Proprio in questi giorni, 16 e 17 agosto 2022, si celebra un importante anniversario alpinistico: sono trascorsi ottant’anni dalla prima salita di Gervasutti sulla Est delle Jorasses, la sua impresa più eclatante e famosa. Per ricordare degnamente questo anniversario (importante per tutti, ma particolarmente caro a noi torinesi), ho pensato di riproporre un testo dello stesso Gervasutti. Si tratta di un articolo “semi-inedito”, nel senso che fu pubblicato sulla rivista Le Alpi del 1943, ma, forse perché inserito in un periodo storico un po’ burrascoso, tale pubblicazione non è nota al grande pubblico. Ho recuperato questo scritto grazie ad Antonella Filippi, figlia di Andrea (uno degli ultimi compagni di cordata di Gervasutti nell’estate del ’46 e successivamente il più convinto contributore alla fondazione del Corso di scialpinismo della SUCAI di Torino). Antonella ha trovato l’articolo fra le carte del padre, che in effetti è stato un importante divulgatore degli scritti e dell’opera di Giusto. Il mio primissimo entusiasmo, per la scoperta di uno scritto misconosciuto del Fortissimo, si è leggermente smorzato dopo la lettura, poiché Giusto ha riutilizzato questo testo per il suo celebre libro, Scalate nelle Alpi, di cui tale scritto costituisce l’ultimo capitolo “operativo”. Nulla di nuovo quindi. Però si tratta in ogni caso di una “chicca” (forse ristretta ai soli impallinati di editoria di montagna), visto che l’articolo è uscito ad inizio del ’43, mentre il libro è stato stampato nel novembre del ’45. La controprova giunge dalla constatazione che nell’articolo molti toponimi sono stati “italianizzati”, come imposto dalle regole in vigore, mentre nel libro (successivo alla Liberazione) sono stati utilizzati i toponimi originali. Qui leggerete Guglia Nera, mentre nel libro è, per fortuna, chiamata Aiguille Noire.
A prescindere da tutto ciò, la rilettura del racconto di questa scalata, compresi i tentativi precedenti, è una degna commemorazione del suo compleanno “tondo”.
Nel testo emerge già la malinconia di Giusto, che, giunto in vetta, percepisce come la felicità sia alle spalle, per cui la fantasia corre a individuare altre cime, altre pareti, altre sfide. Nel libro c’è un successivo capitolo finale, con la famosa frase conclusiva, “Osa, osa sempre e sarai simile ad un Dio”, che tanti danni ha prodotto alla memoria del Fortissimo, facendolo apparire intriso di ideologia del superuomo e carico di sprezzante disprezzo verso gli altri individui e verso la banale quotidianità. Questo equivoco ha alimentato per lungo tempo la visione di Gervasutti come un disadattato, che cercava nell’alpinismo estremo un elemento risarcitorio per le sue frustrazioni e le sue nevrosi. Invece le recenti ricerche hanno rimesso le cose a posto, confermando l’immagine di Gervasutti come uomo affabile, allegro, socievole, generoso d’animo, raramente irritato. Certo, come sottolinea Chabod, aveva anche lui i “suoi” momenti, sia di nervosismo che di malinconia, ma non erano questo i caratteri salienti della sua persona.
Un’ultima osservazione. Voglio sottolineare quanto sia importante “leggere” i testi di montagna: è importante per tutti, ma in particolare per chi intenda ripercorrere certi itinerari. L’amico Andrea Giorda, accademico torinese, ha percorso la Est con un altro accademico subalpino, Massimo Giuliberti (tra l’altro successivamente scomparso, proprio a metà agosto, ma del 2018, al campo base del Kilimajaro: cogliamo l’occasione per ricordarlo con affetto). I due hanno approcciato la Est dal Bivacco Jachia (Cresta di Tronchey) e non dal Freboudze come il Fortissimo, ma l’aver letto il libro di Gervasutti (lo sapevano a memoria…) è risultato determinante per il buon esito della loro scalata. (Carlo Crovella).
