Oggi è il quarantunesimo anniversario della morte di Guido Rossa. Riportiamo il bellissimo ricordo che ne fece Andrea Corradi il 15 maggio 2011 su Climbingpills. Alla fine, altri tre interventi, di Pier Luigi Baglioni (http://utenti.multimania.it/italianiallestero_2/id46.htm), di Ferruccio Jöchler e di Salvatore Gargioni, anch’essi apparsi sullo stesso post.
Guido Rossa
di Andrea Corradi
(pubblicato su climbingpills il 15 maggio 2011)
“Incontrerò una sera d’inverno Guido il quale fissandomi con quei suoi occhi che ti scavano dentro e ti bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo. Mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi, ma anche agli altri uomini. Andare in montagna perchè no, ma per divertirsi, per cercare l’avventura e per stare in allegria insieme agli amici. Io lo so e l’ho sempre saputo, ma dovevo sentirmelo dire da un uomo che mi ha sempre affascinato per la sua intelligenza e sensibilità artistica che scopri nel suo sguardo (da I falliti, Gian Piero Motti)”.
La prima volta che ho sentito parlare di Guido Rossa è stato qui:
Era il 1999, seconda uscita del Corso Roccia. Lo scudo giallastro delle Placche Gialle di Rocca Sbarua colpì la mia immaginazione di neofita; un istruttore – lo stesso che successivamente sentii ancora parlare in maniera accorata di Guido Rossa – mi fece notare la sottile ed estetica fessura che incide la parete e la cui prima salita porta il nome di Rossa.
Figura mitizzata e simbolica anche se poco conosciuta, Guido Rossa mi colpisce prima di tutto per la parabola umana che ha compiuto.
Nasce in provincia di Belluno nel 1934 ma ancora prima di compiere due anni si trasferisce a Torino, dove il padre – debilitato dalla vita in miniera – si trasferisce in cerca di un nuovo impiego.
Lo descrivono come un ragazzo sensibile ma deciso, dal carattere forte; amante delle grandi imprese, della sfida e del rischio, affascinato dai gesti forti e da idee autoritarie (tanto è vero che anche ben più tardi uno dei suoi compagni di scalata racconta di dissertazioni sul superuomo Nietzschano e sulla Fontana di giovinezza di Eugen Guido Lammer, così come di un atteggiamento determinato e piuttosto imperioso dettato dal suo carattere molto deciso e portato all’azione).
A 14 anni entra in fabbrica in officina meccanica; l’abilità manuale e l’ingegno sviluppato in questo campo gli torneranno utili anche in montagna, dove sperimenterà artigianalmente tecniche ed attrezzature per l’epoca innovative.
Nel frattempo la passione per la montagna accende il suo temperamente audace; nell’ambiente austero e conservatore torinese, ulteriormente appesantito dopo la morte di Giusto Gervasutti nel 1946, è una scheggia impazzita che si muove con autonomia ed irriverenza.
Chiedendo consigli sulla Parete dei Militi (l’unica facilmente accessibile in treno da Torino), gli dissero: “per la Militi, giovane come sei, devi prima fare questo, e poi questo, e poi questo ancora…”. La domenica dopo ripeteva la Gervasutti di destra.
I racconti di questo periodo sono pieni di episodi goliardici, scanzonati o provocatori: si narra di corde legate in sosta e orinate all’indirizzo del compagno durante una spedizione in Lavaredo, di una via Gervasutti a Rocca Sbarua ripetuta slegato in giacca cravatta e scarpe di para sotto gli sguardi attoniti degli altri alpinisti.
Viaggia su una moto tenuta insieme con il fil di ferro, si atteggia a pirata con abbigliamenti stravaganti, cavalca mucche e crocefissi, arrampica con un cane a rimorchio. Frequenta con merito il corso da istruttore nazionale di alpinismo per poi dichiarare di fronte a Cassin e alla commissione esaminante, nel colloquio finale: “a me delle Scuole non frega niente”.
Enrico Camanni lo definisce un caposcuola fra Gervasutti ed il Nuovo Mattino. Trovo che sia una definizione azzeccata, perché Guido Rossa arrampica in scarponi, in un periodo ancora del tutto classico, ma ha due qualità che precorrono i tempi e saranno cardine dell’epoca successiva: un atteggiamento rivoluzionario, disinibito e dissacratorio nei confronti delle retoriche e delle dinamiche consolidate nel CAI ed un interesse unito all’abilità nell’esplorare nuovi mezzi tecnici e tecnologici di assicurazione e progressione.
Questa seconda inclinazione è favorita dal suo lavoro; si sa che fece i primi buchi in Rocca Sbarua usando dei rudimentali chiodi ad espansione, fabbricò rudimentali cliffhanger e maniglie jumar, e sperimentò dei blocchetti in plastica ben prima che dal mondo anglosassone filtrassero le prime notizie sull’uso dei nut.
Nel frattempo Guido Rossa si è sposato con la genovese Silvia Camarra, ha avuto il figlio Fabio e nel 1961 si è trasferito a Genova. A quel tempo è un alpinista piuttosto famoso, come testimonia il racconto (vedi articolo scannerizzato in fondo al post) dell’amico Euro Montagna, a cui era stato tassativamente ordinato di andarlo a prendere al suo arrivo a Genova per introdurlo nell’ambiente alpinistico locale.
In questo contesto nasce una cordata particolare con Renato Avanzini: un sindacalista duro (Rossa) e un imprenditore (Avanzini). Due amici, una passione. Al settore Nord di Rocca di Perti, ormai un po’ nascosta fra le sportive, rimane una via aperta da questa cordata così peculiare: la Avanzini-Rossa, appunto.
Nel dicembre del 1961 una tragedia familiare scuote Guido Rossa nel profondo: il figlio Fabio muore per una fuga di gas.
