Grandi protagonisti dell’arrampicata libera

Grandi protagonisti dell’arrampicata libera
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-24)

Alvise Andrich: un vero talento naturale
Se Comici nel periodo compreso tra il 1930 e il 1940 fu l’alfiere dell’arrampicata artificiale e colui che seppe certamente elevare il limite del possibile in questo settore, Alvise Andrich (1916-1951) rappresentò la reazione alla nuova tendenza e, fedele alla scuola agordina capitanata da Tissi e dal fratello maggiore Giovanni, seppe portare l’arrampicata libera a dei livelli di difficoltà tali da essere appena superati da quelli degli arrampicatori odierni, i quali unanimemente riconoscono nelle realizzazioni di Andrich un livello di difficoltà e di audacia che ha quasi dell’incredibile.

Da sinistra, Furio Bianchet, Alvise Andrich e Mary Varale, la cordata della diretta al Cimon della Pala

Alvise era di tredici anni più giovane di Giovanni ed era stato destinato agli studi dall’autorità familiare. Ma la passione per l’arrampicata lo portò, verso i diciotto anni, ad inserirsi nella compagnia del fratello maggiore. A differenza di Comici e di molti altri alpinisti che raggiungono l’optimum della forma attraverso una lunga e metodica preparazione atletica e la mantengono con un costante e severo allenamento, Alvise Andrich era un vero talento naturale. Aveva l’arrampicata nel sangue, come Preuss e come Dülfer, e, fin dai primi contatti con la roccia, dimostrò di possedere delle doti eccezionali e soprattutto un’audacia ed un coraggio che qualcuno potrebbe anche definire incoscienza. Ancora oggi ripetendo alcune vie di Alvise, come la direttissima della Punta Civetta, si resta veramente ammirati ed anche un po’ sconcertati dalla sua audacia. Seppe affrontare in assoluta arrampicata libera dei passaggi dove molti arrampicatori moderni di prima forza hanno onestamente riconosciuto che, probabilmente, trovandosi nella medesima situazione durante la prima ascensione, avrebbero sicuramente fatto ricorso ai chiodi e alle staffe. Oggi si passa in libera perché si sa che Andrich passò in libera e quindi tutto è più facile. Ma se ci si pone idealmente nelle condizioni del primo salitore che procedeva nell’ignoto, allora il giudizio acquista una nuova dimensione e si comprende come Alvise Andrich sia stato veramente uno di quegli arrampicatori (come Vinatzer) che seppero innalzare il limite dell’arrampicata libera di un netto gradino rispetto ai contemporanei.

Nel 1934 Alvise ha solo 19 anni ed è praticamente a digiuno di montagna vera e propria, in quanto ha soltanto compiuto qualche prodezza sui massi della palestra di roccia bellunese. Il 16 agosto Furio Bianchet ed Emani Faè, due «vecchi» dell’ambiente agordino e bellunese, prendono con loro il giovanissimo Alvise, forse anche con il segreto intento di metterlo alla prova sulla vera montagna…, e partono per tentare la salita in prima ascensione dello spigolo sud-ovest della Torre Venezia, un problema più volte affrontato dai migliori arrampicatori della zona ma ancora insoluto. Il primo giorno fu compiuta una ricognizione del punto più problematico, ma i tentativi di Faè e di Bianchet di superare un tratto strapiombante furono vani.

A questo punto, Alvise chiede timidamente se i due «anziani» abbiano nulla in contrario a lasciargli compiere un tentativo. Un po’ di perplessità, quindi: «Prego, accomodati!».

«”Abbandonata la stretta cornice su cui eravamo raccolti – scrive Furio Bianchet – egli partì decisamente all’attacco dei primi difficilissimi strapiombi. Con uno stile ed una sicurezza che avevano del prodigioso, li superò in breve tempo, lasciando in noi un senso di perplessità e di ammirazione…”.
In realtà, a metà strapiombo, Alvise Andrich cominciò ad esclamare: “Volo, volo!” e a sfoderare una sua tecnica personalissima: quella di spiccare piccoli salti, per afferrare appigli lontani. Tanto bastò che i due atterriti compagni dessero di piglio ai martelli e cominciassero a costellare il posto di sicurezza di tutti i chiodi disponibili, ripetendo, frattanto, l’un l’altro: ‘Quello è matto’  (Piero Rossi, La Grande Civetta)».