Ecco il contributo di Giorda (tratto da In ricordo di Massimo Giuliberti, pubblicato su scuolagervasutti.it, settembre 2018)
“La passione per Gervasutti era condivisa e, nonostante fosse tempo che non praticavo grande alpinismo, accettai (l’invito di Giuliberti per la Est, NdR). Patrick Berhault, sentito dall’amico Fulvio Scotto, consigliava di passare dalla cresta di Tronchey, ma arrivati sulla verticale della cengia della Est non si trovava il passaggio e come spesso accade in questi casi ci fu una accesa discussione se scendere o rinunciare. Io ero per andare e forzai la mano dicendo che se nessuno veniva sarei andato da solo, mi feci passare i friend e i chiodi e stavo per calarmi quando Massimo mi disse, aspetta, vengo anche io. Ne ero certo, avevo giocato d’azzardo ma sul sicuro, Massimo non avrebbe mai separato la cordata. Fu un’esperienza indimenticabile, insieme coronammo il sogno di una vita, quante volte avevamo letto da ragazzini il tormentato racconto di Gervasutti su quella parete mitica. Proprio il saper recitare a memoria le parole di Gervasutti ci salvò da un errore che può costare caro, arrivati a più di metà parete si trova una fessura larga e invitante, bisogna abbandonarla per un ostico traverso a sinistra difficile da proteggere. Gervasutti dice di aver piantato un chiodo e di essersi calato… il chiodo è ancora lì, con il vecchio moschettone in ferro, per me e per Massimo vedere quel chiodo è stato un momento di grande commozione, era come aver incontrato il nostro eroe da ragazzini, un segno che aveva resistito negli anni, su quella parete selvaggia, per arrivare fino a noi (Andrea Giorda)”.
La parete Est delle Grandi Jorasses, 1ª ascensione – 1a parte
di Giusto Gervasutti
(pubblicato su L’Alpe, n.4-5-6, febbraio-marzo-aprile 1943)
Nei diversi anni impiegati a correre le varie montagne che costituiscono il Gruppo del Monte Bianco, molte volte ero capitato in Val Ferret. Spesso per compiere ascensioni nei bacini del Freboudze o del Triolet, qualche volta per ammirare, tra il silenzio degli alti pascoli, la magnifica visione del M. Bianco che da questa valle si gode; in modo particolare quando il sole cala dietro la immane cresta del Peutérey e gli ultimi raggi solcano il cielo a raggera, sfuggendo attraverso la bianca nube, con i bordi d’oro, che, immancabilmente, si attacca alla Guglia Nera.
Ma, quando, superata l’oasi verde di Plampincieux, soggiorno di fortunati amanti della pace e delle bellezze dell’alpe, proseguivo oltre la Vachey, a mezza strada tra questa località e S. Juan, il mio sguardo veniva sempre rapidamente attratto da una visione nuova, che appariva all’improvviso sul fondo del bacino Freboudze.
La prima volta era stata soltanto ammirazione per il nuovo aspetto con cui si presentavano le Grandi Jorasses, montagna sovrana per i fasti dell’alpinismo, poi la grande parete triangolare, che si innalza al di sopra di un ghiacciaio stranamente sconvolto e solcato da enormi crepacce, incominciò a interessare per sé stessa.
Si potrà un giorno salire? Ad un primo esame sommario, la risposta veniva negativa. Vista a distanza, anche osservata con un potente binocolo, la parete dalla metà in su si presentava come un unico gigantesco lastrone di granito rosso compatto. Eppure qualche ruga appariva qua e là, qualche fessura acquistava rilievo con particolari luci, qualche chiazza di neve, rimaneva sulla parete dopo una nevicata. Ma, intanto, altre grosse battaglie urgevano sui diversi campi d’azione dell’alpinismo, e la parete Est delle Jorasses restava per il momento un lontano problematico desiderio, una specie di agognato frutto proibito che molti desideravano, ma il cui tentativo di possesso tutti rimandavano, ben sapendo che l’aspetto poco invitante sarebbe stato ancora per lungo tempo sufficiente difesa.
Nel 1935, dopo la caduta della Nord delle Jorasses, Gugliermina mandò a me ed a Chabod una cartolina che rappresentava la Est, con su disegnata una possibile via e un gradito augurio: a quando la Est? L’augurio fu molto gradito, ma la realizzazione venne ancora rimandata. Pochi giorni dopo, salendo la Cresta des Hirondelles, ebbi da vicino una paurosa visione delle enormi placche, e l’impressione riportatane non fu certo molto incoraggiante.