Nel 1963 un’altra esperienza dolorosa: partecipa ad una spedizione Himalayana e viene colpito dalle condizioni di indigenza in cui versano le popolazioni locali e dalla morte dei compagni Giorgio Rossi e Cesare Volante. A proposito di questa esperienza, ecco le sue parole ad una delle serate in cui si proiettavano in pubblico le diapositive della spedizione:
“Prima di iniziare la proiezione delle diapositive della nostra sfortunata spedizione, vorrei rispondere brevemente a una domanda rivoltami al mio ritorno da molti amici e cioè quale sia l’impressione più grande che si può ricavare da una spedizione sulle montagne più alte della Terra. Ebbene, dimenticando per un attimo la tragedia che ci ha colpito, la mia impressione personale non è stata come voi potreste pensare di stupore ed ammirazione per l’enorme estensione delle vette glaciali, per le pareti di 3000 metri; anzi come tutte le cose a lungo sognate, l’aspetto alpinistico è stato di leggera delusione.
La cosa invece che mi ha fatto più impressione è stata purtroppo la grande fame dell’Asia. L’aspetto umano di questa grande tragedia, tutte quelle migliaia di esseri umani, di bambini che nascono e muoiono di fame sui marciapiedi delle grandi città indiane, quella miseria che non abbiamo neanche avuto il coraggio di documentare, ma che in tutti noi ha suscitato il grande desiderio di fare qualcosa per alleviarla. Di conseguenza vogliate scusarmi, questa sera, se la parte alpinistica è stata un poco sacrificata in favore di questo aspetto. Le spedizioni devono essere fatte più che per soddisfare le nostre aspirazioni di conquista e vanità, per vaccinare tutti i bambini di quelle terre senza difesa.“
Fra i due episodi tragici del 1961 e del 1963, uno lieto: nel 1962 la nascita della figlia Sabina, amatissima, a cui Guido Rossa dedicherà la maggior parte dei fine settimana.
Queste esperienze, unitamente alla vita in fabbrica ed ai profondi cambiamenti politici, sociali e culturali degli anni ’60, lo portarono ad un nuovo atteggiamento nei confronti della montagna e della vita, atteggiamento che trova espressione completa e compiuta nelle trenta pagine manoscritte che spedisce all’amico Ottavio Bastrenta nel 1970:
“L’indifferenza, il qualunquismo e l’ambizione che dominano nell’ambiente alpinistico in genere ma soprattutto in quello genovese sono tra le cose che mi lasciano scendere senza rimpianti la famosa lizza (lo scivolo su cui viene calato il marmo nelle Apuane, ndr) della mia stagione alpinistica.
Da ormai parecchi anni mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicini l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, un interesse che si contrapponga a quello quasi inutile (e non nascondiamocelo, forse, anche a noi stessi) dell’andar sui sassi. Che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato premio) un paradiso di vette pulite perfette e scintillanti di netta concezione tolemaica, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi ed ingiustizie, di un mondo dove un abitante su tre vive in uno stato di fame cronica, due su tre sono sottoalimentati e dove su sessanta milioni di morti all’anno, quaranta milioni muoiono di fame!
Per questo penso, anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro […]. Ma probabilmente queste prediche le rivolgo soprattutto a me stesso, perché, anche se fin dall’età della ragione l’amore per la giustizia sociale e per i diritti dell’uomo sono stati in me il motivo dominante, sino ad ora ho speso pochissime delle mie forze per attuare qualcosa di buono in questo senso […].
Da poco mi hanno eletto con regolari votazioni “delegato di reparto” come previsto dall’ultimo contratto (uno ogni trecento dipendenti). Inizia qui e probabilmente finisce la mia carriera di sindacalista. Avrei voluto rimanerne fuori ma mi hanno messo alle strette, dicono che parlarne solo non basta! E fin dal primo giorno sono partito all’attacco, tanto per tre o quattro anni non potranno buttarmi fuori.“
Una visione diametralmente opposta a quella di Gervasutti, il personaggio di riferimento per l’ambiente al tempo dei suoi esordi; una sorta di rivoluzione copernicana, per riprendere una metafora usata nello scritto. Ma queste parole sono assolutamente attuali, marcando una sostanziale scissione rispetto alla concezione della maggior parte degli alpinisti ed arrampicatori di ogni epoca, per cui l’andar per rocce è stato ed è – con oggetti e modi diversi – soprattutto evasione.
Quando Guido Rossa afferma l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza si riferisce in primis all’impegno sociale e politico; ma allo stesso tempo lo vedo – in fotografia – con la figlia piccola in braccio; e con l’immaginazione lo penso mentre si aggira con la macchina fotografica per le vie di Genova o per i borghi dell’entroterra ligure, oppure immerso nella lettura (viene folgorato ad esempio da Marcuse), o ancora mentre dipinge, scolpisce nel legno il volto di Cristo o realizza crocefissi in metallo – nonostante non si professasse credente.
Non smette di andare in montagna; compie ancora belle ascensioni, ma in modo molto più sporadico. Fa parte del Soccorso Alpino: “Siamo andati a recuperarli con fatica, ma con ogni sforzo. Allora cominciai a capire una delle componenti vere di chi va in montagna: il senso dell’amicizia, come espressione massima di solidarietà umana.“
Del suo impegno con la Cgil, l’amico Ottavio Bastrenta scrive: “Guido operaio, Guido alpinista, conquista la sua credibilità con l’azione, ove emergono le sue caratteristiche e doti migliori, e ove più appare solido, lucido, coerente. I suoi compagni di lavoro e di lotta sindacale e politica, come i suoi compagni di cordata, hanno sin dall’inizio piena fiducia in lui, una fiducia che lui non deluderà mai“.
Un altro amico e compagno di ascensioni, Piero Villaggio, dice di lui: “La spavalderia di Guido era diventata nobiltà. Sempre ironico con sé stesso e gli altri, era troppo intelligente per fare il furbo“.
L’Italsider di Genova in cui lavorava Guido Rossa era – in quegli anni – il primo polo siderurgico italiano, ed ovviamente i conflitti sociali e politici erano lì particolarmente intensi e vissuti. Non voglio né soprattutto posso fare una disamina della situazione politica dell’epoca, ma dopo il sessantotto si era nel pieno degli “anni di piombo”, un periodo di fortissima contestazione, di tensioni, di scontri nelle piazze e nelle strade, spesso anche armati, di terrorismo, sequestri di persona, stragi.
