Gocce
Si nasce, si vive, si muore: è questa l’immutabile legge della nostra esistenza acquatica. Per dare un senso alla nostra direzione, s’inventarono le espressioni «alto» e «basso». Alto è da dove arriviamo, basso è dove andiamo. Più in alto del nostro ricordo non sappiamo cosa c’è e più in basso di dove possiamo giungere è il regno della fine, una solida e impermeabile barriera di rocce che ci dividono dal favoloso impero del fuoco.
Noi quindi tendiamo, senza variazione possibile, al basso e quando incontriamo un qualunque ostacolo ci organizziamo in enormi megalopoli, allo scopo di sconfiggere con il nostro peso l’ostacolo stesso. Di esse, le più sconfinate si chiamano oceani, ma ve ne sono di meno estese che si chiamano mari. Per noi coincidono con lo stadio terminale, presto il calore del fuoco ci farà «evaporare». Con questo termine noi indichiamo la morte.
La morte è abbandono dell’esistenza e della legge di caduta verso il basso. Si narra che durante la morte la nostra direzione muti. Per questo il momento del trapasso è «senza senso», perché ci sembra un attentato alla realtà quando invece è solo l’attimo che precede l’inversione di marcia: così accade che si vada dal basso all’alto, senza saper perché, senza vivere, senza alcuna coscienza che possa organizzare sensazioni e ricordi.
Negli oceani e nei mari la nostra morte è più vicina. Le probabilità di cessare di esistere e di abbandonare le megalopoli sono massime. Si può anche avere una lunghissima vita, ma al mondo non esiste alcuno che sia presente dall’Inizio.
Negli oceani e nei mari siamo costrette a vivere con il cloruro di sodio: quando questo è presente è perché siamo arrivate alla fine del nostro lungo viaggio. Potremo stazionare alcuni milioni d’anni, ma l’attesa avrà un termine e durante non ci saranno alto e basso. I moti ondosi degli oceani e dei mari, privi di direzione verticale, sono l’irresistibile declino della nostra stagione, il grande respiro di chi ha imparato a vivere senza più averne la forza.
La nostra esistenza ha inizio con un fenomeno che è chiamato «condensazione», ma se la temperatura è più rigida iniziamo un’esistenza diversa con un fenomeno più raro ma ugualmente importante: la «sublimazione». In entrambi i casi, comune è la legge del cadere. La condensazione ci «crea» e nel momento della creazione incomincia la caduta, che è subito veloce.
In quei momenti non sperimentiamo solo l’esistenza: viviamo pure un’affascinante individualità. Ci riconosciamo le nostre similitudini e le nostre differenze, nella pioggia che ci accomuna e ci diversifica. Solo allora noi gocce godiamo del grande privilegio della solitudine e di una instabile libertà. Poi la legge stessa della caduta determina la fine del libero viaggio (libero perché senza ostacoli, non per le possibilità di scelta).
Alla fine della caduta viviamo il grande trauma dell’impatto e subito dopo dell’unione con altre gocce; tramite queste solidarietà si creano i rigagnoli, i ruscelli, i torrenti, i fiumi, cioè agglomerati urbani sempre più complessi con un’individualità sempre più confusa.
La sublimazione crea i fiocchi di neve: questi cadono più lentamente, quasi volessero gustare, con il piacere della danza, la gioia d’essere appena nati. Ma anche per loro il destino è quello di cadere. L’impatto è più dolce, senza alcun rumore i fiocchi s’addossano uno all’altro fino a comporre enormi masse, bacini vasti, concavi e scintillanti che si chiamano ghiacciai.
Anche il ghiaccio si muove e, se pur molto lentamente, pure il ghiacciaio è sottoposto alla regola dall’alto al basso. I fiocchi nuovi comprimono e spingono verso il basso quelli più anziani che, infine giunti a quote e temperature giuste, si «sciolgono» e liquefano direttamente in piccoli torrenti violenti e limacciosi.
Alto e basso sono dunque i poli dentro i quali ci muoviamo; freddo e caldo sono le variabili che determinano i nostri inizio e fine, i nostri moto e stasi. Tutto il resto della materia è semplicemente ostacolo e gli ostacoli determinano la nostra velocità.