Dovettero passare altri due anni prima di abbozzare il primo concreto tentativo. Nel 1937, con Leo Dubosc salii al Bivacco di Freboudze deciso di andare a controllare sul luogo se la bastionata non avesse qualche punto di minor resistenza, dove far breccia. Ma il tentativo alla parete si tramutò in un tentativo di giungere all’attacco, perché avemmo la malaugurata idea di prendere direttamente il ramo destro orografico del ghiacciaio, che non riuscimmo a superare a causa delle numerose crepacce senza ponti: fummo così costretti a retrocedere, dopo aver girovagato per quasi dieci ore, senza poter nemmeno raggiungere il pendio sotto la parete. Constatammo però la necessità di passare dal Colle des Hirondelles, ma il giorno seguente si mise a nevicare e così ritornammo a Torino, senza aver avuto nemmeno il piacere di mettere le mani sulle prime rocce.
Nel 1938 e nel 1939, la mia attività alpinistica fu alquanto ridotta per ragioni di lavoro, ma nel 1940 il richiamo alle armi per essere destinato al fronte occidentale mi portò nuovamente a Cormaiore per un lungo periodo di tempo. Terminata la fase delle ostilità e rientrato il nostro reparto nella sede di Cormaiore, ebbi dal Capitano Inaudi, comandante del reparto ed accademico del CAI, l’autorizzazione a compiere alcune ascensioni. Con la guida Pennard esso pure richiamato, rifeci la cresta Sud della Guglia Nera di Peutérey, poi, continuando il bel tempo e giunto a Cormaiore Paolo Bollini, riuscimmo nella prima ascensione al M. Bianco per la via dei Piloni. Preparati quindi fisicamente e spiritualmente, ci accingemmo ad affrontare la grossa battaglia. Quando ci recammo al Bivacco del Freboudze, il tempo sembrava decisamente favorevole, e noi eravamo decisi a restare sulla parete anche tre giorni pur di venirne a capo… ma si sa benissimo che le decisioni prese al rifugio, dopo una cenetta ben organizzata, e sotto l’influsso di un tramonto sereno che eccita i sensi con la potenza di una sinfonia eroica, sono spesso dimenticate quando l’ombra cupa e spietata della montagna incombe su di noi con tutta la sua forza immobile: anche questa volta ne avremo la conferma.
Alle 23 giungono al bivacco fisso, di ritorno dalla via Rivero-Castelli, i fratelli Pittatore e Galeazzi, i quali con alto spirito cameratesco, per non disturbarci si aggiustano provvisoriamente alla bella stella. All’una, noi ci alziamo e partiamo cedendo il posto ai compagni.
Agosto 1940: primo tentativo
La luna ci favorisce nella marcia notturna e non abbisognamo di lanterna. Sul ghiacciaio, tra le enormi crepacce e le ombre dei seracchi che scintillano stranamente nella luce siderale, la marcia diventa altamente suggestiva. Camminiamo non troppo veloci e nella parte finale perdiamo ancora un po’ di tempo perché prendiamo le rocce di destra invece di salire direttamente al Colle. Traversiamo per pendii ripidi all’altezza della base della parete con l’intenzione di salire direttamente fino alla gran cengia di neve, poi di piegare a sinistra in salita obliqua fino a raggiungere un diedro verticale che avrebbe dovuto permettere di superare la zona delle placche. Nella prima parte arrampichiamo veloci senza incontrare difficoltà notevoli, ma quando sbuchiamo sulla cengia la visione delle grandi placche rosse strapiombanti che incombono sulle nostre teste, smorza di colpo la nostra baldanza: Paolo sentenzia brevemente «Pietà l’è morta». E difatti cerchiamo inutilmente una possibilità logica di forzare la grande muraglia. Anche riuscendo ad aggirare le placche, una linea di strapiombi che solca tutta la parete sembra chiudere ogni via. Non resta che provare. Lungo la linea obliqua di rocce rotte che porta al diedro, incontriamo le prime difficoltà costituite da due piccoli strapiombi.
Alle 11 siamo su un grande terrazzo, dove inizia il diedro.
Ad un primo sommario esame, questo si presenta estremamente difficile, ma percorribile, termina però con un tetto dal quale non si capisce bene come si possa uscire. Io spero di poter attraversare prima della fine a destra e di entrare così nella rientranza che corre sotto gli strapiombi e che costituisce l’unico punto debole del centro della parete. Con questa intenzione, attacco decisamente sulla sinistra. I primi metri sono durissimi, e devono essere vinti con l’uso di parecchi chiodi. Raggiungo poi, attraversando a corda, il fondo e proseguo piantando dei chiodi in un’esile fessurina. Dopo venti metri, trovato un appoggio per i piedi, mi fermo e faccio salire Paolo che per raggiungere la fessurina deve eseguire una ardita pendolata. Facciamo il cambio sui chiodi e poi io riparto. A mano a mano che salgo però ogni speranza di uscita scompare. La faccia destra del diedro, che io contavo di attraversare in alto per uscire, è strapiombante e compatta, senza incrinature. Salire fino alla sommità sarebbe certamente possibile, ma il tetto finale che sporge per alcuni metri è inscalabile. Io avanzo per una decina di metri ancora, ma poi, comprendendo l’inutilità degli sforzi, ridiscendo lasciando un moschettone sull’ultimo chiodo.
