Nel luglio del 1899, precisamente il giorno 21, nasceva a Oak Park (Illinois, USA), Ernest Hemingway. Sono trascorsi quindi 120 anni, 62 dei quali Hemingway li ha “vissuti” nel senso più profondo della parola. Non una vita qualsiasi, la sua, un tirare a sera senza costrutto, ma un immergersi pienamente nelle emozioni della vita e farsene travolgere in pieno. Emozioni positive o negative: safari in Africa, pesca d’altura nell’Atlantico, sbronze colossali nella Parigi anni ’20 o a Cuba dopo la Guerra. Già, poi c’è la guerra, verso la quale Hemingway ha provato una contraddittoria attrazione-repulsione. Pacifista da un lato, dall’altro si fece coinvolgere sia nella Prima (volontario con la Croce Rossa americana e ferito sul campo) che nella Seconda (si piccava di essere stato il primo americano ad entrare nella Parigi liberata dai tedeschi, a capo di milizie non ben definite e mai ufficialmente riconosciute). L’Hemingway personaggio non può scollarsi dall’Hemingway scrittore, che rivoluzionò la letteratura, redendo di colpo obsoleto il precedente manierismo a favore di uno stile secco, diretto, immediato. Chi si è avvicinato, come me, ai libri negli anni ’60 e ’70 non può non essersi “innamorato” di Hemingway, personaggio e scrittore. In tutto questo bailamme, Hemingway registrò anche qualche contatto con il mondo della montagna. Note sono le sue sciate a Schruns nel Voralberg (Alpi bavaresi) durante la sua vita parigina (anni ’20): era una montagna invernale decisamente d’altri tempi, senza impianti per cui le risalite con le pelli “rendevano forti gambe e ginocchia”. Celebri sono alcuni racconti ambientati in montagna (fra cui il più noto si intitola Monti sotto la neve), anche se, nell’immenso panorama della spericolata vita di Hemingway, non possiamo sostenere che la montagna abbia ricoperto un ruolo primario. Tuttavia per ricordare i 120 anni dalla sua nascita, è opportuno segnalare che l’Italia e le Dolomiti in particolare hanno saputo evocare delle emozioni anche nel cuore del noto scrittore americano (Carlo Crovella).
Hemingway: “Hai mai sentito il crepuscolo delle Dolomiti?”
di Francesco Comina
(pubblicato su altoadige.it il 21 settembre 2017)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Il giovane Hemingway (1899-1961) cercava ostinatamente la guerra. La bramava, la desiderava sopra ogni altra cosa, l’agognava come fosse una pepita d’oro. All’amico e collega della Croce Rossa, Ted Brumback, aveva scritto una lettera piena di passione per il combattimento: “Vado a vedere se riesco a scoprire dove sta la guerra”.
Nel maggio del ’18 Hemingway realizza il suo sogno. Salpa, dalle sponde americane, su “la bagnarola più marcia che ci sia al mondo” e arriva, in qualità di autista della Croce Rossa, sul fronte italiano ai piedi delle Dolomiti, di stanza a Schio. Inizia così il suo amore per il Belpaese, un idillio che durerà per tutta la vita e che il corrispondente del Times, Richard Owen, ci ha appena raccontato nel bel libro Hemingway e l’Italia (Donzelli) presentato qualche giorno fa a Pordenone-legge.
Le Dolomiti diventano, per Hemingway, il teatro più vivido della guerra, l’abisso della pulsione mortale dell’uomo, il superamento dell’io, la tentazione dell’oltre, “l’illusione dell’immortalità”. In Addio alle armi questo stato di eccitazione viene descritto in molti passaggi: “A nord guardavamo una valle e si vedeva un castagneto e, al di là di questo, un’altra montagna sulla stessa riva del fiume. Anche per quella montagna si combatteva, ma senza successo…”.
Aveva diciotto anni lo scrittore in erba e l’estasi per l’avventura aveva trovato, sul fronte del Piave, uno sfogo fantastico per misurarsi sulle onde lunghe della leggenda. Entrare nella battaglia per raccontarla! Viverla e testimoniarla! Sfidare la sorte e poter scrivere a lettere di fuoco: “L’hai mai sentito il crepuscolo di giugno delle Dolomiti?”.