Le Brigate Rosse avevano deciso di sfruttare il periodo di crisi industriale attraversata da Genova e dall’Italsider per infiltrarsi in fabbrica e fare proseliti; d’altra parte il partito comunista si opponeva alle strategie armate dei brigatisti ed il consiglio di fabbrica aveva disposto che il materiale di propaganda terrorista dovesse essere consegnato alla vigilanza interna. E’ il 1978 e Guido Rossa, collegando una serie di elementi oggettivi, individua in Francesco Berardi colui che diffonde il materiale propagandistico delle BR in Italsider, lo segnala e testimonia in tribunale contro di lui.
Dopo questi avvenimenti riceve ripetute minacce anonime, ma pur rimanendo turbato va avanti per la sua strada senza prendere troppe precauzioni. Il 24 Gennaio 1979, alle sei e trenta del mattino, un commando armato lo attende sotto casa e gli spara; secondo la tesi di uno dei terroristi, Vincenzo Guagliardo, Guido Rossa dovrebbe essere soltanto ferito, ma Riccardo Dura spara per uccidere.
L’assassinio di Guido Rossa è un suicidio per le BR: è la prima volta che colpiscono un sindacalista organico alla sinistra italiana. L’omicidio sarà seguito da una forte reazione da parte di partiti e sindacati e della società civile, in particolare quella legata al partito comunista. Questo omicidio segna una svolta nella storia delle Brigate Rosse, che da quel momento non riusciranno più a trovare le stesse aperture nei confronti dell’organizzazione interna del proletariato di fabbrica.
Significativi alcuni commenti letti in proposito su un forum di montagna, da parte di persona che hanno vissuto quel periodo:
“Ero un giovane studente, ma ricordo gli sguardi attoniti… le Brigate Rosse hanno ucciso un operaio! Fino allora non si era ben capito chi fossero, veramente“;
“Quando successe pensai incazzato: come possono uccidere un comunista (delegato cgil, iscritto PCI), ‘ste teste di cazzo! Io non ero tenero con il PCI, ma colpire una persona che rispecchiava i valori ed i principi in cui mi credevano i miei famigliari, mi portò a pensare che sotto ci doveva essere qualcos’altro“.
Scrive Enrico Fenzi, l’ispiratore delle BR genovesi dissociatosi nel 1982: “Qualcosa aveva finito di spezzarsi, senza rimedio: era finito, per quegli operai, un segno vago e tenace. La confusa, mitica speranza che le Brigate Rosse avevano alimentato, soffiando sulla vecchia brace dell’idea rivoluzionaria, si era spenta. E gli operai, in quella piazza, quella mattina, piangevano la morte di uno di loro, una parte viva del loro essere, e insieme piangevano in quella morte la fine di un equivoco al quale si erano tenuti stretti per tanto tempo“.
Mi affascina la parabola umana di Guido Rossa, ho scritto all’inizio.
Visto da lontano, nel riverbero della sua fine e dei racconti sui suoi anni di militanza comunista e sindacale, egli appare come il classico uomo “tutto d’un pezzo”. Andando un po’ ad approfondire, invece, a me sembra di vedere una personalità decisamente più complessa. Dopo avere letto un po’ di lui, quella pur luminosa ed ammirevole sagoma di cartone che gli sta appiccicata addosso prende volume, si anima; da personaggio Guido Rossa diventa persona.
L’immagine di un uomo così deciso e saldamente ancorato ai propri principi da morire per essi scaturisce da una storia, da un’evoluzione interiore che dà l’impressione di far convergere spinte anche contraddittorie. Guido Rossa non è nato eroe; è nato più scavezzacollo esaltato, forse, ma sul filo conduttore di un carattere forte e deciso gli avvenimenti della propria vita l’hanno portato su una strada che ha scelto di prendere e di seguire.
Ecco, Guido Rossa mi piace soprattutto per questo: la vita prima o poi parla, a tutti. La nostra personalità è quella che è, ce la portiamo dietro sempre e comunque, ma credo che la vita piano piano ci porti a spasso su sentieri che non controlliamo mai del tutto e spesso facciamo fatica a comprendere. Ma ad un certo punto (la chiamano maturità?) cominciamo a vedere in che acque stiamo navigando. Spesso non ci aspettavamo di trovarci lì, siamo colti quasi di sorpresa. E qui dobbiamo scegliere: se seguire questa corrente, questa corrente che ci ha portato dove siamo quasi inconsapevoli ma che riconosciamo profondamente nostra, oppure tornare indietro, per paura.
Guido Rossa non è tornato indietro.
Questa è una interessante testimonianza, diretta e un po’ fuori dal coro, di un compagno di fabbrica di Guido e Rossa e Francesco Berardi, tratta dal sito http://utenti.multimania.it/italianiallestero_2/id46.htm:
Testimonianza
di Pier Luigi Baglioni
La vicenda coinvolse due miei amici, Guido Rossa e Franco Berardi, morti entrambi tragicamente, il primo assassinato dalle BR e l’altro suicida impiccandosi in carcere. La vissi da testimone, con grande partecipazione. Rossa lavorava nel mio medesimo reparto, l’officina di manutenzione di cui eravamo entrambi delegati nel Consiglio di Fabbrica, lui in rappresentanza degli operai, io dei ‘colletti bianchi’. Con Berardi invece era nata una simpatia ai tempi dell’autunno caldo del ’69 quando affittammo le pecore da un pastore sardo sulle alture genovesi di Crevari, e portammo il gregge depositandolo al pascolo davanti alla direzione generale dell’Italsider, metafora simbolica per gli impiegati della sede che non partecipavano agli scioperi. Berardi qualche anno dopo fece un viaggio turistico in Turchia con la famiglia. Viaggiando sull’Orient Espress avevano corso una brutta avventura restando per ore in balia di una banda di rapinatori e stupratori.