Dal posto del cambio facciamo una corda doppia che ci cala sul terrazzo. Sono le 13. Il sole è scomparso da poco dietro la cresta di Tronchey, e immediatamente la temperatura discende di parecchi gradi. Ora bisognerebbe cercare di forzare l’entrata della zona centrale della parete da un’altra parte. Paolo mi indica una fessura verticale che sale sulla estrema destra del terrazzo e insiste perché io salga. Per otto o dieci metri si vede, poi si indovina che la parete, dietro, rientra. Che la chiave della salita stia oltre quella fessura? Quegli otto o dieci metri sono certamente molto difficili, la salita e l’eventuale discesa non porterebbero via più di 30 o 40 minuti, quindi converrebbe andare a vedere cosa si potrebbe scoprire oltre, ma io sto subendo una crisi di volontà. Il vento di Sud-Ovest che soffia con insistenza, vasti cirri che vanno distendendosi verso il Colle della Seigne, nuvolette pesanti che stanno apparendo tra le montagne più basse, generano il dubbio. Insistere nel cercare la possibile via, vorrebbe dire forse farsi sorprendere dal maltempo in pieno sulle placche. Ritardare la ritirata, potrebbe portare ad uno spiacevole bivacco alla base. La volontà dura, quella che piega gli eventi, è ormai incrinata dal ragionamento. Sento dei brividi che mi percorrono il corpo. Ma non è il freddo, è l’impressione dell’ombra cupa della montagna che sta prendendo il sopravvento. È il senso gelido delle sue placche non più illuminate dal sole, delle colate di ghiaccio sporgenti sopra gli strapiombi. Decido la ritirata che il mio compagno accetta a malincuore, perché egli, secondo la sua abituale espressione, sente ancora «i leoni ruggire dentro di sè».
Tre laboriose corde doppie ci riportano direttamente sulla grande cengia nevosa. Poi, continuiamo la discesa lentamente. L’unica consolazione è che il cielo si va rannuvolando. Ma, ormai, il rincrescimento di dover rinunciare sparisce per lasciare posto alla preoccupazione di evitare il bivacco in discesa. La traversata dalla base della parete al colle, dato che il sole è già scomparso da molto tempo dietro la cresta Tronchey, non è molto pericolosa, ma qualche sasso sibila egualmente nell’aria. Anzi, una enorme pietra del peso non inferiore ad una tonnellata, dalla forma piatta e triangolare con un angolo acutissimo, ci offre uno spettacolo poco comune: piombata come un bolide sul pendio di neve, di striscio prosegue di slancio la sua corsa fendendo la neve molle come un veloce motoscafo e sollevando due alti baffi di neve che sembra schiuma.
Sul colle non ci fermiamo perché il tempo stringe. Rotoliamo a valle in lunghe scivolate sui grandi pendii nevosi, superando le grandi crepacce con arditi salti con spinta. Riusciamo a uscire dal nodo di seracchi con le ultime luci. Sulla morena è già buio pesto, ma il terreno mi è abbastanza famigliare e riesco a dirigermi con tanta precisione che ci accorgiamo di essere arrivati al bivacco fisso quando gli sbattiamo contro. Paolo, che è abituato di solito a vedermi perdere la strada sui sentieri più noti e più battuti, si meraviglia altamente.
Al mattino, quando ci decidiamo ad alzarci, le nubi si stanno già sollevando e grossi squarci di sereno appaiono sopra le vette, ma la neve è scesa molto in basso ed abbondante. Tale vista ci rallegra un poco e pensiamo che, in fondo in fondo, è sempre meglio seguire il ragionamento. Se avessimo continuato, chi sa come sarebbe andata a finire. Questo ci toglie le ultime recriminazioni e ci prepariamo per scendere a Cormaiore. La partita è ormai rimandata a un altr’anno.