Il 23 agosto dello stesso anno Alvise Andrich con Ernani Faè, realizza il suo capolavoro, salendo la parete nord-ovest della Punta Civetta. Quando dal rifugio Coldai ci si incammina per il sentiero che porta al Laghetto del Coldai e poi si valica un piccolo colle, improvvisamente si apre allo sguardo tutta la gigantesca muraglia nord-ovest del Civetta e si resta veramente incantati di fronte ad uno degli spettacoli più grandiosi ed affascinanti di tutta la catena alpina. La grande muraglia è caratterizzata da una serie di torri e di guglie che si innalzano come disposte in una scala gigantesca verso la vetta principale. Lo sguardo ad una ad una scopre la Torre d’Alleghe, la Torre di Valgrande con la sua giallastra parete strapiombante, il Pan di Zucchero, la Punta Civetta, la Punta Tissi e la vetta del Civetta. Di tutte, forse, la più bella e affascinante è proprio la parete della Punta Civetta: alta quasi 800 metri, rigorosamente verticale, di roccia grigia chiara e compatta, levigatissima, è caratterizzata da due fessure sottili e profonde, che, con dirittura straordinariamente elegante e perfetta, solcano la parete parallelamente, dalla sommità dello zoccolo fino alla vetta. Le fessure, strozzate da numerosi strapiombi, rappresentano una linea ideale di salita, ma «… per una scuola di arrampicatori fondata precipuamente sull’arrampicata libera e su un uso assai moderato di mezzi artificiali, un itinerario simile appariva denso di rischi e di incognite: non vi era notizia di precedenti tentativi, né apparivano possibili ricognizioni parziali (Piero Rossi, op. cit.)».

In due giorni di durissima arrampicata fu scalata la fessura di sinistra (quella di destra sarà vinta molto più tardi, ma con lo stesso stile, dal fortissimo roveretano Armando Aste). Il racconto che Emani Faè fa dell’impresa è avvincente: a poco a poco prende corpo il personaggio Alvise, audacissimo, testardo e cocciuto, capace di compiere tre voli successivi nel tentativo di vincere una «placca» levigata, capace di osare fino ai limiti dell’incoscienza, reggendosi ad un appoggio con il bordo della tasca dei calzoni per riuscire a piantare un chiodo provvidenziale prima di precipitare nel vuoto!

Ancora oggi la Andrich alla Punta Civetta è una grandissima arrampicata libera, fortunatamente rimasta nelle originarie condizioni di chiodatura e rappresenta veramente un severo banco di prova per gli arrampicatori più agguerriti. Anche le più difficili scalate di oggi (1), come il diedro Philipp sulla Punta Tissi, la superano solo leggermente per sostenutezza e continuità delle difficoltà, ma forse non per la difficoltà pura dei singoli passaggi in arrampicata libera. In un’epoca in cui l’arrampicata artificiale stava prendendo piede sulle Dolomiti, la scalata di Andrich rappresentò quasi un’estrema difesa dell’arrampicata libera ed una dimostrazione palese che ancora si poteva osare, e di molto, prima di passare alla tecnica sistematica del chiodo. Questo non vuol dire che la Nord della Grande si potesse salire anche in arrampicata libera: l’unico mezzo per salirla era quello adottato da Comici. Ma prima di passare al «giallo», vi erano ancora moltissime pareti di estrema difficoltà che potevano essere vinte in arrampicata libera. Ma si sa che il progresso e la storia a volte, a dispetto di ogni filosofia, seguono dei cicli e dei cammini che gli uomini non riescono a controllare e devono soltanto subire, a volte con magnifiche ribellioni, come quella di Andrich, che tuttavia non rallentano e non fermano il cammino del cosiddetto progresso (o regresso?), ma rappresentano soltanto degli splendidi casi isolati che confermano la regola.

Altre magnifiche imprese di Andrich, furono la vittoria sullo spigolo ovest della Cima De Gasperi (Civetta), nel 1935, con Bianchet e Zancristoforo, e la direttissima tracciata sulla parete ovest del Cimon della Pala, il 6 settembre 1934, con Mary Varale e Furio Bianchet. Prima della guerra, Alvise compirà anche una serie di tentativi allo spigolo sud-est della Torre Trieste, ma, giunto quasi al successo – che arriderà in seguito ai lecchesi Cassin e Ratti – dovrà rinunciare perché chiamato a combattere nell’aviazione militare. Dopo il conflitto, dove si distinse in azioni di combattimento e fu decorato con tre medaglie d’argento, praticamente non arrampicò quasi più e nel 1952 perse la vita precipitando per un banale incidente durante un volo di servizio sui monti dell’Appennino.