Ho detto amici ma il sostantivo non è esatto. Non avevano comuni rapporti personali privati ma quelli tra compagni di lavoro e di sindacato. Amavamo conversare di politica, pur senza coincidenze di pensiero (io, del PSI sostenevo Craxi; loro, lo detestavano). Benché iscritti entrambi al PCI, avevano posizioni diverse: berlingueriano Rossa, estremista filo-cinese Berardi. In altre parole Rossa era favorevole al ‘compromesso storico’ con la DC, Berardi decisamente contrario. Lo considerava una integrazione del partito nel ‘sistema capitalistico’ e ci metteva entrambi sullo stesso piano ‘revisionista’, che per lui voleva dire ancora tradimento della ortodossia marxista-leninista a cui egli restava fedele. Sosteneva che il mitra e non le chiacchiere facevano la rivoluzione. In fabbrica diceva tanto apertamente queste cose che le ritenevano una specie di folklore parolaio estremista innocuo, quindi tollerato. Credo che fosse proprio così fino ad un certo momento. Ma qualcuno (mai scoperto) che militava clandestinamente ascoltando quelle convinzioni teoriche che lo portavano a giustificare le azioni terroristiche delle BR che stavano seminando sangue nel paese, lo invischiò nel fiancheggiamento. E Berardi ci cadde senza rendersi neppure conto del passo che aveva compiuto.
Rossa, ligio alla linea, descriveva le BR (non so quanto intimamente) come fascisti camuffati con lo slogan (apparso anche scritto a caratteri cubitali con la calce sui muri dell’Ansaldo in via Pacinotti): ‘Brigate Rosse eguale Brigate Nere’.
Verso la fine del 1978, un mattino, passai dal consiglio di fabbrica per informarmi delle ultime novità sindacali. Noi delegati dei reparti ci intrattenevamo con gli ‘esentati’ (i distaccati a tempo pieno, tre per organizzazione) per scambiarci commenti ed informazioni. Quel mattino, proprio mentre stavamo lì, sopraggiunse un uomo trafelato ed eccitato che disse agli astanti mostrando un volantino: “Ho visto uno che gira la fabbrica in bicicletta seminando questi volantini delle Brigate Rosse”. Uno dei segretari gli prese la copia del ciclostilato che teneva in mano.
Il dattiloscritto, intestato con la stella sghemba a cinque punte inserita nel cerchio e la sigla laterale B e R, era una prolissa pappardella di due pagine incitante gli operai ad “attaccare il disegno controrivoluzionario del capitalismo nazionale nel suo cuore: la fabbrica”. E “sviluppare la lotta armata nel cuore della produzione costruendo a partire dalla fabbrica il partito comunista combattente e gli organismi rivoluzionari di massa”.
“Bisogna prenderlo!” disse secco e per dargli la caccia formò delle piccole squadre che si diressero in varie direzioni. Chi verso i laminatoi, il parco rottami; la cokeria e l’altoforno… Non mi unii a nessun gruppo, affatto entusiasmato da quello zelo.
Il propagatore venne presto sorpreso e ‘catturato’: nel petto, sotto la camicia, aveva ancora la parte residua dei volantini. Era proprio Franco Berardi, l’estremista noto che stava in prima linea nei cortei sindacali. Colui che teorizzava da epigono comunista prima maniera la rivoluzione, ma essendo padre di famiglia (due figli) nessuno credeva si sarebbe mai compromesso col terrorismo. D’altronde estremismi anarcoidi impenitenti erano frequenti nel movimento operaio, assai vulnerabile alla demagogia.
Lo portarono come un prigioniero nel CdF. Egli non era affatto spaventato, non cogliendo perfettamente la situazione in cui si era cacciato. Si sentiva personaggio del caravanserraglio ‘fabbrica’ inviso ai piccoli ‘apparatnicki’ intolleranti al dissenso ma amato dagli operai perché era pur sempre una frangia della ‘classe operaia’ (e diceva cose che molti operai pensavano).
Per me, e lo dissi subito, non dovevamo drammatizzare l’episodio. Vidi in lui il classico ‘compagno che sbaglia ‘: “Ha fatto una baggianata, diamogli una lavata di testa, un solenne ammonimento, e finiamola lì”.
Invece, interpretando pedissequamente le direttive di ‘fermezza’ del partito, i delegati comunisti, Rossa in testa, chiesero di seguire una rigorosa procedura di denuncia, dimostrando platealmente all’opinione pubblica che la ‘classe operaia’ era senza compromessi contro l’eversione e la lotta armata. E Berardi divenne la vittima sacrificale di tale assunto politico innescando una scia di sangue che alla fine coinvolse sei vite. La sua, di Rossa e dei quattro suoi assassini della colonna Walter Alasia.
Convocato immediatamente il consiglio di fabbrica doveva prendere sulla questione una posizione ‘unitaria’ ufficiale. Ma questo non fu possibile. Nella animata discussione erano contrapposti i delegati comunisti che volevano l’immediata denuncia ai carabinieri e tutti gli altri (socialisti Fiom, cislini e uillini) che erano per spegnere l’episodio. Arrighi il delegato Cisl aveva le mie medesime posizioni: “Franco lo conosciamo, è un esaltato, messo in mezzo da qualcuno più furbo di lui. Va recuperato non rovinato”. La discussione si accanì senza possibilità di conciliazione. Purtroppo il segretario comunista della sezione di fabbrica, Occhi, politicamente più avvertito e moderato, era in ferie (quando tornò mi disse che, con lui presente, le cose avrebbero avuto un’altra piega). Mancando il suo apporto prevalse la rigida linea dei delegati comunisti compatti dietro Rossa. Alla fine non venne assunta nessuna decisione perché nessuno dei due gruppi accettò la linea dell’altro e neppure giunsero ad un compromesso.
