Hermes il messaggero
(da La Parete, 1982)
Lettura: spessore-weight***, impegno-effort***, disimpegno-entertainment***
1977, maggio. Da molto tempo ormai mi sentivo esiliato. Per alcune ditte produttrici di articoli per alpinismo svolgevo un lavoro che mi portava spesso a contatto con i più svariati ambienti, tra le sezioni del CAI più lontane tra loro sulla carta e per mentalità. Proponevo agli istruttori delle scuole merce con sconto e facevo così una sorta di promozione per le ditte. Ciò mi costava perché contribuiva a un esilio più punitivo. Non solo non avevo più l’alpinismo da spartire con loro, ma addirittura ero passato dall’altra parte, dal lato del commercio. In realtà non avevo abbandonato le mie gite con gli sci, non avevo mai completamente smesso di arrampicare, ma era come se tutto ciò non dovesse essere saputo. Volevo ricostruirmi partendo dalle mie stesse ceneri, dovevo distanziarmi da coloro che vogliono essere sempre fedeli al proprio personaggio. E perché di ceneri vere si trattasse occorreva che anche gli altri le riconoscessero come tali, senza essere sfiorati dal dubbio. Ma ero stufo di guerra, ero stufo di esilio. Anch’io come Ulisse aspettavo su un’isola che Hermes il messaggero venisse a chiamarmi.
Ma dai tempi di Itaca a oggi molto è cambiato. Hermes fu nel frattempo chiamato Mercurio, in seguito venne evocato solo nei processi alchemici e solo di recente gli si è ridata una qualche importanza. Oggi Hermes rivive nei camionisti, meglio ancora nei conduttori di TIR. Sono i messaggeri, presiedono al traffico internazionale di merce e tramite l’autotreno sono i re delle strade. Ai piedi Hermes portava i calzari alati, oggi i camionisti hanno i pneumatici; entrambi sono composti d’aria. Viaggiano giorno e notte, per loro non esiste lo spazio né il tempo.
Avevamo idea di andare a Trento, al Festival della Montagna. Nessuno ci aveva invitati, ma ci sembrava bello comparire ugualmente e magari conoscere qualche straniero, inglese o francese; ci sembrava utile tastare il polso all’alpinismo, capire in anticipo le nuove direzioni e le nuove sensibilità. Avevamo programmato di partire il giovedì mattina. Alle ore 13 del lunedì precedente ricevetti una telefonata:
«Pronto, qui è uno degli Scoiattoli di Cortina. Sei Alessandro Gogna?».
«Sì, sono io ».
«Ah, ero qui di passaggio con il camion, volevo salutarti».
«Ma per che cosa è, per questioni di lavoro, per gli Scoiattoli?».
«Volevo salutarti, se non ti disturbo».
«No, no, vieni pure alle 15, se hai l’indirizzo. Dove sei adesso?».
«Sono a Concorezzo, ma ti trovo, sta tranquillo».
Trascorsi le due ore che mancavano all’appuntamento ponendomi un mucchio d’interrogativi. Chi era costui e cosa voleva? Io non conoscevo nessuno degli Scoiattoli, se non di nome. Non ho mai parlato con nessuno di loro. Da chi ha avuto il mio indirizzo? D’accordo, sulla guida telefonica. Ma lo stesso qualcosa non quadra. E poi cosa c’entra il camion?
Alle 15 esatte suonò alla porta. Era un tipo piccolino ma robusto, giacca nera da camionista, un leggero odore di stantio, di fumo e di vino. Accento veneto. Entrò con fare rispettoso, ma con sicurezza. Lo feci sedere, gli offrii del vino piemontese.
«Questo dolcetto non credo lo beviate spesso dalle vostre parti!».
«Infatti no, dalle nostre parti è tutta un’altra roba. E poi, quando sei in giro, non puoi mai bere bene, in questi bar e ristoranti l’è tutta una roba andante…».
Mi raccontò che aveva fermo il camion in dogana a Concorezzo, un paese a circa 20 km da Milano. Il discorso andò subito sulle strade, sulla vita del camionista, sulle avventure che capitano a loro ogni giorno, sulla nebbia.
Io cercavo di portarlo un po’ sulla mia strada e intanto riempivo i bicchieri e facevo il caffè.
«Ma, scusa, tu come ti chiami?».
«Io mi chiamo Romolo Pezzei».
«Ma sei anche guida alpina, oltre che camionista?».
«Certo che sono guida».
«Ma quando svolgi l’attività di guida?».
«D’estate, d’estate. Il resto del tempo giro col camion».
Non mi soddisfaceva per nulla quel dialogo e perché era un po’ forzato e perché mi sembrava di suggerire tutto io. Ma d’un tratto il Pezzei ebbe un’uscita che mi tolse qualche dubbio:
«Ci vieni anche tu a Trento, al Festival? C’è un convegno sulle guide alpine e saremo presenti anche noi».
«Certo che vado, parto da qui giovedì mattina».
«Sarebbe importante che venissi anche tu, c’è bisogno di gente come te per far capire come stanno le cose!».
«Ma io non sono guida».
«E che importa? Tu devi venire e basta. Lo sai che ti hanno invitato…».