Celso Gilberti

Gelso Gilberti e Bruno Detassis, grandi protagonisti dell’arrampicata libera sulle Dolomiti
A seguito dell’iniziativa presa da Comici con la salita della parete nord della Cima Grande di Lavaredo, i sistemi artificiali d’arrampicata cominciarono ad incontrare grande favore sulle Dolomiti e permisero la risoluzione dei problemi alpinistici ritenuti «impossibili». Tra i fautori della «nuova tecnica», come poi vedremo, spiccano per il valore delle loro imprese nomi come Carlesso, Soldà e Cassin. Preme ancora ripetere che costoro furono prima di tutto arrampicatori liberi con tutte le carte in regola, e lo dimostrarono più d’una volta, ma abbracciarono anche i sistemi artificiali e, facendone uso con grande severità al fianco di un’arrampicata libera spinta veramente ai limiti di caduta, seppero portare ancora più avanti il discorso iniziato da Comici ed ancora prima da Dülfer.

Al contrario, vi furono altri che non aderirono al nuovo corso e rimasero in posizione conservatrice a difesa dell’arrampicata libera pura, dove il chiodo interveniva più che altro come esclusiva assicurazione e ben raramente come appiglio o come aiuto per le manovre di corda. Tra gli esponenti di questa corrente, oltre al già citato Alvise Andrich, dobbiamo ricordare il roveretano, ma di origine friulana, Gelso Gilberti, che nella sua brevissima e folgorante carriera alpinistica, conclusasi tragicamente – a soli 23 anni – l’11 giugno del 1933 per una caduta sulla Paganella, realizzò ben 46 vie nuove, di cui molte di livello estremo. Gilberti, per motivi di studio, visse a lungo a Milano, entrando in contatto con gli ambienti alpinistici locali e soprattutto con Ettore Castiglioni. Egli, come Gervasutti, è uno dei primi dolomitisti a venire a contatto con gli ambienti occidentali e di conseguenza a trasferire la sua azione sulle Alpi Occidentali, ottenendo risultati di indiscusso valore e testimoniando quindi la superiorità e la completezza della scuola orientale.

Arrampicatore libero di straordinaria eleganza, ha saputo realizzare itinerari di estrema difficoltà, dove l’ausilio del chiodo interviene rarissimamente e dove soprattutto emergono i valori umani dell’arrampicatore, il quale si vale unicamente delle proprie risorse psicofisiche affinate e portate ad un grado più elevato di rendimento attraverso un serio e metodico allenamento.

L’attività di Gilberti sulle vicine e care Alpi Carniche e Giulie fu naturalmente intensissima e fitta di prime ripetizioni di valore – come la via Comici sulla parete nord della Cima dì Riofreddo – ed anche di prime salite di difficoltà notevole. Successivamente il suo campo d’azione si aprì alle Dolomiti dove ben presto successi e imprese di prestigio si avvicendarono in maniera impressionante.

Ma le imprese storiche e quasi leggendarie di Gilberti si svolsero dal 1930 in poi. Il 19 ottobre del 1930 con Ettore Castiglioni e Vitale Bramani supera lo spigolo nord della Presolana, poi il 27 e 28 agosto del 1931, sempre con Castiglioni, vince la parete nord-ovest della Busazza, compiendo forse la sua impresa più bella, elegante e difficile. La parete, altissima, è un esempio mirabile di scalata libera pura: la grande muraglia superiore fu superata lungo una serie di pericolosi camini verticali, dove le difficoltà costantemente si tengono sul V e V grado superiore, con scarsissimo impiego di chiodi. Infine, il 28 agosto 1932, Gilberti, con Oscar Soravito, realizza la prima ascensione del formidabile spigolo nord dell’Agner, alto 1600 metri, superando nella parte finale difficoltà di sicuro sesto grado – che oggi sono notevolmente addomesticate dai ripetitori con l’impiego di molti chiodi ed anche di staffe – in arrampicata libera.

Come Gervasutti, ma in tono minore, anche Gilberti saprà farsi valere sul terreno occidentale. In una breve campagna estiva a Courmayeur realizzò alcune salite di classe, come lo sperone Moore al Bianco e soprattutto una delle prime ripetizioni della famosa cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey, allora la più difficile scalata di roccia di tutte le Alpi Occidentali.