(continua)
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Un consiglio ai progettisti di bivacchi: meno tecnologia viene messa e meno cose si rompono/guastano e quindi meno necessità di manutenzione. A parte il trasferimento un minuto di elicottero costa 25 euro più Iva…e i minuti corrono veloci. Quasi tutte le manutenzioni non si possono fare a piedi, solo il generatore di corrente (2100 w), serve spesso, pesa quaranta kg. Di solito per un intervento importante c’è da portare su circa 500/600 kge anche di più tra attrezzatura e materiali.
Ovviamente si tratta del mio giudizio personale ma a me il bivacco Gervasutti non piace. Mi occupo, anche per lavoro, della manutenzione di alcuni dei bivacchi del caai e, vedendo che qualcuno di essi si sta avvicinando ai 100 (cento!) anni di vita, come Hess, Brenva, Craveri, mi piacerebbe sapere se i materiali con i quali è stato costruito il nuovo Gervasutti dureranno altrettanto. Sono stato sia a quello vecchio (era già il secondo) nel 78, 83 e anni 90 e in quello nuovo pochi anni fa per salire all’Aiguille Des Lechaux, ed ho giá potuto vedere alcuni difetti importanti come la piastra a induzione che non funziona o la presenza di condensa sia all’interno che all’esterno del bivacco ed altri ancora, segno che dovrà essere già manutenuto per evitare un rapido degrado. Per quanto riguarda la Est delle Jorasses, ci ho messo il naso nel 1981 e, dopo aver bivaccato dopo la Y, al mattino, dopo vari tentativi, siamo riusciti a trovare la via giusta ma era troppo tardi per continuare a salire anche perché le previsioni meteo davano un peggioramento del tempo nella notte per cui siamo tornati indietro con non poche difficoltà. Una parete veramente ripida e bellissima, peccato, sarebbe stata la quarta ripetizione. Ho ripetuto altre sue vie sempre di “categoria”. Epoca di grandi alpinisti.
Risponde a Fabio..” I samaritani della roccia ” l’ho letto anni fa in 1a. edizione..sto leggendo Montagne I Merdiani il bel fascicolo a lui dedicato,dove ho appreso che si era anche iscritto alla Giuve e per me Granata Doc e’ stata cocente delusione.Scherzi a parte sono sempre alla ricerca di quasiasi articolo che trati di lui e di Gagliardone del quale ad oggi ho solo rinvenuto il fascicolo Il Signore del difficile..e poi ho letto che nel 45 aveva aperto una diretta sull’Aiguielle della Brenva..Parli del” Torre” dammi un tuo sincero parere sulla Egger-Maestri del 59..Cesare e’ mancato e quindi il mistero rimarra’….
Sono proprio il bello e il brutto ad essere superficiali come giudizi. L’estetica disgiunta dall’etica non ha nessun valore e me che meno è conoscenza quindi figuriamoci se può permettere di giudicare. Se i parametri di giudizio sono il bello e il brutto, finisce che è bello perché ci piace e brutto perché no. Ci sono cose che hanno un senso complessivo e altre no, ci sono cose con un’armonia e altre no, cose che dialogano con l’ambiente e il paesaggio ed altre no. Le cose della natura selvaggia dove l’uomo può intervenire in maniera effimera godono di grande armonia perciò ci danno delle enormi sensazioni..come il Cerro Torre. Il materiale e il modo di costruire un rifugio oggi non sono l’unico parametro di valutazione di una struttura..si riflette in questo l’assurdo modo di frequentare la montagna a mo’ di luna park, volendo per forza andarci anche se impreparati e quindi esigere comodità. Dovremmo quindi cercare di capire questo, guardare alle nostre esigenze e allora l’unico giudizio possibile è su noi stessi.
Lorenzo, hai mai scalato il Cerro Torre? No, eh? Io nemmeno. E allora, come possiamo dire che è una montagna stupenda oppure orrida?
E lo spigolo N del K2 è bello o brutto? Vallo a sapere! Bisognerebbe averlo scalato, altrimenti il giudizio è superficiale. Non lo impareremo mai.
La funivia Skyway Monte Bianco? Io mi sono sempre rifiutato di salirci. E cosí non saprò mai che è un orrore ambientale.
Il Refuge du Goûter è bello o brutto? Mah! Finché non ci avrò dormito non potrò dire che è uno sfregio alla montagna e all’alpinismo.
Per esprimere, appunto, un giudizio superficiale… Sarà meglio sospendere il giudizio e cercare di capire che dici?
