: Pietro Godani.

Sono le 14 e comprendiamo che le cose si mettono piuttosto male: bisogna scegliere immediatamente tra un secondo bivacco non sappiamo dove e come, e una ritirata veloce che può, forse, ancora permetterci di raggiungere il Freboudze in serata. Come già altra volta, sento la montagna prendere il sopravvento, improvvisa e paurosa: è come se la volontà mancasse improvvisamente, annientata da una forza superiore. Non resta che scendere.

Filiamo veloci come ragni lungo le corde doppie, immergendoci nella nebbia. Ormai la meta è il ghiacciaio laggiù, che bisogna raggiungere al più presto. A intervalli nevica. Alle 18,30 siamo all’attacco. Alle 19,15 raggiungiamo il colle. Ci orientiamo alla cieca nella nebbia fittissima, ma usciamo egualmente con precisione sul pendio, nel punto giusto. Le speranze di poter raggiungere il rifugio diminuiscono, ma forziamo egualmente l’andatura. È già quasi buio; quando arriviamo nella zona dei grandi crepacci non ritroviamo più il passaggio fatto in salita. Io mi butto decisamente in mezzo ai seracchi, scendo sul fondo di un enorme crepaccio, esco dalla parte opposta. La fortuna ci assiste e con questa ardita manovra forziamo la seraccata. Continuiamo al buio per i facili pendii fino all’altro nodo di crepacci che bisogna attraversare per raggiungere la morena: qui, però, diventa più difficile. Si distingue a malapena il bianco del ghiacciaio dal nero delle buche aperte e le pile elettriche si sono esaurite. Dopo aver girovagato un po’ a tentoni, prendiamo una decisione razionale: l’uscita si trova in uno spazio abbastanza ristretto, delimitato a sinistra da un gran salto di seracchi; questo spazio è percorso da grandi crepacce parallele, intersecate da altre e da nodi complicati che formano un vero labirinto. Nel fondo di uno di questi dorsi di ghiaccio, tra due crepacce parallele, sappiamo che esiste l’unico passaggio: non potendo indovinare al buio quale di questi dossi sia quello buono, ci portiamo a ridosso del salto di seracchi e ci mettiamo ad esplorare uno dopo l’altro i tratti di ghiaccio compresi fra le crepacce. Per esclusione, dovremo trovare il passaggio. I primi dossi ci portano su enormi spazi neri che indoviniamo più che vedere. Ma noi pazientemente ritorniamo indietro ogni volta e ricominciamo daccapo. Al settimo od ottavo tentativo, il dosso di ghiaccio si restringe, si affila, scende, risale ma non si interrompe. Cautamente, la piccozza protesa in avanti come il bastone di un cieco, avanziamo. Gradualmente, gli spazi neri si restringono, diminuiscono. Finalmente, io posso lanciare il grido tanto atteso al mio compagno che mi segue a una quindicina di metri con la corda pronta fra le mani: siamo fuori. I ramponi ora fanno scintille sul ghiaccio cosparso di pietre. Anche questa volta mi lascio guidare dall’istinto, ed è passata di poco la mezzanotte quando sbatto contro il Bivacco di Freboudze.

Al mattino siamo risvegliati da una comitiva di torinesi che campeggia alle Grange di Tronchey.

Dopo i diversi tentativi di nevicare di ieri, il maltempo si è risolto con un niente di fatto, e stamane il cielo è tutto sereno. Ma noi momentaneamente dobbiamo rinunciare. Le nostre mani sono logorate dal vetrato e dalla neve, e siamo molto stanchi. Ridiscendiamo a La Vachey.

Passa qualche giorno necessario al riposo, ma non certamente alla calma. Nell’attesa forzata, i nervi si tendono. La tensione si acuisce giorno per giorno ed è tanto più forte in quanto i due tentativi fatti mi hanno egualmente lasciato all’oscuro sulle possibilità di passare. Due grosse incognite restano ancora da risolvere: la «torre» e la fascia finale di strapiombi che potrebbe arrestarci a pochi metri dalla fine.