Già si è parlato del Gruppo dolomitico del Brenta in occasioni precedenti. La particolare struttura rocciosa di questo gruppo ne fa veramente uno dei «paradisi» dell’arrampicata libera pura. La roccia, una dolomia grigia, sana e compattissima, è assai lavorata dagli elementi atmosferici e presenta sempre tutto un insieme di buchetti, di concrezioni, di vaschette, che permettono alle dita una presa piccola ma salda e sicura, tale da consentire ai più preparati il superamento di notevoli strapiombi anche in arrampicata libera. Il più grande protagonista del Brenta nel periodo compreso tra le due guerre è indiscutibilmente Bruno Detassis, vero e proprio «re del Brenta». Da alcuni Detassis viene considerato come il più forte arrampicatore libero del periodo compreso tra le due guerre, ma sappiamo che giudizi di questo genere lasciano un po’ il tempo che trovano. Certamente Detassis in Brenta seppe esprimere qualcosa di nuovo e diverso rispetto a chi lo aveva preceduto, sia nel senso della difficoltà pura, sia soprattutto nella scelta degli itinerari, dove eleganza e grandiosità hanno un ruolo primario. Vero e proprio artista dell’arrampicata libera, Detassis non fu mai seguace della tecnica artificiale e pare che in tutta la sua carriera non abbia mai usato una sola staffa. Anche i chiodi piantati non furono molti: come per Tissi, Andrich e Vinatzer, anche per Detassis quando non si passava più, si poteva ancora tentare con lo «slancio» di passare oltre uno strapiombo, ai limiti della probabile caduta. Non per nulla quasi tutte le sue vie sono indiscussi capolavori di arrampicata libera, dove il fiuto dello scalatore va alla ricerca del tracciato «naturale» in una parete dove i mezzi artificiali permetterebbero anche di salire direttamente.

Ettore Castiglioni e Bruno Detassis (a destra)

È il periodo in cui ancora ci si difende accanitamente dall’artificialismo e non per nulla molte di queste vie sono caratterizzate da lunghe e difficilissime «traversate» orizzontali, necessarie per collegare diversi sistemi di diedri e di fessure arrampicabili in libera.

Nato a Trento nel 1910, Bruno Detassis a soli 23 anni divenne portatore e poi due anni dopo guida alpina. Egli è uno degli esempi più significativi di guide alpine che, pur svolgendo seriamente l’attività professionale, tuttavia prendono iniziativa in un contesto alpinistico separato e realizzano imprese di estremo valore in compagnia o di altre guide oppure, più sovente, di cittadini come appunto Ettore Castiglioni, veramente onnipresente in tutte le imprese alpinistiche di questo periodo, e come il valoroso trentino Giorgio Graffer (1912-1940), fortissimo scalatore libero, uno dei migliori dell’epoca, prematuramente caduto in un duello aereo durante il secondo conflitto bellico.

L’attività di Detassis nel Gruppo di Brenta ed anche in altri gruppi dolomitici, come le Pale di San Martino, è intensissima ed è difficile stenderne un resoconto completo. Come sempre ci limiteremo alle imprese più significative e a quelle che veramente ebbero un senso «storico» e decisivo ai fini dell’alpinismo dolomitico. Dell’agosto del 1934 è la più notevole impresa di Detassis (1910-2008): con Ulisse Battistata ed Enrico Giordani, vince la verticale e compatta parete nord-est della Brenta Alta, certamente la più bella e difficile arrampicata, a tutt’oggi, del Gruppo di Brenta. Questa via, che subito non ebbe la fama di difficoltà che giustamente meritava, in seguito ai giudizi dei ripetitori è senz’altro da porre, come livello di realizzazione tecnica, sullo stesso piano della via Carlesso alla Torre Trieste oppure della via Andrich sulla Punta Civetta o anche, con un paragone più moderno, della via Lacedelli alla Cima Scotoni. Superfluo dire che l’impiego dei chiodi fu scarsissimo.

Bruno Detassis negli anni Novanta. Foto: Giorgio Daidola.

Nel luglio del 1935, ancora con Giordani, Detassis supera la splendida parete nord-est del Crozzon di Brenta, lungo la cosiddetta via delle Guide, un capolavoro di eleganza e di arrampicata libera da citare ogni volta come esempio. Ma certamente l’impresa tecnicamente più difficile fu compiuta nel 1937, quando con Giorgio Graffer fu vinto il pilastro della parete est della Cima Tosa: all’inizio di questa scalata, esattamente nei primi cento metri, furono vinte difficoltà di assoluto sesto grado in arrampicata libera ed anche oggi questa salita è assai temuta dai più forti arrampicatori dolomitici.

Detassis malgrado l’età avanzata continua a frequentare le sue montagne con assiduo amore ed è assai amato e stimato dagli alpinisti di ogni paese che ogni anno confluiscono verso le Dolomiti di Brenta. Infatti egli per moltissimi anni è custode del rifugio Brentei, posto proprio al centro del massiccio e punto di partenza per le imprese più prestigiose.