Ebbi con Rossa un estremo tentativo di persuasione consigliandolo a quattro occhi: “Non essere così intransigente, pensa alle possibili conseguenze della tua linea. Considera e privilegia il rapporto di amicizia”. Mi rispose secco: “La posta in gioco è troppo importante.” Insistei: “Ma possiamo denunciarlo in caso si renda recidivo. I volantini delle BR non comportano alcun pericolo di proselitismo tra gli operai, sono una accozzaglia allucinante di cazzate, quale presa vuoi abbiano nella fabbrica?” Si indispose: “O non capisci o fai finta di non capire” gridò infuriato “Non è una marachella da perdonare o no. E’ un atto politico che va rintuzzato. Chiaro?” A questo punto tutti lasciammo che le cose seguissero il loro corso e ognuno si assumesse le proprie responsabilità conseguenti alla scelta fatte. La parte contraria alla denuncia si disinteressò del procedere successivo degli avvenimenti, mentre Guido Rossa ed i suoi compagni andarono dal capo della vigilanza interna a informarlo della loro volontà. Questi fece come Ponzio Pilato. Avvertito della delicatezza dichiarò che per lui la pratica era irricevibile: “Dovete andare al comando dei CC, non da me”. Cosa che fecero seduta stante.
Al comando dei carabinieri, finita la battitura del verbale, l’ufficiale, porgendo il documento chiese ai presenti di firmare in calce. Gli operai non aspettavano la richiesta; credevano bastasse la formalità dell’esposto, non di sottoscriverlo personalmente. Il Tenente spiegò che non era possibile: “Occorrono le firme dei dichiaranti; la dicitura ‘un gruppo di delegati del CdF italsider’ non ha personalità giuridica”. Allora scattarono i ripensamenti, tutti tirarono il culino indietro chiedendo a Rossa di soprassedere alla denuncia. Comportamento che a Guido parve di viltà. E generosamente, impulsivamente, appose da solo la firma al documento. Quale solitario, unico nome e cognome apposto alla denuncia, firmò così la sua condanna a morte.
Noi, quando si seppe, fummo coscienti immediatamente di quel pericolo. Egli se ne rese conto nelle settimane successive. Ma non lo volle mai ammettere. Con lui ebbi una concitata discussione alla mensa aziendale sotto gli occhi delle maestranze. Credendo di fargli del bene gli dissi che “… mi stupisco tu resti in vista come nulla fosse, che tu continui questa assurda normalità: ma ti rendi conto che ormai sei un obiettivo? Possibile che neppure il tuo partito lo avverta e ti protegga mandandoti in qualche posto meno agibile?” Egli prese male le mie parole. Le colse come una intimidazione, quasi fosse anche io un portavoce dei suoi nemici. Certo il senso di una sconfessione al suo operato c’era, ma esso era dovuto alla sua tutela non di certo per ‘avviso di morte’ come lì per lì lo interpretò facendolo molto arrabbiare.
Dopo quella sfuriata non ci salutammo né parlammo più. Quando ci incontravamo però, muti ci guardavamo diritto negli occhi. Da essi notai il cambiamento: agli inizi erano fieri. Alteri come il portamento intrepido di alpinista lo aveva abituato a guardare le cime delle montagne da conquistare, minimamente spaventato dalle reiterate minacce che avevano cominciato ad assillarlo. Poi di giorno in giorno il suo sguardo si addolcì ed in esso coglievo una luce di rammarico affettuoso nei miei confronti. Orgogliosamente continuò a non rivolgermi la parola, ma lo sguardo mi parlava chiaro che si sentiva solo e abbandonato.
Passarono mesi terribili per ambedue perché anche io vivevo assai male in fabbrica. Con la mia sincerità, la discussione in mensa era ‘passata’ come un atto di fiancheggiamento alle BR, ero divenuto reietto. Il linciaggio orale a cui venni sottoposto mi proiettò addosso il biasimo degli operai costringendomi a non frequentare più neppure il CdF. Dovevo, come l’ipocrisia generale della fabbrica, encomiare il gesto ‘esemplare’ punto e basta. In quel periodo ebbi persino il dubbio di essere controllato dalla polizia su segnalazione degli stessi compagni. Avevo raccontato per filo e per segno la cosa nella radio libera Monte Gazzo di Sestri Ponente ed avuto sul tema un dibattito in diretta con Paolo Perugino in cui, secondo me, la posizione comunista era uscita piuttosto male. Intanto Rossa riceveva nella cassetta delle lettere foglietti con epiteti di ‘delatore’ ‘infame’. E telefonate che gli annunciavano imminente la punizione.
Il mattino della grigia alba dell’24 gennaio 1979 l’imboscata. Guido uscì da casa per recarsi sul lavoro. Dovendo timbrare il cartellino alle sette, partì tre quarti d’ora in anticipo per essere in portineria, cambiarsi gli abiti nello spogliatoio, dare uno sguardo ai titoli de L’Unità, prima di iniziare il lavoro come ogni mattino. Aprì la portiera della vettura, sedette al volante e avviò inutilmente il motore. Il ‘commando’ BR apparve bruscamente ai vetri. Quello che successe non ha testimoni vivi per essere raccontato. Probabilmente prima degli spari volarono reciproche offese. Si dice che le intenzioni erano di ‘gambizzarlo’ e basta. Forse proprio per agevolare questa eventualità Rossa le distese sulle poltroncine anteriori (la posizione post morten nella vettura lo vede con la testa reclinata sul volante ed il corpo disteso, non in posizione di guida). Ma Dura impietosamente lo fulminò scomparendo insieme agli altri. Eclissandosi facilmente avendo il ‘covo’ vicino nello stesso quartiere.
Quel mattino arrivando in officina notai capannelli di operai fermi in mezzo al reparto. Avevano incrociato le braccia, sciopero spontaneo, di protesta, commossi e rabbiosi.
Immediatamente intuii il grave accadimento. Ma per togliermi ogni dubbio me lo confermò un tanghero di nome Vagge che in malo modo, col dito puntato sotto il naso e la bava alla bocca, mi gridò: “Sei contento? L’hanno ammazzato! Cacciati in ufficio, non ti far vedere in giro!” come del crimine io ne avessi una qualche colpa! Davanti all’energumeno fuori di testa non alitai verbo per non incorrere nelle sue fanatiche intemperanze. Ma in cuore mio pensai: “Il partito della fermezza operaia voleva il martire, l’ha avuto!”