Massimo Giuliberti sulla Est delle Grandes Jorasses. Foto: Andrea Giorda.

La conquista

Sabato 15 agosto, alle 19,30, dopo aver cenato lasciamo La Vachey. Questa volta partiamo con il tempo incerto. Durante tutta la giornata, grosse nubi hanno stazionato nel cielo, ma verso sera la situazione è migliorata. Alle 21 siamo al Freboudze. Dormiamo bene e alle 3 del mattino siamo in marcia sotto un cielo tutto stellato. Camminiamo rapidamente e attraversiamo la zona centrale del ghiacciaio che è ancora buio: alla luce delle lampadine ripassiamo nel fondo del gran crepaccio, sulle tracce della discesa di una settimana fa. Non ci leghiamo e questo ci permette di guadagnare tempo. Alle 6,30 siamo sul colle. Continuiamo slegati fino all’attacco che raggiungiamo alle 7,30. Qualche ghiacciuolo comincia a frullare nell’aria. Sciogliamo le corde, mangiamo qualcosa. Alle 8 attacchiamo. Alle 11 siamo al terrazzo del grande diedro. Ci fermiamo a mangiare. Più oltre, i chiodi rimasti infissi ci favoriscono notevolmente. Alle 13, siamo al terrazzino del bivacco. Alle 14,30, siamo sotto la torre, al punto estremo raggiunto sette giorni fa. Il grosso problema del superamento della torre è sempre da risolvere. Dei tre passaggi che l’altra volta ci erano sembrati possibili, ora non ci resta che provare quello più a sinistra, e cioè la stretta fessura verticale. Da sotto, ho l’impressione che si possa effettivamente salire, e già pregusto l’euforia di un passaggio di venti metri estremamente difficile e faticoso, senza possibilità di assicurazione alcuna, librato sul vuoto: uno di quei passaggi che, quando si sono superati, fanno pensare con piacere all’alpinista che vorrà ripeterlo…

Ma il mio entusiasmo è di breve durata. A mano a mano che riesco a procedere, sento che i bordi arrotondati e lisci mi spingono in fuori, dolcemente, ma irresistibilmente. Dopo tre metri duramente guadagnati, ho la netta impressione che cinquanta centimetri di più mi farebbero volare. Già il discendere diventa problematico. Allora incastro una gamba più a fondo che mi è possibile (queste fessure hanno la prerogativa che almeno, fermi, si può restare per un certo tempo), e, allungandomi sulla parete di destra, trovo un’incrinatura chiusa dove pianto un chiodo che entra tre centimetri. Sostenuto così dalla corda, solo per una parte determinata di peso, discendo. Ma nello spostarmi in fuori, mi accorgo che dall’inizio della fessura, sulla parete strapiombante, in linea obliqua sale una fessurina ottima per i chiodi. Mi sposto fino a raggiungerla e pianto un chiodo solido. L’uscita in alto strapiomba e oltre non si vede che il cielo, ma almeno fin là bisogna andare a vedere. Salgo lentamente usando le due corde. Questa volta il passaggio non ci inganna e, così, delle tre soluzioni prospettate è la quarta quella che ci permette di continuare. Sopra la torre la roccia s’inclina per tre lunghezze di corda, ma poi si drizza nuovamente formando una larga fascia strapiombante che attraversa la parete in tutta la sua larghezza. È l’ultimo ostacolo, quello che da sotto faceva più paura. Ed effettivamente, al primo esame sembra insuperabile. La roccia è compatta, senza fessure. Ma in un punto, un po’ sulla sinistra, la fascia si abbassa fino a formare un muro non più alto di 20 metri. Per rocce facili ci portiamo sotto al muro che strapiomba notevolmente con uno sbalzo di quasi un metro. Troviamo un piccolo diedro con sul fondo una fessura che continua per una dozzina di metri e finisce in una svasatura oltre la quale non si può dire se si potrà andare. Bisogna quindi salire fidando nella fortuna. I chiodi tengono molto bene e la difficoltà è costituita dallo sforzo continuo e prolungato. Dopo un’ora di lavoro, raggiungo la svasatura e posso da qui vedere un’altra fessurina che sale obliquamente, ma potrebbe anche chiudersi prima della fine dello strapiombo. Avrei una gran voglia di scendere per riposarmi un po’, ma l’ansia di avere una risposta definitiva dal passaggio e le ombre della sera che incominciano ad avvolgere le montagne, mi costringono a proseguire. Metro su metro, avanzo faticosamente. Ecco, ora la fessura finisce, ma, sollevato sull’ultimo chiodo, già le mie mani arrivano alla fine del muro, dove la roccia rientra nettamente. Fino all’ultimo, l’incubo di non poter passare resta su di noi. Le dita si agganciano ad esili rughe. «Tira sempre». «Pronto?» «Pronto». «Molla tutto». Nell’attimo che sento le corde allentarsi, scatto violentemente, perché oltre al peso del corpo devo vincere l’attrito dei molti moschettoni. Ma gli appigli sono buoni e in breve mi trovo sulla serie di lastroni dell’ultima grande cengia che, all’esame col binocolo, rappresentava la vittoria raggiunta e alcuni comodi terrazzi per bivaccare. Ma per il momento i terrazzi sono molto più in alto verso destra, e io mi devo accontentare di una svasatura tra due placche dove pianto due chiodi per assicurare il compagno e per attaccare i sacchi quando li avrò fatti salire. La manovra è ancora lunga, ma Gagliardone, per risparmiare le forze e per guadagnare tempo, decide di non recuperare nessun chiodo e così alle 20,30 siamo riuniti sulla svasatura.

