Groenlandia, arrampicata e kayak
di Matteo Della Bordella
(pubblicato su Lo zaino n. 15, autunno 2021, scaricabile da qui)
Come in un mosaico di tonalità accese, le case del paese di Tasiilaq iniziano a spuntare una dopo l’altra dietro la collina a formare un quadro variopinto di piccole caselle colorate. Robert Peroni ci accoglie nella sua “Red House” con vivo entusiasmo, il suo volto porta i segni del periodo difficile che il Paese sta attraversando a causa della pandemia, ma il suo spirito è curioso e vitale come non mai. Ci racconta che la costa Est della Groenlandia è rimasta isolata per un anno intero e ci sono stati tempi in cui anche i viveri scarseggiavano; ora la situazione è ancora lontana dal raggiungimento di un nuovo equilibrio e la mancanza di turismo sta mettendo in ginocchio lui e tutta la comunità locale.
Quando spieghiamo il nostro progetto, a Robert brillano gli occhi. Quarant’anni ci separano sulla carta d’identità, ma le nostre idee sono le stesse. Parliamo di avventura e non solo di arrampicata, riesco a farmi raccontare alcuni aneddoti delle sue numerose traversate artiche e percepisco il suo grande legame verso questi luoghi.
Al porto di Tasiilaq, impieghiamo mezza giornata a preparare il materiale e caricarlo sui nostri kayak: circa 70 kg a testa tra viveri, materiale da arrampicata e da campeggio, vestiti, ecc… Se per ogni buon alpinista preparare il proprio zaino prima di una salita è un’arte, adesso caricare i nostri kayak con tutto l’occorrente per 25 giorni di spedizione è come preparare uno zaino gigante e richiede una buona dose di pazienza e astuzia. Quando finalmente saliamo nei kayak e iniziamo a pagaiare sull’oceano, provo un forte senso di libertà. Libertà di non dipendere più da forze o agenti esterni e di essere padroni del proprio destino. Libertà di movimento nell’infinito oceano artico. Libertà di fare ciò che ci piace e che sognavamo da tanto tempo: siamo in viaggio verso il Mythics Cirque.
La combinazione virtuosa di tre fattori: buon allenamento, kayak eccezionali e condizioni del mare perfette, ci rende la vita relativamente semplice. Ogni giorno pagaiamo per circa 7 ore, fino a coprire una distanza di 40 km e poi cerchiamo un luogo dove accamparci per la notte. Questi temporanei accampamenti sono spesso dei luoghi idilliaci, dei veri e propri piccoli angoli di paradiso; pur navigando “a vista” troviamo sempre delle radure perfettamente piatte dove montare la nostra tenda, con un piccolo ruscello di fianco e una perfetta vista sull’Oceano. I giorni si susseguono veloci uno dopo l’altro, pagaiando tra giganteschi iceberg e foche incuriosite dal nostro passaggio; finalmente, dopo quattro giornate, percorriamo tutti i 160 km in mare che separano il paese di Tasiilaq dalle pareti del Mythics Cirque e approdiamo sul litorale roccioso antistante questo impressionante anfiteatro di pareti.
Quante probabilità ci siano di incontrare altri essere umani in uno dei luoghi più remoti e sperduti del nostro pianeta proprio non lo so, sta di fatto che ad attenderci troviamo gli amici belgi Sean Villanueva, Nico Favresse, Jean-Louis Wertz e lo svedese Alexsej Jaruta. Il loro quartetto è arrivato quattro giorni fa sotto queste montagne in barca a vela, e neanche se ci fossimo dati appuntamento saremmo riusciti a trovarci con un tale tempismo nello stesso luogo! Ci accolgono completamente nudi, sdraiati sulla scogliera, suonando i loro strumenti musicali per festeggiare il nostro arrivo. Avremmo preferito incontrare delle sirenette, piuttosto che degli aitanti ragazzi nudi! Scherzi a parte, è davvero piacevole incontrare degli amici, delle persone che, oltre ad essere fortissimi alpinisti, vivono la montagna in maniera così goliardica, qui, alla fine del mondo.