Bisogna però ricordare anche il nome del fratello Catullo, che sovente gli fu compagno in numerose imprese di rilievo.

Tra gli alpinisti che agirono in questo periodo nel Gruppo di Brenta e che seppero portare il livello delle difficoltà ad un gradino più elevato, bisogna ricordare il già nominato Giorgio Graffer, autore di imprese difficili ed eleganti, arrampicatore libero estremamente dotato, ed anche Matteo Armani, uno dei tanti «eroi sconosciuti» della storia dell’alpinismo. La sua impresa più prestigiosa è stata la via tracciata lungo il formidabile diedro della parete sud-ovest del Croz dell’Altissimo. A giudizio dei ripetitori moderni si tratta di una scalata di valore assoluto, un’arrampicata libera veramente estrema, dove più volte si raggiunge il limite di caduta.

Gian Battista Vinatzer: un fuoriclasse insuperato
Nella storia dell’alpinismo vi sono parecchi «eroi sconosciuti» il cui valore fu scoperto e messo in luce solo in seguito alle ripetizioni delle loro vie, compiute in epoche successive al periodo in cui essi agirono. Il nome di Gian Battista Vinatzer (1912-1993) ne è un classico esempio. Senza tema di smentita egli può essere definito come il migliore arrampicatore su roccia del periodo compreso tra le due guerre e certamente, anche dopo, sono stati veramente pochissimi gli arrampicatori che hanno saputo portarsi al suo livello oppure addirittura superarlo. Nato in Val Gardena nel 1912, Vinatzer aveva certamente la «croda nel sangue»: era uno di quegli arrampicatori, come Tissi o come Andrich, i quali non necessitavano di allenamento alcuno, ma potevano contare su doti naturali eccezionali e su un equilibrio psicofisico tale da porli costantemente in condizione di affrontare difficoltà estreme.

Eppure, se ancora oggi si parla con Vinatzer, egli resta quasi stupito ed un po’ smarrito quando gli si dice dell’importanza che le sue imprese ebbero nella storia dell’alpinismo (2). Se c’è un uomo e un alpinista da lodare per la sua modestia, questo è proprio Vinatzer: non pubblicizzò mai le sue imprese, non lasciò mai un racconto, una minima nota tecnica, non scrisse mai le sue impressioni. Tant’è che delle sue vie all’epoca non si seppe pressoché nulla; soltanto quando alcuni ripetitori (come il celebre francese Livanos) si cimentarono sui suoi itinerari a molti anni dalla loro apertura, allora con grandissima sorpresa ci si accorse che «quello sconosciuto Vinatzer» era un arrampicatore di classe eccezionale, colui che seppe portare il limite dell’arrampicata libera ad un livello difficilmente superabile.

Giovan Battista Vinatzer (a sinistra) e Vincenz Peristi

Il campo d’attività preferito da Vinatzer sono state naturalmente le Dolomiti e soprattutto quelle più prossime alla sua bella Val Gardena. Le vie aperte sono state assai numerose ed è difficile stenderne un elenco completo, anche perché alcune vengono «riscoperte» solo in questi anni. Comunque, all’età di 20 anni Vinatzer riprende la via Solleder sulla parete nord della Furchetta e sale fino al pulpito Dülfer. Invece di attraversare per evitare la giallastra e friabile muraglia sommitale, egli prosegue direttamente per 200 metri fino in vetta, superando difficoltà veramente allucinanti, definite dai pochissimi ripetitori di questa variante come l’opera di un pazzo o di un irresponsabile. Va detto che Vinatzer è stato soprattutto maestro d’arrampicata libera: fu sempre assai restio all’impiego dei chiodi, ai quali ricorreva solo in caso di assoluta necessità, mentre pare che non abbia mai impiegato, come Detassis, le staffe a gradini. Egli stesso ha sempre detto che la variante della Furchetta, tecnicamente, fu il tratto d’arrampicata più difficile da lui superato.

Tutte le vie di Vinatzer oggi sono come un «test» di prova per gli arrampicatori più agguerriti, i quali il più delle volte rimangono come increduli e stupefatti di fronte alle difficoltà superate in arrampicata libera dal maestro gardenese. Anche se oggi alcuni itinerari risentono un po’ della chiodatura abbondante (Sass de la Luesa, Mugoni, Catinaccio, Piz Ciavazes, Stevia, ecc.) che ha facilitato alcuni passaggi chiave, tuttavia le vie di Vinatzer vengono sempre avvicinate con immenso rispetto ed è grande la stima e la considerazione che i giovani nutrono per il gardenese.