Marco Bagliani in arrampicata sulla Est delle Jorasses. Foto: Pietro Godani.

Le placche inclinate che ci separano dai terrazzi non sono più così facili come supponevamo, ed in breve mi trovo nuovamente impegnato. Devo rinunciare a superarle direttamente e sono costretto a contornarle più in alto dove la fascia finisce sotto un altro salto. Attraversiamo così obliquando verso l’alto e verso destra per due lunghezze di corda, e già pregustavamo la gioia di poter effettuare un bivacco tranquillo, comodo e senza preoccupazioni per la sicurezza di essere ormai passati, quando ci troviamo dinnanzi ad una larga colata d’acqua che, data l’ora tarda, si è già trasformata completamente in uno spesso e trasparente strato di ghiaccio. Io ne assaggio la consistenza con il martello, ma è vetrato genuino, facente corpo unico con la roccia e in breve comprendo che c’è poco da fare. Tento di passare ugualmente, usufruendo di qualche rugosità che intacco prima con il martello, ma rischio di volare due o tre volte e allora desisto. È già buio ormai, e muoversi diventa pericoloso. Ci rassegniamo quindi a rinunciare al posto di bivacco che vediamo pianeggiare fra grossi blocchi trenta metri più in alto, e a sistemarci alla meno peggio dove siamo. Abbiamo a nostra disposizione un’invasatura inclinata fra due placche susseguentisi, larga da trenta a quaranta centimetri e lunga circa due metri, che ci permetterà per lo meno di stare seduti. Ci assicuriamo ai chiodi e ci buttiamo sulla testa la tendina. In mezzo a noi lasciamo uno spazio di circa mezzo metro che ci permetterà di accendere il Meta per il tè e di sistemare la candela. Abbiamo ancora una borraccia piena d’acqua e organizziamo un servizio preciso. Nelle ore dispari teniamo accesa per un quarto d’ora la candela, nelle ore pari facciamo il tè. Questo ci permette anche di togliere il crudo alla temperatura interna. La posizione costretta e l’impossibilità di muoverci, incominciano però egualmente a pesare ben presto. Io mi armo di tutta la pazienza di cui sono capace e riesco a star fermo, ma il mio compagno è irrequieto e continua a dimenarsi. Effettivamente, la nostra posizione non è molto piacevole e le ore passano con la solita lentezza esasperante. Ma il mattino arriva sempre. Quando il primo sole ha riscaldato un po’ l’aria sotto la tenda, il dolce tepore ci toglie l’intirizzimento; ci alziamo e facciamo i sacchi. Un po’ di ginnastica ci rimette in circolazione il sangue e permette alle articolazioni del nostro corpo di riprendere il normale funzionamento. Alle 8 io mi accingo ad affrontare nuovamente il vetrato, perché se si volesse attendere che si sciolga bisognerebbe aspettare almeno fino alle 10. Ma alla luce del giorno trovo presto una soluzione: salgo di qualche metro sulla sinistra e pianto un chiodo in alto. Poi attraverso alla corda fino a raggiungere una fessura oltre la zona ghiacciata, dove riprendo ad arrampicare.