Gli eroi pronti a morire per la patria lo infiammano. In quei mesi di scontri con le armate austro-ungariche Hemingway – racconta Richard Owen – legge la vicenda di Cesare Battisti con un’aurea di mito tanto da portarsi addosso una sua fotografia (oggi conservata preso il John F. Kennedy Library di Boston) e desiderare ardentemente di visitare Trento e i luoghi della sua storia. Battisti era per lui un eroe della fedeltà e del coraggio. Il giovane americano, stregato dalle montagne bombardate, era pronto a fare come Battisti: sfidare la morte per fedeltà alla incorruttibilità di una verità che si reggeva con l’illusione di essere fiaccola nella notte.
E tanto si spinse il giovane idealista da correre fin sulle prime linee della battaglia in quel terribile luglio del 1918. Bisognava soccorrere gli italiani feriti e in trappola lungo le rive del Piave a Fossalta. Hemingway tentò il tutto per tutto, corse, si mimetizzò, strisciò nella palude e nel fango ma venne colpito dalle schegge di mortaio e ferito a entrambe le gambe. Nonostante tutto continuò a evacuare i feriti e a salvare un soldato colpito al petto trascinandolo senza più forze fino a trecento metri dall’ambulanza (il ferito venne tratto in salvo). Ma una raffica di mitragliatrice lo colpì nuovamente a un ginocchio fracassandoglielo. Hemingway sentì l’anima uscire dal corpo, “come se tirassi fuori un fazzoletto di seta dal taschino tenendolo per un angolo” scrisse in una lettera a un amico.
Fu la morte dell’immortalità. L’operazione e la degenza all’ospedale di Milano – dove si innamorò follemente dell’infermiera Agnes von Kurowski – fecero crollare l’illusione: “Quando vai in guerra da ragazzo – scrisse anni dopo – hai una forte illusione di immortalità. Gli altri possono essere uccisi, ma tu no. Poi, quando per la prima volta vieni ferito gravemente perdi quell’illusione e capisci che può capitare anche a te”.
E allora nacquero nuovi amori, nuove passioni. Sul letto d’ospedale Hemingway iniziò a inabissarsi in altri tormenti: le donne, il vino (l’alcool in genere) e i romanzi.
Sopravvissuto alla morte tornò nuovamente ai piedi delle Dolomiti ma con tutto un altro spirito, nonostante si vantasse (per molti compagni erano solo spavalderie prive di fondamento) di aver preso parte alla battaglia di Vittorio Veneto. Finita la guerra, Hemingway riprese le sue nuove avventure viaggiando da un capo all’altro dell’Italia… E qui il libro di Owen ci conduce nel cuore dell’idillio, lungo le orme di una passione folgorante per le bellezze (artistiche, culinarie, femminili) del nostro Paese: da Taormina a Genova, da Rapallo a Cortina, da Venezia a Verona e al lago di Garda, con i suoi amici d’avventura, da John Dos Passos a Ezra Pound e Francis Scott Fitzgerald… Owen ricostruisce anche l’incontro con Mussolini nel 1923 durante una conferenza stampa.
Hemingway definì il dittatore fascista come “il più grande bluff d’Europa”: “Anche se domattina – scrisse senza mezzi termini – si facesse arrestare e fucilare, continuerei a considerarlo un bluff. Sarebbe un bluff anche la fucilazione”. E nel 1954 rivelò al critico d’arte Bernard Brenson: “Mussolini lo conoscevo abbastanza bene. Dopo aver conosciuto un vecchio cattivo come Georges Clemenceau, Mussolini non era molto interessante”.
Il libro di Owen prosegue nell’idillio per l’Italia divenuto col tempo meno caliente anche perché sopraggiunsero altri amori come la Spagna, Cuba, l’Africa… Forse, chissà, è un’ipotesi subito prima del suicidio, avvenuto il 2 luglio del 1961 pare, Hemingway potrebbe essere riapparso, da solo, per l’ultima volta in Italia, a Venezia (proveniente dalla Spagna), già inseguito dai fantasmi di una psiche oramai ferita e ribelle.
La sera prima dello sparo, nella casa di Ketchum dove era andato a vivere con la sua ultima moglie Mary Welsh, cantò una strofa di una canzone che aveva imparato dalla sua traduttrice italiana Fernanda Pivano: “Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono”. Hemingway concluse con l’ultima strofa: “Porto i capelli neri come il carbone”. Con l’Italia nel cuore.
21Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Memorabile l’incontro tra Hemingway e la sua traduttrice italiana Fernanda Pivano. Avvenne nel a Cortina, in pieno clima dolomitico. Non nel senso strettamente alpinistico, ma in termini emotivi e intellettuali.