Ad unanime giudizio, comunque, la sua impresa capolavoro fu la via aperta il 2 e 3 settembre 1936 con Ettore Castiglioni sulla parete sud della Marmolada di Rocca, certamente la via più dura e difficile aperta sulle Dolomiti prima della Seconda guerra mondiale. Castiglioni, seppur arrampicatore di classe eccezionale, dovette ammettere che in quell’occasione Vinatzer gli fu superiore e che seppe superare da capocordata difficoltà in arrampicata libera che forse egli non avrebbe potuto vincere se si fosse trovato a condurre. Può darsi che la situazione abbia dato anche un certo fastidio a Castiglioni, il quale tuttavia in ogni occasione seppe riconoscere il valore di Vinatzer e valorizzò sempre le imprese del gardenese. Però i due non arrampicarono più insieme.

Soprattutto nella prima metà della parete, la via della Marmolada di Rocca è un concentrato di difficoltà che raramente si incontrano in montagna: i passaggi in arrampicata libera sono veramente ardui e sovente si sale solo perché si sa che qualcun altro prima è già passato oppure perché si scorge un chiodo che indica il cammino. Ma se idealmente ci si mette nelle condizioni dei primi salitori che agivano nell’ignoto, allora veramente si riesce a comprendere la capacità ed il valore assoluto di Vinatzer. La roccia liscia e compatta della Marmolada si presta assai poco all’infissione dei chiodi, tanto che questa via è rimasta appannaggio di poche cordate molto preparate in arrampicata libera. Purtroppo alcuni, non all’altezza delle difficoltà, a volte venendosi a trovare in situazioni difficili, ricorrono all’uso di chiodi ad espansione, umiliando, nel vero senso della parola, il valore ed il coraggio di chi per primo si è avventurato su queste difficoltà senza perforatore e senza chiodi ad espansione, ma fidando esclusivamente nella propria abilità, pronto a ritornare indietro e a dichiararsi battuto di fronte a difficoltà per lui insuperabili.

I seguaci della tecnica del chiodo dopo Comici: Carlesso, Cassin e Soldà
È evidente che il filone iniziato da Comici con la scalata della parete nord della Cima Grande di Lavaredo non poteva arrestarsi ad un episodio, ma avrebbe trovato ben presto un seguito e un naturale superamento in imprese tecnicamente più difficili.

Nel mondo dolomitico, e soprattutto in Veneto, spicca la figura del vicentino Raffaele Carlesso (1908-2000), il quale, realizzando alcune imprese nel Gruppo del Civetta, seppe innalzare ad un gradino nettamente superiore il livello raggiunto da Comici con la scalata della Nord della Grande. Carlesso è un personaggio straordinariamente umano, che desta simpatia anche al primo contatto. Carico di vitalità, agile e scattante come un felino, aggressivo, un po’ polemico, per un lungo periodo fu veramente un caposcuola dell’alpinismo veneto e seppe creare un vivaio di fortissimi arrampicatori che agivano sulle palestre calcaree delle Piccole Dolomiti vicino a Vicenza.

Raffaele Carlesso

Carlesso durante la sua carriera alpinistica non ha avuto molta fortuna e quasi sempre ha dovuto «rubare» al tempo e alle condizioni esistenziali difficili il poco spazio per realizzare le sue imprese. Le condizioni economiche, particolarmente difficili, non gli permisero mai di dedicarsi alla montagna con dedizione totale ed anche quando questo in un certo periodo fu quasi possibile, un incidente lo allontanò per parecchio tempo dall’attività alpinistica. Quindi un uomo sfortunato, in un certo senso. Ed è proprio per questo che le sue imprese acquistano un valore ancora più grande, in quanto sono il frutto di un puro dilettantismo e non il risultato di un lavoro professionale.

Anche se le imprese di Carlesso hanno un carattere che volge decisamente all’arrampicata artificiale (ma molto rudimentale se paragonata alle raffinatezze dei giorni nostri…!), va detto a scanso di equivoci che il vicentino è stato innanzi tutto un arrampicatore libero eccezionalmente dotato, quasi un funambolo capace di acrobazie incredibili. Non molto alto, tutto nervi, agilissimo, riusciva a superare passaggi «impossibili» in arrampicata libera, ricorrendo ad una tecnica personalissima, tutta impostata sulla opposizione degli arti. Tant’è che ancora oggi, in età piuttosto avanzata, vederlo arrampicare è veramente un piacere per gli occhi ed una dimostrazione palese di stile elegante e perfetto (3).