@ 14
Giancarlo, in uno dei brani del libro I samaritani della roccia di Cesare Ottin Pecchio (ultima edizione: Priuli & Verlucca, 2015) è descritto il recupero del cadavere di Gervasutti e soprattutto – relativamente a quanto hai richiesto – il salvataggio di Gagliardone. Si viene illuminati sul carattere dell’uomo, degno compagno di Giusto: pagine stupende!
Se non lo conosci, leggilo! È un ordine! 😉😉😉
Oltre le vs. impressioni positive o meno sul Rifuglio ..mi farebbe piacere un commento tecnico su Gerva e soprattutto su Gagliardone…” il Signore del difficile ” di cui si sa relativamente poco..io ho frequentato spesso il gruppo del Viso e le cime francesi di confine dove Lui inizio’ a diventare grande..Ho anche recuparato i due articoli apparsi sulla Stampa del 1947 che parlvano del mortale incidente alla Aiguille Noire…potete darmi qualche ragguaglio in piu’–grazie
Per poter esprimere giudizi estetici sulle ‘Vele’ di Scampia non è necessario salirci sopra.
Basta una fotografia.
Qualcuno tra di voi che esprimete questa ‘generalizzata certezza” estetica, e’ mai salito al nuovo bivacco Gervasutti o l’avete solo visto in foto ? Comunque per me la discussione finisce qui , de gustibus non ……., come dice Carlo !
@ Crovella al 10. L’ho già scritto, ma lo ripeto: Il volontariato: la rovina dell’umanità!
Certo: “de gustibus…”. Ma vorrei rimarcare che a dire sempre e solo che quel bivacco è una bruttura, che stona con la montagna, che qui che la’, si manca di rispetto (anzi addirittura si offende) tutti quelli che si sono fatti un mazzo tanto per realizzarlo. Io non sono stato coinvolto nel progetto e quindi non mi sono “affaticato”, ma ho visto con i miei occhi l’impegno intenso dei miei consoci. Proprio per questo sento di dover sottolineare pubblicamente che è necessario portare il massimo rispetto per chi ha investito giorni di ferie e proprie energie pe spirito di volontariato.
Segno che ognuno ha i suoi gusti. Anche se su quelli di Gervasutti si può solo fantasticare.
Le persone (tutte, anche i propri familiari, amici, ecc) non si conoscono mai abbastanza.
Restiamo volentieri con qualche dubbio. È un invito, poi ognuno faccia come gli riesce.
E pure “fuori dalla ragione”.
@ Crovella al 6. Questo però è “fuori dalla regione”.
Intervengo solo per confermare che ai sucaini del 2011 (gli eredi del gruppo in cui operò Andrea Filippi, gruppo che allora – 1945/46 – era formato da ragazzi poco più che ventenni, cui Gervasutti si dedicò con molta passione e ampia disponibilità umana), ebbene ai sucaini del 2011 (data del nuovo bivacco) questo bivacco è piaciuto molto. Lo hanno immaginato, sognato, progettato, realizzato, dedicando tempo, fatica, giornate di ferie e, non ultimo, a volte sostenendo direttamente anche i costi vivi. Il bivacco è piaciuto molto al momento della sua realizzazione, ma continua a piacere molto anche oggi, visto che il mondo della SUCAI Torino non ha smesso per un secondo di accudirlo con affetto, come se fosse “uno di noi”, come se fosse la concretizzazione del Fortissimo in mezzo a noi. Inoltre è diffusa convinzione dei più noti biografi di Gervasutti che la sua mentalità, sempre proiettata verso l’innovazione e l’esplorazione, gli avrebbe fatto apprezzare il carattere “fuori dal comune” di questo bivacco.
La differenza tra i commenti 3 e 4 è che il primo esprime una generalizzata certezza mentre il secondo è solo un’ipotesi.
Sono certo che a Giusto Gervasutti , un innovatore che anticipava i tempi come dimostra proprio la salita della Est , il nuovo bivacco Gervasutti sarebbe molto piaciuto !
Certi rifugi e bivacchi vengono dedicati a personaggi ormai morti, solo perché questi ultimi non possono dire la loro. Gli esempi non mancano.
Sulla Est Jorasses Giusto e Gagliardone scalarono tratti di 7mo. Grado fino al 1974 2 sole ripezioni
.Julien &Bastien 1951 e Tascker &Rensaw 1974 ci sara’ stato un perche’
Ma quanto è brutto il nuovo bivacco Gervasutti?!?