Le difficoltà ora sono proprio finite. Continuiamo per una cengia di rocce rotte fino a raggiungere la contropendenza tra la cresta di Tronchey e la cresta des Hirondelles. Raggiungiamo la vetta alle 11. Ci arrestiamo su una larga terrazza di roccia una ventina di metri sotto la calotta ghiacciata della sommità. Ci stendiamo al sole. Fa caldo e abbiamo una gran voglia di dormire. Niente fremiti di gioia. Niente ebbrezza della vittoria. La mèta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa, lottare continuamente per raggiungerla e non ottenerla mai.

Massimo Giuliberti sugli sfasciumi finali della Est. Foto: Andrea Giorda.

Ma anche questo non è che un altro episodio. Sceso a valle, cercherò subito un’altra mèta. Se non esisterà, la creerò. Non so per quale motivo si usi identificare la felicità dell’uomo con la soddisfazione di tutti i suoi desideri, una specie di eterna beatitudine che potrebbe anche essere una perfetta ebetaggine. L’uomo felice non dovrebbe avere più nulla da dire, più nulla da fare. Per mio conto, preferisco una felicità irraggiungibile, sempre vicina e sempre fuggente. E ogni mèta raggiunta scompare per lasciare il posto ad un’altra più ardua e più lontana, perché i momenti in cui l’animo maggiormente esulta sono quelli vivi dell’attesa e della lotta, sia quando si vince come quando più spesso si perde, non quelli morti del godimento della vittoria.

Il tepore del sole ci insonnolisce sempre più. Bisogna quindi scuotersi e scendere. È passato di poco mezzogiorno, quando ci mettiamo sulle piste della discesa. Piano piano, senza fretta ridiscendiamo verso la valle.

Nota Operativa: La relazione della Est delle Jorasses, insieme a quelle delle più importanti salite del Fortissimo, si può trovare sul sito della Scuola Gervasutti:     http://www.scuolagervasutti.it/scuola.html?id=24

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Gli ottanta anni della Est delle Jorasses – 2 ultima modifica: 2022-08-17T05:12:00+02:00 da GognaBlog

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13 pensieri su “Gli ottanta anni della Est delle Jorasses – 2”

  1. roccia. Poi, dall’alto scendo io, naturalmente, la corda, tirata da sotto allo strapiombo, non scorre sul cordino mettendoci così in un bell’impiccio. Sembra impossibile, ma in quasi tutte le salite dove ci sono corde doppie difficili, a me succede che, almeno una volta, la corda resta bloccata in alto. Così mi accadde sulla Cima de Gasperi, al Pic Adolf da Sud, sulla Nord delle Jorasses, e potrei continuare. In buona parte, c’entra anche la negligenza, ma ci deve essere anche il mio buon amico «caso» che, al momento opportuno, mi dà una pestatina di piedi. 
    Aveva visto la sua fine senza purtroppo intuirla!

  2. Fortissimo anche con l uso sapiente delle parole oltre che dei chiodi, essenziale e appassionante. 
    Grazie Crovella a riproporre questa perla.