Mi consolai, almeno non era un impostore del tutto. Ma volli ugualmente andare a fondo e gli chiesi se gli Scoiattoli lo avevano incaricato di qualcosa con me, ma Pezzei mi diede una risposta assai vaga, probabilmente non capiva che io mi riferivo alle promozioni di materiale alpinistico. Pensai che forse stavano organizzando una spedizione.
«Certo che l’anno scorso è stata proprio una tragedia quella vostra dell’Huascaran!» buttai là. Erano morti due Scoiattoli nel tentativo di salire la parete nord.
«Ah, quella c’è rimasta proprio sul gozzo» fu la risposta, senza aggiungere altro. Più tardi però disse: «Vorremmo organizzare una spedizione in Himalaya. Là sì che ci sono delle grandi montagne. Per esempio il Cerro Torre…».
Nascondendo la mia sorpresa per le sue scarse cognizioni geografiche, gli mostrai una fotografia e lui senza esitare mi additò il progetto di via nuova: con il dito tracciò esattamente il percorso di Maestri…
«Comunque potremmo parlarne con tutti voi al Festival» dissi conciliante.
«Allora vieni, eh? Guarda che sei stato invitato».
«Io non sono stato invitato, non mi è arrivata nessuna lettera da Trento».
«Sì, sei stato invitato».
Lo lasciai da solo con un pretesto e corsi nell’altra stanza a telefonare alla Segreteria del Festival. Ebbi conferma che non ero stato invitato, né come ospite né come osservatore alla tavola rotonda sulla professione di guida alpina. A questo punto pensavo che il Pezzei avesse orecchiato da chissà chi quello che mi aveva detto e che comunque non era mai andato in montagna, né sulle Ande né vicino a Cortina. Pertanto volevo solo togliermelo dai piedi. Per di più la conversazione languiva, perciò mi alzai e gli feci capire che avevo altre cose da fare. Mi raccontò ancora di avere un rifugio al Passo di Giau, vicino a Cortina. Lo teneva sua moglie e rendeva abbastanza bene. Ormai si era alzato e si era rimesso il giaccone. Mi ringraziò del vino e dell’ospitalità, poi mi disse che se passavo dalle sue parti avrei dovuto andare a trovarlo nel suo rifugio. Lo assicurai che certamente non avrei mancato di salutarlo e di bere un bicchiere con lui. Era già sulla porta quando si piazzò sui due piedi e a indice puntato mi disse: «Guarda che se non vieni… ti metto una bomba!».
Non avevo ben chiaro se si riferisse a Trento, al suo rifugio o a chissà che cosa, ma ormai ci stavamo salutando definitivamente. Sulle scale mi disse: «Ci vediamo a Trento, quindi. Conosci quel bar-pasticceria che c’è in piazza del Duomo? Noi saremo lì».
Stavo ancora raccogliendo le idee, quando suonò il campanello. «Scusa, avresti mica 5.000 lire da prestarmi? Vorrei comprare qualcosa per mia figlia qui a Milano e i soldi li ho dimenticati nel camion».
Tirai fuori 10.000 lire e gliele diedi. L’obolo imprevisto mi fece almeno realizzare che il povero Romolo avrebbe bevuto ancora un po’ prima di tornare a Concorezzo e magari non le avrei mai più rivisto. La serata scorse tranquilla. Nella ed io stavamo per andare a dormire, quando a mezzanotte suonò il telefono.
«Sono Romolo, sono al ristorante La Baia, a Concorezzo. Ti telefono perché sono arrivato tardi in dogana e avevano già chiuso. Non posso entrare, non posso dormire nel camion». Sapevo che La Baia esiste veramente a Concorezzo.
«Non c’è posto lì alla Baia?».
«No, qui non c’è posto. Potresti venirmi a prendere?».
La voce era un po’ esitante e roca. Era di certo ubriaco. Non esitai a rispondere che non avevo alcuna intenzione di passare a prenderlo. Se voleva poteva venire per conto suo. Poteva chiamare un taxi, l’avrei pagato io.
Ero sconcertato. Un uomo, non sapevo chi fosse, mi aveva telefonato e mi aveva imposto con le buone di andare al Festival, tirando in ballo bombe e minacciosi noi. Di certo era però anche un alcoolizzato che con la montagna non aveva nulla a che fare. Avevo anche paura a farlo salire in casa a quell’ora. Se non fosse stato solo? Telefonai ad Aldo Anghileri, perché sapevo che conosceva parecchi Scoiattoli e gente che girava attorno al loro ambiente. Con voce assonnata mi rispose che non l’aveva mai sentito nominare. Allora telefonai al presidente stesso, Lorenzo Lorenzi. Non so come prese la mia telefonata notturna. Ci pensò un momento, poi come illuminato disse: «Ah, ora ricordo! Romolo Pezzei! Sì, avevano un rifugio. No, ma non è uno Scoiattolo. Sì, fa il camionista, è uno di qua. Non è cattivo, è stato un po’ dentro qualche volta, ma niente di grave. Sì, sì, mandalo via».
Dopo le scuse, lo salutai. Decisi di togliere elettricità all’appartamento. Poi staccai il telefono e andai a dormire.
A Trento, come previsto, andammo e non incontrammo Romolo Pezzei. Forse il noi cui si riferiva erano gli dei dell’Olimpo? L’escursione al Festival fu una bella avventura. Per me c’erano tutti quelli che contavano e ci trovammo molto bene assieme, specialmente una sera in un bar-pasticceria di piazza del Duomo.
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