Dopo averci riservato questa esotica accoglienza, i belgi si dirigono verso le montagne; sebbene ora si allontanino da noi, le nostre strade presto si incroceranno di nuovo.
Tra le pareti che ci si presentano di fronte non abbiamo dubbi: la Nord della Siren Tower è la più attraente, la più estetica, la più slanciata e compatta. È questa la parete che fa scattare la scintilla magica nelle nostre teste e che vogliamo provare a salire.
Il tempo sembra stabile al bello e perciò con noi portiamo provviste per 6 giorni in parete, 40 litri di acqua e 3 portaledge gonfiabili, per allestire un bivacco appesi in relativa comodità. L’idea è quella di procedere con regolarità e costanza per diversi giorni di fila, senza forzare mai troppo i ritmi e senza avere fretta o stancarsi eccessivamente, godendosi ambiente e scalata. La realtà, come spesso accade, si rivelerà un po’ diversa. Dopo i primi due giorni passati a scalare e recuperare i pesanti sacconi sulla parte iniziale della via, ci siamo messi alle spalle i primi 300 metri di parete. Tutto procede regolare, ma ci vuole poco a capire che questo non è altro che il riscaldamento! Davanti a noi inizia la parte più ripida e verticale della parete, quella dove tutti i nodi verranno presto al pettine.
Il terzo giorno Silvan lamenta un forte male al braccio – senza dubbio dovuto al kayak – che già lo tormentava da diversi giorni e che ora non gli permette di scalare. Symon invece, è motivato e fiducioso; si lancia lui sulla prima parte più difficile. Dopo vari tentativi riesce a superare un esile fessurino lungo 10 metri, protetto interamente da micro-nut dalla dubbia tenuta. Quando arrivo in sosta, mi congratulo per il tiro che ha appena salito, ma vedo il suo volto piuttosto provato e quando guardo anch’io verso l’alto, capisco il perché il mio amico abbia perso tutta la sua baldanza.
Mi carico addosso tutto il materiale e procedo lungo la continuazione della medesima fessura, la quale prima si allarga e mi illude di aver vita facile; quindi, pian piano si restringe per poi chiudersi progressivamente fino a diventare cieca.
Dopo una decina di metri, mi tocca fare ciò che meno mi si addice: procedere in arrampicata artificiale! È chiaro che questo genere di scalata lento e laborioso, non sia il mio; tuttavia, in certe situazioni occorre fare di necessità virtù, armarsi di pazienza e nervi saldi. Dopo 2 ore e mezzo di tentativi, sforzi, spaventi e carpenteria verticale, raggiungo una nuova fessura, dove piazzare due ottimi friend, i quali mi consentiranno di affrontare in libera i successivi 5 metri, fino a un evidente diedro. Quando facciamo ritorno alle portaledge, il calcolo impietoso di circa 4 ore per 25 metri di scalata e la consapevolezza di avere ancora parecchio terreno difficile davanti a noi, non ci lascia molto ottimisti verso il proseguimento della salita. Silvan ci accoglie con la cena già pronta, ma è visibilmente irritato dal male al braccio, che gli impedisce ora anche alcune basilari manovre, come chiudere e impacchettare la roba nei sacchi da recupero. Ci prepariamo alla notte, nella speranza che il riposo rinnovi le nostre energie e sollevi il morale, quando abbiamo un’altra amara sorpresa. Due delle nostre tre portaledge gonfiabili – le quali non sono altro che dei materassini rinforzati da appendere alla parete – si sono bucate ed ora sono inutilizzabili! Siamo completamente appesi in parete e non sappiamo come coricarci per dormire. La situazione si fa sempre più tesa e dopo un’ora passata a cercare improbabili soluzioni per evitare un tremendo bivacco appesi agli imbraghi, questa volta la salvezza arriva dal cielo!