Nei giorni successivi i delegati che si erano recati al Comando dei Carabinieri senza poi firmare l’atto di denuncia sparirono dalla circolazione. Chi raggiunse parenti lontani, chi andò a lavorare in una cooperative emiliana; uno di loro (Gabbi) fu ospitato in casa per sei mesi dal segretario aggiunto del CGIL Ottaviano del Turco. Il comandante della vigilanza, avendo scansato la responsabilità di affrontare personalmente il problema, cadde in disgrazia e divenne il capro espiatorio di quell’evento.
Poi morirono gli altri protagonisti della vicenda. Franco Berardi si impiccò in carcere. La colonna di Dura, intercettata dentro l’appartamento dalla Digos, venne sterminata nel covo durante l’irruzione.
Pier Luigi Baglioni
Genova, 20 gennaio 1981
Per capire la situazione ed approfondire è interessante guardare alcuni documentari dell’epoca:
e quelli che
si trovano sul sito “RAI: la storia siamo noi”:
http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=119
oppure leggere qualcosa, ad esempio:
Guido Rossa, mio padre
Giovanni Fasanella e Sabina Rossa, Bur
I silenzi degli innocenti
Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, Bur
Colpirne uno educarne cento – La storia di Guido Rossa
Giancarlo Feliziani, Limina, 2004
Il testimone. Guido Rossa, omicidio di un sindacalista
Paolo Andruccioli, Ediesse, 2009
Il brigatista e l’operaio. L’omicidio di Guido Rossa. Storia di vittime e colpevoli
Giovanni Bianconi, Einaudi Stile libero, 2011.
Nel 2006 è stato anche realizzato un film sulla storia di Guido Rossa: Guido che sfidò le Brigate rosse, di Giovanni Ferrara. Inspiegabilmente (mica tanto), pur realizzato da RAI Cinema, non ha trovato distribuzione né una messa in onda sulla tv di Stato.
Di seguito riportiamo integralmente il bell’articolo pubblicato sull’annuario 2004 del CAI Bolzaneto (http://www.caibolzaneto.net/articoli/annuario/2004/guidorossa.php), in cui due amici e compagni di corda di Guido Rossa lo ricordano:
Fonti principali
forum planetmountain
forum quotazero
CAI Bolzaneto, annuario 2004
lastoriasiamonoi.rai.it
questotrentino.it
instoria.it
rifondazione.cinecitta (il link http://www.rifondazione-cinecitta.org/guidorossa.html non funziona attualmente)
forum fuorivia (il link http://www.fuorivia.com/forum/viewtopic.php?f=3&t=1818 non funziona attualmente)
Pier Luigi Baglioni (il link http://utenti.multimania.it/italianiallestero_2/id46.htm non funziona attualmente)
Nuovi Mattini (il singolare sessantotto degli alpinisti) – di Enrico Camanni, Vivalda, I licheni
Paolo, Rossa era un uomo libero, con una giovinezza di anarchico e ribelle, ma era anche un militante del PCI e un rappresentante sindacale della CGIL. Aderire ad un’organizzazione non significa automaticamente rinunciare alla propria libertà. Può anche voler dire aderire ad una causa collettiva e rispettare la disciplina conseguente, senza per questo cancellare il proprio giudizio e la propria autonomia. Poi certo dipende dalle cause, ma qui ognuno ha le sue idee in proposito. Certo questa scelta non vale per tutti. Qualcuno preferisce dormire da solo sotto le stelle, ma non per questo è migliore o peggiore e gli altri non sono tutti schiavi. Buona domenica.
Ci sono anche i Boy scout.
Ma anche le guardie rosse o i soldati di cristo…..
Tantissimi uomini devono “alloggiarsi” sempre da qualche parte, hanno paura a dormire sotto le stelle.
Pochi ne sono capaci e Rossa lo era.
Fasci Paolo e non facevano sport ma scuola di vita appunto, rinforzando con l’escursionismo puro e duro la loro “romana volontà”. Niente di nuovo rispetto ai loro nonni e niente di nuovo rispetto agli effetti rinforzanti che produce il confronto duro con la natura. Come ho già detto siamo poi noi che ci mettiamo contenuto e direzione.
Ah, no. Scusa, non avevo capito…
Roberto, scusa, le persone di colore che hai incontrato stavano facendo escursionismo? Fantastico! Mi sono sempre domandato quando anche gli stranieri avrebbero cominciato a frequentare i monti per puro piacere.
È per quel motivo che non condivido l’aspetto meramente sportivo dell’andare in montagna, perché tale approccio non “migliora” la personalità e per me (data la mia storia personale) questo è inconcepibile. A mio parere se uno “sa” guardare oltre l’approccio sportivo (cioè sa guardare oltre l’asettica ed algida Natura delle rocce), nella montagna vede valori morali a cui puntare e, così facendo, “cresce” come individuo. Chiedo venia per la digressione e a questo punto non voglio spostare oltre il focus dei commenti dall’argomento principale di questo spot che riguarda, invece, l’indimenticabile Guido Rossa. Ciao!
Piccoli gruppi di brigatisti o simili frequentavano nei primi anni 70 le parti più recondite della Val Grande Ossolana, allora anche più selvagge di oggi. Li incontro’ un mio caro amico guida e climber. Io stesso ho incontrato di recente un piccolo gruppo, o forse sarebbe meglio dire manipolo, di colore completamente diverso, nero per intenderci, dalle parti della riserva integrale. Andare in luoghi selvaggi e affrontare difficoltà e rischi, crea fratellanza, resilienza, solidarietà, rinforza il carattere. Lo sanno bene dagli scout ai militari. Più il luogo è duro e più tosta è la sfida, e più l’effetto è garantito. Sono poi gli uomini a definire i contenuti, la direzione e gli scopi di questa fratellanza e di questo rinforzo del carattere. Ne’ la montagna ne’ il mare sono responsabili. Loro forniscono solo il terreno di gioco.