Mentre stiamo piovendo, abbiamo una scarsa forza individuale, proprio perché gli ostacoli sono nulli; ma allorché incontriamo il terreno, ecco che dobbiamo raccogliere le forze per superare gli ostacoli del mondo solido. Le prime piogge hanno creato dei ruscelli casuali, dove c’era maggiore o minore resistenza. Ma se all’origine ci fu casualità, in seguito l’altopiano solido venne «eroso» seguendo la precisa legge della minor resistenza, cioè continuando a incidere le tracce accennate all’inizio.
Abbiamo costruito distruggendo; abbiamo scavato valli glaciali, valli fluviali e torrentizie, gole, forre, canyon.
Nella nostra cieca determinazione siamo penetrate dove non arriva la luce del sole e nel buio sotterraneo abbiamo prolungato il nostro continuo scavo, creando così abissi, grotte, gallerie, meandri.
Abbiamo perciò edificato, riscolpendo nei millenni e modificando ciò che di preesistente ci fu assegnato come ostacolo. Per questo motivo non esiste differenza, nel nostro mondo, tra costruire e distruggere.
Nel continuo moto si manifesta la nostra gioia di esistere: il piacere è lasciare una traccia, sempre più profonda, del nostro passaggio. Ci piace giocare con i sassi, arrotondarli e trascinarli, ci piace produrre musica con volubili cascatelle, frusciare fluendo e lambendo le sponde. Ci piace vorticare nelle marmitte dei giganti, a volte immergerci per riapparire più in basso con una risorgenza, abbandonare la luce per riscoprirla.
Mentre in superficie tendiamo ad associarci in entità acquatiche sempre più grandi, all’interno dell’ostacolo roccioso subiamo una piacevole dispersione in mille rami di mille gallerie, ci disaggreghiamo in lenti e millenari stillicidi che quasi ci riportano alla condizione originale. Il nostro percorso, pur avendo perso lo splendore e i riflessi di colore della luce, acquista una fantasia tridimensionale e ciò che creiamo deflagra lentamente in ogni direzione: per qualche momento i sifoni stravolgono perfino l’immutabile legge dell’alto e del basso.
L’interno di una elevazione terrestre è quindi strutturalmente più complicato dell’esterno. I versanti più complessi e dirupati, le orografie più esageratamente contorte sono esempi di semplicità banale se paragonati all’irrazionale tridimensionalità delle viscere di una montagna.
In ogni fase di questa incessante modifica, esterna ed interna all’ostacolo, manteniamo con esso un buon rapporto. L’ostacolo subisce il nostro correre e permette il nostro creare. Così ci sentiamo realmente vive. Se non ci fosse l’ostacolo, la nostra caduta libera non servirebbe ad alcuno e saremmo le prime a dolercene. Noi amiamo l’ostacolo se questo si lascia lavorare come la nostra creatività ci impone, se si lascia plasmare come la nostra estetica richiede, se si lascia incidere come la nostra delicatezza sa fare.
L’ostacolo è anche un controllo della nostra caduta, è il mezzo che regola il passaggio dalla nostra energia potenziale a quella cinetica. Da tempo immemorabile noi abbiamo le chiavi di accesso ad una buona amministrazione di questo passaggio e siamo fiere di un’indipendenza che ci distingue da altre forze naturali, con le quali siamo costrette a convivere e che non hanno il nostro comportamento ordinato, così ben regolato da leggi precise.
Lago artificiale (Kapruner See)
È un po’ di tempo che gli umani interferiscono con gli ordinamenti di cui la nostra indipendenza ha bisogno. Non ci riferiamo qui alle innocue modifiche che già da migliaia di anni bonariamente sopportiamo: l’essere incanalate per abbeverare più comodamente gli animali, o l’essere deviate per l’irrigazione dei coltivi; e neppure vogliamo pensare a quei moli artificiali che gli umani erigono a difesa dei loro porti che qualche nostra onda un po’ indisciplinata ogni tanto aggredisce con effetti disastrosi.
Tutti questi sono dettagli che non scalfiscono sensibilmente la nostra determinazione e di infima entità è la loro somma nel tempo. Al contrario, grandi opere recenti stanno assumendo sempre più rilievo, a danno del nostro modo di procedere e perciò sono ostacoli che non ci piacciono.