I belgi, che essendo partiti alcuni giorni prima, hanno già raggiunto la cima della Siren Tower, aprendo una via più a destra della nostra, stanno scendendo in corda doppia non troppo lontani da noi. Urliamo loro se ci possono aiutare, lasciandoci una delle loro portaledge. Questi deviano di una cinquantina di metri la loro linea di calata, noi ci avviciniamo a loro con una traversata… e il gioco è fatto! Ora abbiamo una nuova portaledge, dove poter riposare e recuperare le energie.
La mattina del quarto giorno ci svegliamo e sappiamo di avere davanti a noi la parte chiave della parete. Per Silvan sarà un altro giorno di riposo per via del braccio malconcio, io e Symon risaliamo le corde, non scambiamo molte parole, ci guardiamo negli occhi e capisco che tocca a me prendere in mano la situazione. Salgo un tiro, non particolarmente difficile, ma sempre impegnativo dal punto di vista psicologico per la scarsità di protezioni. Arrivato alla sosta penso che ora venga il turno di Symon, ma l’amico francese mi chiede se posso continuare ancora. La parete si fa strapiombante, le fessure leggermente svasate, sempre discontinue e sempre più distanti tra di loro. Parto poco convinto e dopo alcuni metri, con il piede stacco un grosso appoggio che finisce diretto sulla gamba di Symon, il quale urla di dolore. Per fortuna è solo una botta. Ma qui si gioca la salita e noi lo sappiamo bene. Metto da parte la stanchezza, chiudo il rubinetto dei pensieri negativi che mi stanno tormentando e mi concentro solo sulla scalata e sul metro quadrato di granito che ho davanti. Riesco a piazzare degli ottimi friend. Ma non appena concateno alcune sequenze di movimenti verso l’alto, inizio a vederli già troppo distanti, sotto i miei piedi. Mi allungo a piazzare un alien in un buco svasato. Dentro di me so che non terrà mai un volo. Passo un tempo infinito a cercare di sghisare le braccia, scaricando un po’ di peso sull’alien, prima di ripartire. Quando riprendo a scalare sento Symon che mi urla che se quel friend non tenesse la situazione sarebbe veramente critica in caso di caduta. È troppo tardi per farmi influenzare: ormai sono già a metà del movimento che mi porta ad afferrare la fessura. La fessura di dita della salvezza, dove posso piazzare protezioni a prova di bomba e che, come una rotaia, mi guida verso l’alto senza possibilità di errore.
Quando arrivo alla fine di questo tiro, scoppio in un urlo liberatorio, sono drenato di ogni energia, ma guardando verso l’altro, mi è subito chiaro che la strada verso la cima, seppur lunga, è ora priva di grandi ostacoli. Io e Symon facciamo ritorno alle portaledge, dove Silvan è galvanizzato dal nostro successo. Il suo braccio ora va meglio e pensa che il giorno successivo potrà anche lui scalare.
Al quinto giorno in parete mi sveglio stanchissimo e so già che oggi mi metterò in modalità “risparmio energetico” e non farò altro che seguire i miei compagni fino alla cima. Risaliamo tutte le corde che avevamo fissato. Symon e poi Silvan si alternano al comando della cordata per più di 300 metri fino alla vetta della Siren Tower, che raggiungiamo nel pomeriggio del quinto giorno in parete. Di fronte a noi si apre un panorama incredibile, la vista a 360 gradi appaga i nostri animi e lascia spazio all’immaginazione. A stupirci di più questa volta non sono gli iceberg o la vastità dell’oceano dal quale siamo arrivati, bensì la visuale privilegiata sull’immensa calotta glaciale della Groenlandia e su tutte le vette che stanno tra di noi e quest’ultima.