Egli fu però attratto da pareti formidabili, come la fantastica Sud della Torre Trieste, dove solo il ricorso ai chiodi e alle manovre di corda poteva garantire il successo. Infatti nel 1934 con lo sfortunato Bortolo Sandri (che morirà poi con Mario Menti, un altro compagno di Carlesso, tentando la parete nord dell’Eiger) Carlesso supera la parete sud della Torre Trieste, vincendo difficoltà che allora furono definite di «sesto grado superiore». La parete segnava veramente un netto avanzamento rispetto ad altre salite precedentemente compiute: in alcuni tratti Carlesso dovette dare il meglio di se stesso per vincere dei passaggi-chiave in arrampicata libera ed artificiale.

Se poi si riflette e si pensa ai chiodi che allora gli arrampicatori avevano a disposizione, allora l’impresa di Carlesso si delinea come un capolavoro di arrampicata, realizzato da un uomo in cui coraggio, temerarietà e capacità tecnica sapevano fondersi mirabilmente come in pochi altri casi.

Ancor oggi, seppure zeppa di chiodi, seppur facilitata in alcuni tratti chiave da alcuni chiodi ad espansione, la Carlesso alla Trieste è una scalata di grandissima classe, che ha saputo conservare le sue difficoltà ed il suo fascino, al contrario di altre imprese dell’epoca, che invece a causa della chiodatura hanno decisamente perso il loro primitivo valore. All’epoca la Sud della Trieste fu giudicata inferiore ad altre vie come la Cassin alla Cima Ovest di Lavaredo o la Soldà alla Marmolada, dove il ricorso al chiodo fu più importante e quindi anche il carattere spettacolare più esaltato. Ma invece, a giudizio anche dei ripetitori moderni, la Carlesso è certamente più difficile, anche perché i tratti chiave si debbono vincere in arrampicata libera.

Settembre 1992: Francesco Maddalena e Raffaele carlesso (a destra) al rifugio Pordenone

Nel 1936 Carlesso, con Sandri e Menti, vince la gialla e strapiombante parete nord-ovest della Torre di Valgrande (Civetta) in tre giorni di durissima lotta, superando tetti e strapiombi che opposero difficoltà decisamente estreme. Soprattutto all’inizio della scalata, per uscire da una grotta fu superato un tetto orizzontale sporgente per più di quattro metri sul vuoto: simili passaggi fino ad allora erano soltanto stati superati in palestra a pochi metri da terra, ma mai in montagna. Oggi la Carlesso alla Valgrande è una classica che i bravi riescono anche a salire in sole quattro ore…! Ma attenzione: tutti i chiodi sono in parete e ve ne sono anche di troppo, elegantemente si passa dall’uno all’altro sulle comode staffe con i gradini di metallo e con grande rapidità si superano gli strapiombi. Ben diverso fu il compito di Carlesso: con pesanti corde di canapa, con pochi e pesanti moschettoni di ferro, armato di alcuni grossi chiodi che dovevano andar bene per ogni fessura, aiutandosi con asole di cordino che alla lunga segavano il piede dell’arrampicatore, sospeso nel vuoto senza cinturoni ma legato con le corde alla vita, a volte dovette combattere per ore intere per riuscire a piantare un chiodo in uno strapiombo o sotto il famoso tetto!

«… Anche quella della Torre di Valgrande è stata una bella salita. Quando ho fatto quel passaggio in libera sulla Valgrande, è stato un passaggio che vale una vita. Oggi ti ridon dietro. Oggi van su con queste staffe… ma sono passaggi, che, veramente, non è la forza, è lo spirito che ti tira su! Venir fuori da quel soffitto della Valgrande è una cosa impressionante e, poi, sopra è tutto marcio. Ad un certo punto, non sapevo più come fare. Ho messo un chiodo sottile come un filo d’erba e mi ha tenuto su. Era una salita che non dava respiro... » (La Grande Civetta).

Irriducibile, ma un po’ nostalgico e melanconico, Carlesso ricorda quel periodo magnifico e lo confronta con l’alpinismo di oggi (4): «… Per me adesso è come se l’alpinismo non esistesse più… per noi il chiodo era sempre una profanazione della montagna. Usavamo i chiodi per sicurezza e, prima di mettere un chiodo, era come se fossimo andati a confessarci. Questo era il nostro concetto… Oggi ho sessantadue anni. Domenica son andato su con gente di vent’anni… stracci! Alla mia età ho fatto la Nord della Grande in quattro ore e mezza, in cinque ore la Cassin della Ovest e poi la Direttissima dei tedeschi…

È con il sistema di vita che la gente si rovina… Io a Pordenone non ho nulla a che fare. Anche l’ambiente diventa sempre più difficile. Una volta eravamo tutti più umani. Oggi il contatto umano non esiste più. Una volta vi era quel buon campanilismo fra amici, ci volevamo bene, eravamo tutti uniti, la discussione era libera, franca. La montagna è qualcosa di superiore: è educazione fisica e morale… » (op. cit.).