  3. Alessandro (Gogna), puoi comunicare il mio indirizzo di posta elettronica alla signora Antonella?
    Grazie.

  4. Posso dirle tante cose di mio papà ma non è questo il luogo. Io non sono molto pratica dei blog, ma ci sarà un modo per farle avere direttamente i miei recapiti e lei i suoi?

  5. Gentile sig. Bertoncelli, la ringrazio ancora. Posso dirle tante cose di mio papà ma non è questo il luogo. Io non sono molto pratica dei blog, ma ci sarà un modo per farle avere direttamente i miei recapiti e lei i suoi?

  6. Purtroppo no. Sono nato diversi anni piú tardi.
    Ora le racconto la storia. Il mio primo libro di montagna fu Tra zero e ottomila di Kurt Diemberger, letto e divorato a diciassette anni quando i sentieri e le ferrate della Val di Fassa già avevano fatto sbocciare la mia passione.
    L’anno successivo frequentai il corso di alpinismo del CAI Modena e cosí, entusiasta, ho scalato montagne per il resto della vita. In quell’anno lessi La Cima di Entrelor di Renato Chabod, in cui si parlava di un certo Giusto Gervasutti in termini assolutamente positivi. Fu cosí che incominciai a interessarmi a questa figura che per me è una delle piú notevoli dell’alpinismo italiano, assieme a quella di Emilio Comici: due uomini buoni, altruisti, modesti (nell’accezione positiva della parola), oltre che alpinisti fuoriclasse. Negli anni ’80 la casa editrice Il Melograno (e qui al nostro Alessandro fischieranno le orecchie…) pubblicò Il Fortissimo, che contiene non solo l’autobiografia di Gervasutti ma anche gli altri suoi scritti e quelli dei suoi amici di cordata. Lí c’era pure il curriculum alpinistico del Fortissimo, raccolto da un certo Andrea Filippi. Era la prima volta che mi imbattevo in questo nome. Chi era? Mah!
    Poi uscí l’antologia degli scritti di montagna di Massimo Mila, interessantissima! Uno dei brani era Incontro con Filippi. Le parole che descrivevano questo giovane franco, semplice ed entusiasta – oltre che sfortunato – mi commossero davvero. Tuttora di tanto in tanto le rileggo con piacere, pensando con malinconia che non esistono piú giovani alpinisti come lui. Ma spero di essere solo pessimista…
    Alla fine Mila scrive in due righe della tragica fine di Andrea (incidente di montagna?), senza specificare particolari. In seguito ho cercato altri eventuali scritti che mi informassero meglio, ma non ne ho mai trovati. Se lei potesse darmi qualche riferimento bibliografico ne sarei felicissimo: la figura di Andrea Filippi mi affascina davvero.
    Con i migliori auguri di buona vita.
     
    POST SCRIPTUM. Sia fiera e felice di aver avuto un papà cosí, anche se purtroppo se ne andò cosí presto.
     

  7. Gentile sig. Bartoncelli, la ringrazio di cuore per il bel ricordo di mio padre. Ma lei lo ha forse conosciuto?

  8. Vorrei ricordare a tutti che, se oggi conosciamo il curriculum alpinistico di Gervasutti, è grazie alle ricerche e alla passione pura di Andrea Filippi.

  9. Cara Antonella, tra gli innumerevoli scritti di montagna che ho letto in vita mia ve ne sono alcuni che hanno lasciato il segno, nella mia mente e nel mio cuore. Tra questi c’è Incontro con Filippi, di Massimo Mila.
    La prima volta mi commossi.
     

  10. Grazie Carlo che ti ricordi sempre del mio papà e di tutto quello che ha fatto per il suo Maestro.

  11. Partire da La Vachey per andare direttamente al col des hirondelles è già di suo una sfacchinata pazzesca, se pensiamo che dopo questa “perlustrazione ” Gervasutti è ritornato a La Vachey per prendere i viveri e alle 21 era nuovamente di ritorno ci dà la misura della sua forza e della sua determinazione. 

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