Provo un senso di pace e armonia che mi fa sentire in sintonia con questa terra. Per un attimo, il mio animo irrequieto e mai sazio, trova finalmente appagamento sulla cima di questa montagna: vivo nel presente. Tutto il nostro viaggio mi sembra così spontaneo, naturale e semplice. Penso che solo la libertà da eccessi tecnologici ci potrà ancora permettere di vivere avventure più autentiche, più a misura d’uomo, di vivere la natura con rispetto, ad armi pari.
Non è facile abbandonare questo cucuzzolo, per rituffarsi a corde doppie nell’abisso tetro della parete nord, e fare ritorno alle nostre portaledge. A maggior ragione perché sappiamo già che la salita non è ancora conclusa: vorremmo salire in libera tutti i tiri della via, anche quelli che in apertura abbiamo salito in artificiale. Dopo un’altra notte in parete, per il sesto giorno di fila ci svegliamo nelle nostre portaledge e ripetiamo i preparativi di tutti i giorni. Per me salire in libera il tiro chiave della via, dopo tutta la fatica fatta per aprirlo, sarebbe la ciliegina sulla torta di una grandissima scalata. Quando parto per il tiro, scopro con piacere che, con le prese già smagnesate e visibili, i friend pre-posizionati e nessun peso extra all’imbrago, la scalata è entusiasmante e meno difficile di quanto ricordassi. Come sempre, apertura e ripetizione di una via (o anche solo di un monotiro) si rivelano due mondi totalmente distinti e due esperienze personali radicalmente diverse. Al secondo tentativo concateno in libera questo bellissimo tiro, i cui incastri di dita sfuggenti sul finale e la sua totale esposizione mi fanno ricordare alcune lunghezze già scalate sul Capitan, a Yosemite. Successivamente Silvan e Symon trovano il modo di aggirare l’altro tiro che avevo aperto in arrampicata artificiale, con una traversata in placca verso destra, dai movimenti precari e gli appoggi millimetrici. Ora che abbiamo salito in libera tutta la nostra via, non ci resta che tornare al campo base e fare baldoria con il team belga per festeggiare!
Prima di intraprendere il lungo viaggio di rientro, dedichiamo qualche giorno all’esplorazione dei fiordi limitrofi in cerca di altre interessanti pareti. Rimettersi seduti nei nostri kayak è una sensazione piacevole dopo le giornate passate appesi in parete e ci permette di spaziare ed esplorare ogni piccolo angolo di questa terra remota.
Quando raggiungiamo la fine del fiordo, controlliamo la nostra posizione sulla mappa e scopriamo che, secondo la nostra cartina, risalente a vent’anni fa, dovremmo trovarci nel bel mezzo di un ghiacciaio e il fiordo sarebbe dovuto terminare 5 chilometri prima. Invece, la realtà vuole che questo ghiacciaio, sulla cartina enorme, non esista più, ed ora al suo posto non ci sia altro che il mare e una parete di roccia qualche centinaio di metri sopra le nostre teste. Questa triste scoperta non fa che riportare a galla un problema noto a tutti, cioè quello dello scioglimento dei ghiacciai, che qui in Groenlandia si fa sentire in maniera potente.
L’indomani scaliamo la parete, seguendo una delle tante linee di fessure perfette che questa offre. È un’esperienza radicalmente diversa dall’apertura della via sulla Siren Tower, qui la scalata è ben al di sotto del nostro limite tecnico, possiamo proteggerci dove vogliamo, siamo baciati dal sole tutto il giorno. Questa via è puro godimento e piacere di arrampicare, di muoversi veloci in verticale seguendo le linee disegnate dalla roccia.
Terminata la scalata, arriva davvero il momento di rientrare a Tasiilaq con i kayak. Il viaggio di ritorno ci impegna maggiormente rispetto all’andata, pervia delle condizioni del mare un po’ più impegnative, impieghiamo cinque giornate per fare ritorno al paese di Tasiilaq e mettere la parola “fine” alla nostra spedizione.
Una spedizione che, nella sua semplicità e naturalezza, è stata per me un’avventura perfetta. Un viaggio lungo una delle “vie meno battute”, che da sempre sogno di percorrere.
9