(1). L’«oggi» di Motti è naturalmente riferito al 1977.
(2). Gian Battista Vinatzer è morto il 3 novembre 1993 all’età di 81 anni.
(3). Questa impressione è riferita agli anni Settanta, ma Carlesso continuerà ad arrampicare fin oltre la soglia degli ottant’anni.
(4). La citazione risale al 1971.

Grandi protagonisti dell’arrampicata libera ultima modifica: 2024-02-29T05:21:00+01:00 da GognaBlog

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15 pensieri su “Grandi protagonisti dell’arrampicata libera”

  1. La misura del livello raggiunto da Alvise Andrich sulla Punta Civetta, credo possa essere data in riferimento alla prima ripetizione di Ruchin e Alfredo Colombo, i quali fecero 2 bivacchi (secondo fonte autorevole). L’ anno prima essi aveva realizzato la salita alla Fracia(Monte Spedone), che poneva tale realizzazione ai vertici dell’ arrampicata mondiale.

  2. Pur non potendo fare un paragone con le altre vie citate, mi fa molto piacere leggere quanto scritto sulla Andrich, prima da Marcello Cominetti e poi da Alfredo Benassi, che saluto entrambi

  3. Come escursionista soltanto ogni tanto alpinista mi sono limitato a raggiungere il colletto citato vicino al laghetto Coldai e ad identificare le varie cime della muraglia del Civetta. adesso so dell’importanza della Punta Civetta nella storia dell’alpinismo. 

  4. Rientrato a Pordenone a fine guerra per dedicarsi poi al commercio di tessuti…ha arrampicato fino a tarda età. Sempre attivo e tenace.

  5. Concordocon Adriano e Pietro dp.
    Questa affermazione di Motti su  Comici:

    Se Comici nel periodo compreso tra il 1930 e il 1940 fu l’alfiere dell’arrampicata artificiale e colui che seppe certamente elevare il limite del possibile in questo settore,

    con tutto il rispetto per Motti ma inquadrare Comici come l’alfiere dell’artificiale, credo sia del tutto sbagliato. Le sue vie sono li a testimoniarlo.

  6. Anche se comunemente considerato vicentino,  vorrei precisare per esattezza che Raffaele Carlesso aveva tutt’altre origini. Infatti era nato a Costa di Rovigo il 15 settembre 1908 e trascorse l’infanzia a Vittorio Veneto; nel 1920 si trasferì a Pordenone con la famiglia. E proprio sulle montagne del Friuli (Prealpi Carniche oggi denominate Dolomiti Friulane) iniziò la sua lunga e brillante “carriera” alpinistica. Solo intorno al 1930 per motivi di lavoro si spostò in provincia di Vicenza (prima a Schio poi a Valdagno) dove entrò a far parte dell’ambiente alpinistico vicentino. 

  7. Andrich e Philipp alla Civetta sono molto simili come difficoltà. Carlesso alla Trieste e Philipp difficili da paragonare.troppo diverse come stile di arrampicata.
    Parere personale si intende.
    Comici era più liberista di quanto viene descritto e Gilberti era un grandissimo esploratore. Tante prime salite di pareti difficili e poco conosciute all’ epoca.

  8. Bello l’articolo, solo stona un pò l’incipit che sembra ridurre Comici come l’alfiere dell’arrampicata artificiale

  9. Alla Trieste ho fatto la Cassin e non la Carlesso quindi non posso fare il confronto.
    Però le vie alla Trieste hanno due cenge che sono due  vie di fuga verso la normale di discesa.

  10. E cosa ne pensate della Carlesso alla Trieste rispetto al Philipp-Flamm, alla Andrich e all’Aste della punta Civetta.
    A me sembra che la combinata Carlesso + variante Hasse sia molto più impegnativa…

  11. La via Andrich  alla Punta Civetta l’ho ripetuta anche io e confermo quanto detto da Cominetti. Mi è sembrata  più impegnativa anche della parallela Aste.
    Forse perchè trovammo i profondi camini terminali belli verglassati.

  12. La via di Andrich sulla punta Civetta è decisamente più impegnativa del diedro Philipp Flamm poco distante. Forse delle classiche è la più impegnativa di tutte. E non sono di certo il solo a dirlo.

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