L’ultima parte del tuo commento, Carlo, in parte risponde al mio dubbio, non posso parlare per Matteo. Ma vedi? Una personalità “fulgida” lo è a prescindere.
Che poi la montagna possa essere una scuola di vita (una delle molte, aggiungerei), sono d’accordo. Ma in qualche modo bisogna già essere predisposti a cambiare, a maturare.
La Natura può stimolare la sensibilità, o i comportamenti, da una angolatura molto particolare: la Natura è priva di giudizio, è indifferente. Siamo nudi di fronte a uno specchio in cui vediamo ciò che siamo.
E il confronto con gli altri che poi ci porta a modificare o meno quell’immagine riflessa, ma nitida. Se siamo onesti, possiamo tutt’al più nasconderla. Ma non dimenticarla.
E farci i conti, in solitudine.
Può darsi benissimo che abbiate ragione voi, ma la mia esperienza di vita mi ha insegnato che la “montagna è scuola di vita”. Ne sono convinto perché ho vissuto, sulla mia pelle e su quella dei miei compagni di merenda, l’effetto benefico dell’andare in montagna sulla formazione a 360 gradi dell’individuo. Probabilmente sono condizionato dal fatto che, nel nostro giro, siamo stati indirizzati alla montagna in età davvero precoce (nel mio caso personale addirittura prima dei 5 anni, i miei amici intorno ai 12-15, massimo 16-18), cioè quando la personalità complessiva dell’individuo può essere ancora “plasmata”. Inoltre è assodato che eravamo tutti dei “bravi ragazzi” di partenza, per cui la montagna non ha dovuto correggere profondi vizi strutturali. Può essere, invece, che (come sostenete voi) neppure la montagna possa modificare le personalità già sbilanciate in termini negativi. In ogni caso gli interessati a comprendere che cosa intendo per “montagna scuola di vita” possono consultare il mio post pubblicato su questo blog nel maggio 2019:
https://gognablog.sherpa-gate.com/montagna-scuola-di-vita/
Certo che personalità “fulgide” come Guido Rossa viaggiano ben al di sopra di questi ragionamenti: non aveva certo bisogno della montagna per rafforzare la sua cristallinita’, anzi forse ne aveva da dare lui alla montagna (sicuramente a molti alpinisti, anche a lui contemporanei).
Buona serata!
Purtroppo Carlo, anche io non sono convinto che la montagna, la Natura, rendano migliori. L’ho creduto e continuo a pensare siano buone dimensioni per migliorare l’uomo. Ma poi ha perfettamente ragione Matteo.
Strano animale l’individuo. E maledettamente complesso per circoscriverne le qualità (queste ultime, molto spesso, una nostra proiezione).
Abitavo a pochi metri da Rossa e ricordo benissimo il fatto e il clima di quei tempi, il padre di un’amica gambizzato e la colonna Ludmann sterminata all’alba di un giorno d’inverno in Via Fracchia, vicinissimo a dove era stato ucciso Rossa. Il mio alpinismo era iniziato da poco e conoscevo Renato Avanzini ma Rossa no. L’avevo intravisto una sera nella sede del Cai di piazzetta Luccoli. Quando a scuola mi dissero che avevano sparato a un sindacalista nel mio quartiere pensai subito a mio zio Bruno, e mi feci mandare a casa per scoprire che non si trattava di lui.
Mi viene da pensare alle origini del mio alpinismo che si formava in questo clima, direttamente e indirettamente collegato a fatti gravi e violenti. Quando a volte mi accorgo di essere troppo pragmatico, e quindi scontroso e antipatico, penso a quegli anni e al segno che hanno lasciato in chi li ha vissuti da molto vicino.
Matteo: scomunicato all’ovest !!
Purtroppo Carlo io non lo credo affatto. Che andare in montagna possa insegnare o affinare tante virtù, può essere. Ma prima devi avercele.
Ho conosciuto troppi arrivisti, stronzi o cretini che andavano in montagna (e qualcuno anche forte) e ho visto troppe schifezze fatte da appassionati di montagna per poter credere che sia una panacea.
Anzi spesso è solo una giustificazione e una droga
Giudicare il prossimo secondo regolamenti autoreferenziali opposti a quelli adottati dal destinario del giudizio, non sposta di un punto l’andazzo storico la cui prima espressione è il conflitto.
L’egemonia dell’attuale paradigma imperniato sull’egoico interesse materiale impedisce l’interruzione dei cicli storici fondati sulla circolarità di desiderio-soddisfazione-desiderio.
In questo paradigma, l’uomo assoggettato e succube dell’io e quindi dipendente dai suoi sentimenti, è il deus ex machina della storia così come la conosciamo.
In questo paradigma la sola certezza è che la storia ci riproporrà il già visto.
E lo farà alla faccia di tutti i tanto facili moralismi, quanto inutili, alla stregua di fuorvianti superstizioni.
Tutto il nostro impegno a sostenerli, cadrà come un cristallo con l’elefante, alla prima occasione in cui la nostra importanza personale si sentirà in diritto di reagire.
È il punto in cui le parti si invertiranno e la storia si perpetuerà.
Con l’assassinio di Guido Rossa le Brigate Rosse hanno decretato la loro fine, gli operai in nome dei quali affermavano di lottare hanno potuto vedere senza schermature ideologiche il metodo mafioso utilizzato dai terroristi, “chi denuncia deve pagare”, a futuro monito. Guido Rossa non voleva essere un eroe e nemmeno un simbolo, le sue riflessioni sull’alpinismo e sugli alpinisti sono del resto esemplari, ma era un uomo capace di rispettare gli impegni e per ciò andare fino in fondo. Non voglio giudicare nessuno ma i ricordi di amici e colleghi del tempo, riportati nel testo, sembrano ricercare una giustificazione piuttosto che un’analisi.