Non ci è gradito, per esempio, essere deviate con canali di gronda da una valle all’altra, così come odiamo essere raccolte in grandi bacini artificiali, trattenute da potenti ostacoli di roccia «sintetica» e quasi inattaccabile. Se prima potevamo scorrere nei solchi da noi scelti, dopo un’attenta valutazione delle quantità da destinare ad un solco piuttosto che all’altro, sulla base della grandezza dei declivi che ad essi facevano capo e sulla base delle solo a noi conosciute entità dei torrenti sotterranei, ora ciò non è più possibile. Se prima scorrevamo nel pieno rispetto delle leggi, deviando all’occorrenza in gallerie di solito asciutte, vere e proprie valvole di sfogo per ogni emergenza, dopo l’imposizione dei canali e delle gallerie di gronda ci sembra di scorrere prigioniere in tunnel artificiali; ma ciò che più c’infastidisce è la consapevolezza che chi ci ha imposto questo regime non è del tutto a conoscenza delle variabili che sta turbando.
Allo scopo di ottenere una nostra concentrazione in un luogo geografico preciso, non si è esitato a sconvolgere una perfetta rete idrica sotterranea e a disattivare una volta floridi corsi d’acqua con tanta gioia da noi costruiti in milioni di anni.
Il fastidio diventa indignazione quando si scopre dove questi canali ci portano: in immensi serbatoi che l’intelligenza umana ha imposto a valli ordinate, a verdi conche. Convesse muraglie in breve tempo erette trattengono il nostro peso per convogliare l’energia in punti di concentrazione, nelle turbine, e prima ancora in lunghi tubi metallici di condotta forzata.
Questa costrizione sconvolge le regole e ciò che è permesso talvolta non necessariamente consegue a legge naturale.
Ammassate nel bacino artificiale siamo a disagio, tormento che riveliamo con colorazioni aggressive, quasi una minaccia, un’introversa ostilità: un azzurro che riflette il lato oscuro del cielo.
Condotte forzate (Vittorio Veneto)
Ci sono altre leggi precise cui noi ubbidiamo: a determinati stimoli facciamo corrispondere reazioni sempre invariate. L’esplorazione sistematica di questi meccanismi di ubbidienza è però difficoltosa perché, come in un labirinto la riserva di imprevedibilità è inesauribile, così la ricerca nella casistica degli stimoli è come una partita a scacchi: anche l’avversario ubbidisce a leggi ben precise, ma ciò non toglie ch’egli sia imprevedibile e lo sia tanto più quanto determinato a vincere.
Così nessuna tra noi e ben pochi umani si sono avventurati in questo campo di grandi ipotesi.
Siamo attratte da chi si è impegnato in questa lunga ricerca: riteniamo assai nobile l’amore che lega lo studioso alla Natura. Al seguito degli scienziati ci sono però altre volontà, altri scopi e l’Errore è dietro l’angolo che aspetta, pronto a deviare e a colpire. Noi non siamo intelligenti, quindi non accettiamo l’Errore. Solo chi è profondamente attratto dall’errore può essere intelligente.
L’Errore è mancanza di rispetto, è disequilibrio che dev’essere riequilibrato. A volte le imprese umane sono così prive di rispetto che diventano stimoli di condanna a morte. Ma anche le esecuzioni capitali rispondono a leggi precise quanto ignote e quasi mai colpiscono i colpevoli.
L’evento luttuoso prova che il nostro ordinamento non obbedisce ad una Bontà assoluta e neanche ad una giustizia relativa: al contrario prova che esistono solo Giustizia assoluta e un’assai relativa bontà.
Possiamo essere strumenti di morte. Assieme alla terra e alle rocce possiamo diventare miscela dirompente e cieca, cui poco può resistere. Travolgiamo boschi sani e curati, terreni coltivati, a volte risparmiando foreste affette da incuria e zone già dissestate, ci vendichiamo per l’ingiusto morbo dell’Errore e per l’insistenza dell’eccessiva mancanza di rispetto. Ci abbattiamo su costruzioni, anneghiamo animali, costringiamo all’evacuazione intere famiglie: a volte distruggiamo interi alberghi di pensionati, in un’ineluttabile ricerca di gocce di sangue da liberare.
E così, mentre i responsabili dell’Errore si godono lontano i frutti del loro agire e, pronti a rinnovare altri disequilibri con la «ricostruzione», si sollazzano accanto ad azzurre piscine di acqua «morta», c’è chi paga per loro un alto prezzo. Noi terminiamo il nostro triste compito ed esauriamo la «furia cieca» in qualche lago o in qualche mare.
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