Tensiun, Matteo, a non sconfinare, anche senza volerlo, in zone da cartellino rosso (ultime righe del tuo intervento n. 7). Lo dico per la serenità del confronto e del dibattito. Cmq non c’entra la concezione del tipo di alpinismo che si pratica, bensì il fatto che gli appassionati di montagna (almeno come li intendo io) hanno ideali cristallini che si estendono a tutta l’esistenza. È irrilevante poi se si è di destra o di sinistra, religiosi o meno ecc.. Proprio nei miei anni di liceo, avevo vivaci scontri (verbali) con il mio contraltare politico, il coordinatore della FIGC nella nostra scuola. Eppure ciò non ci imha impedito di arrampicare insieme ed anche in età più matura abbiamo ancora fatto delle gite in montagna. Perché la montagna (se vissuta in un certo modo) è qualcosa che affratella, e’ un ponte fra individui. Ci fosse stata più montagna (di quel tipo) forse ci sarebbero stati meno fatti di cronaca nera, chissà. Ciao!
Francamente, come ricordato anche nel post, mi pare che Guido Rossa fosse decisamente all’opposto dell’alpinista con “la camicia a scacchi di Carlo Mauri”
Non uno che scrive:
“L’indifferenza, il qualunquismo e l’ambizione …dominano nell’ambiente alpinistico…da ormai parecchi anni mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicini l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, un interesse che si contrapponga a quello quasi inutile (e non nascondiamocelo, forse, anche a noi stessi) dell’andar sui sassi. Che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo…dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi ed ingiustizie…”
Bastasse andare in montagna! Purtroppo un egoista, un arrivista, un cretino o uno stronzo rimangono tali anche in montagna (e magari peggiorano pure, se si convincono che siccome vanno in montagna sono degli “eletti”)
Poiché sismo cristiani, anche se non credenti, sappiamo distinguere tra peccato e peccatore. Si può mettere una pietra sopra con chi ha pagato i suoi errori. Si chiama giustizia. Ma non con chi è scappato. Su questo io la penso diversamente da un amante della montagna e anche lui veterano come Erri de Luca.
Accettare la responsabilità e le conseguenze delle proprie azioni Lorenzo. Uno degli assassini è ancora latitante
Lì si misurano gli uomini? Con che unità di misura?
Storia è sinonimo di dolore.
Neppure a Torino si è scherzato con il terrorismo. Per fortuna io personalmente non ho avuto a che fare direttamente con il fenomeno più sanguinoso, ma fra gambizzazioni (rimediabili) e agguati irrimediabili, la cronaca subalpina è stata ben intasata. Invece ho vissuto in diretta il clima di quegli anni, che erano gli anni delle mie scuole superiori, quando mi sono “affacciato” al mondo. La realtà ti dava subito uno schiaffo in faccia, come quando esci in cresta e non sei più coperto dal vento teso e freddo. Dovevi scegliere: o di qua o di là. E dovevi scegliere in fretta, non c’era modo di tergiversare. Rispetto ai giovani di oggi, affossati nei loro trabiccoli informatici, la cronaca di quegli anni era severa e crudele, ma ci ha fatto crescere in un battibaleno.
Allora, ma in fondo anche oggi (seppur su temi mooolto differenti), la mia convinzione è la seguente: se ci fossero stati più uomini come Guido Rossa (anche meno dotati alpinisticamente…), forse ci sarebbero state meno BR. Mi spiego meglio. Tradizionalmente si dice che le religioni sono l’oppio dei popoli. Parallelamente io sostengo che l’andar in montagna (ma quello che intendo io… e non mi ripeto) ha un effetto sanificatore sugli individui, li rende migliori, più adulti e responsabili. Se ci fosse stato, allora, un più diffuso andar in montagna (ripeto: quello che intendo io, da “camicia a scacchi Carlo Mauri”), forse avremmo avuto una maggior diffusione di ideali che sono all’opposto di quelli del terrorismo. Però è vero che con i se e con i ma non si fa la storia, per cui questa mia teoria non ha controprove. Personalmente ne sono convinto, ma si tratta di una convinzione personale.
Indiscutibilmente oggettivo è invece il ricordo pubblico di Guido Rossa, i cui occhi anche dalle fotografie ti scavano dentro e ti bruciano l’anima. In particolare nella celebre foto, davvero “iconica” (la terza dall’alto in questo bellissimo post), Guido sembra un eroe omerico, adamantino e “roccioso”.
L’anno scorso sono andato a rifare una via plaisir in Canton Ticino adatta a noi del giurassico, la via del Veterano, appunto, a Freggio, prima del Gottardo. Dietro di noi una cordata di altri due veterani con la quale abbiamo fatto amicizia. Alla fine, bevendo la solita birretta insieme al crotto, ho scherzato sui veterani che però hanno avuto la fortuna di non fare la guerra, a differenza di padri e nonni. Uno dei due mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “Forse ti sei dimenticato, anche noi abbiamo fatto una guerra, anche se più piccola e non dichiarata”. Era un ex carabiniere in pensione del nucleo di Dalla Chiesa. Tra i tanti drammi di una guerra c’è il fatto che non sono concesse sottigliezze, distinzioni o errori magari fatti con ingenuità. Ti devi schierare, o da una parte o dall’altra e lì si misurano gli uomini. Auguriamoci e operiamo perché ciò non si ripeta più e che quei dolori non siano stati inutili.
Questo post porta a una riflessione storica, non tanto sull’uomo qui protagonista, ma sui sentimenti, le contraddizioni, le aspettative di un insieme d’uomini e donne di quegli anni.
Ero bambino, ma da sambenettese vissi di riflesso e da vicino la vicenda Peci. Ed anche l’omicidio di Vaccher, di cui udì gli spari, a poche decine di metri dalla casa in cui stavamo a Milano.
La dimensione del terrorismo e le sue vicende non potrebbero essere liquidate in poche righe qui. Non mi ci provo nemmeno, benché sia storico.
È l’intreccio tra vita e politica, tra montagna e società civile, racchiuso nelle esperienze delle persone coinvolte, che in questo post mi inquieta.
Inquieta nel senso umano di dispiacersi per le occasioni mancate, le vite spente, i futuri perduti, il dolore.
Questo post è un breve squarcio sulla Storia. E un amaro pensiero sugli uomini.