Chi era Gianni Agnelli: libertino e aristocratico, con la FIAT ha costruito il DNA italiano
di Paolo Guzzanti
(pubblicato su Il Riformista l’11 marzo 2021)
«L’Avvocato avrebbe piacere di vederla. Andrebbe bene per lei oggi alle sedici?». Quando arrivavo alla redazione di Torino della Stampa dalla fine del 1990 si ripeteva questo rito. Gianni Agnelli mi chiedeva di andare a trovarlo nel suo studio, dove sedeva dietro una grande scrivania su cui appoggiava le grucce che lo tenevano in piedi dopo le numerose catastrofi che gli avevano devastato gambe e piedi. C’era stato un incidente con un tedesco che aveva accettato di farlo fuggire, e poi una tremenda frenata quando guidava la sorella Susanna. Parlavamo per ore e partivamo sempre da Cuba, dall’America Latina, Gabriel Garcia Marquez ed Hemingway. Aveva speso la sua gioventù libertina fra Miamie L’Avana e gli piaceva tornare sulle tracce della memoria di Marilyn Monroe e di Tom Giancana.
Giancana era il sindacalista mafioso che condivideva Marilyn con John e Bob Kennedy.Lei si uccise con i barbiturici, ma forse fu Giancana che fece un piacere ai Kennedy perché dopo il famoso “Happy Birthday mister President”, le cose a White House non andavano molto bene. Mi chiedeva spesso se avessi conosciuto i dettagli del patto con cui il vecchio gangster accettò di appoggiare John per la Casa Bianca in cambio dell’insabbiamento del suo dossier da parte del fratello Bob, che poi sarà assassinato nel 1968. L’avvocato era un ascoltatore attentissimo e non interrompeva mai. Appena arrivato alla Stampa, chiamato da Paolo Mieli che ne era appena diventato direttore, ero capitato sul caso Cossiga, il presidente della Repubblica che tutti davano per matto perché fui mandato a seguirlo in una delle sue intemerate il 4 gennaio del 1991, per l’inaugurazione dell’anno giudiziario a Gela.
Cossiga per caso mi aveva visto la sera prima in televisione nel programma di Catherine Spaak Harem dove avevo raccontato di mia figlia Sabina diplomata all’Accademia d’arte drammatica. Cossiga quando mi vide a Gela mi prese per un braccio e mi portò con sé in mezzo alla folla mentre il sindaco, che si era visto usurpato, mi lacerava verticalmente la giacca. Così nacque il mio rapporto speciale con Cossiga che difesi strenuamente dal tentativo di costringerlo alle dimissioni, perché accusato di essere pazzo come un cavallo o come una “lepre marzolina” per usare l’espressione di Tana de Zulueta allora influentissima editorialista dell’Economist. I miei diari quotidiani delle cronache dal Quirinale furono un successo per il giornale e prima di terminare il suo mandato Cossiga nominò l’Avvocato Gianni Agnelli senatore a vita, cosa che gli rendeva la vita difficile per via dei gradini a Palazzo Madama. Ma eravamo ormai diventati amici. Fu lui a propormi di andare a vivere a New York come inviato e le nostre conversazioni proseguirono anche lì, quando veniva a Manhattannella sua piccola elegantissima casa, e mi invitava a cena con la moglie Marella, sorella di Carlo Caracciolo, che fu il primo editore di Repubblica insieme a Mondadori.
A Roma aveva una casa ineguagliabile sulla piazza del Quirinale con un panorama onirico: non si vedeva semplicemente tutta Roma, ma la si vedeva nella sua zona rosa mattone, ad un’altezza umana e non da aereo. Nel grande salone c’era un gigantesco quadro del futurista Giacomo Balla, dipinto su entrambe le facce: da una parte la “Marcia su Roma” con Mussolini, i quadrumviri, le uniformi di fantasia di fascisti allampanati e smunti ma con la faccia feroce, dall’altra una automobile lanciata nella corsa, ma suddivisa in frame divisionisti che suggerivano alla maniera futurista il movimento, l’accelerazione, il ruggito della vittoria. Un giorno nel suo studio nel palazzo della Fiat a Torino mi sporsi per dargli la mano e inciampai nelle grucce che caddero con me in una rovina di ferraglia e contusioni. Lui rimase impassibile, non batté ciglio e non disse una sillaba. Poi gli raccontai dei piccoli libri di Gabriel Garcia Marquez che avevo trovato a Santiago del Cile, fra cui le sue corrispondenze da Roma sul caso Montesi dei primi anni Cinquanta e la dolce vita italiana. Mi lasciò raccontare tutto e poi aggiunse soltanto: «Sì, mercoledì scorso ho cenato con lui a Città del Messico».
Quando furono nominati due vicedirettori, seppe che non ero stato contento e mi invitò a cena e mi spiegò che la Stampa era lo strumento fondamentale per i suoi rapporti con il Partito comunista (che aveva cambiato nome) e con i sindacati. La pagina della cultura sulla Stampa era la palestra in cui si allenavano tutte le migliori firme della sinistra italiana che si sentivano a casa loro. Non erano graditi intrusi. Ero io un intruso. Quando avevo imitato il presidente della Repubblica Pertini nella trasmissione di Renzo Arbore Quelli della Notte, Lietta Tornabuoni, editorialista ed ideologa della Stampa mi dedicò un velenoso commento il cui tema era “Non si scherza con la Resistenza”. In fondo, che ci facevo io in quel parco culturale e politico dominato da regole strettissime, consuetudini sabaude ma anche togliattiane? La consuetudine, mi spiegò, era quella di scegliere fra le migliori firme gradite al partito comunista uno o due vicedirettori. Non mi disse «e per questo motivo lei non è diventato né mai diventerà vicedirettore», ma il senso era quello. Era l’epoca in cui Walter Veltroni dirigeva l’Unità: mi capitava spesso quando ero a Torino di partecipare all’amicale riunione telefonica tra lui, Paolo Mieli ed Ezio Mauro.
Si faceva a gara nel consigliare a Veltroni i titoli di prima pagina, suggerendogli di avere sempre, in basso a destra, un titolo di fogliettone tutto suo, qualcosa che desse all’Unità un tocco personalizzato e possibilmente sociale, ma di tono leggero. Si discuteva dell’arte – era la tesi di Mieli – di render la lettura del giornale simile ad una escursione che preveda anche momenti di ristoro e sosta, viste del panorama e poi nuove imprese faticose di lettura impegnativa.
La Stampa tradizionale, a cominciare dall’edizione curata da Ciuffettino, come era chiamato il geniale Giulio De Benedetti – uomo formidabile e terribile – che guidò il giornale dalla fine della guerra fino al 1968, era una fortezza. Come la Fiat. La Fiat di Torino era la vera città di Torino. Almeno venti volte ero stato catapultato durante la mia vita di cronista al cancello numero Otto per intervistare gli operai sindacalizzati e poi contaminati dal terrorismo. Proprio uno di quegli operai diventerà il “Cipputi” di Altan. Conobbi bene anche Cesare Romiti che aveva con Agnelli un rapporto cordiale ma sempre a una certa distanza, mai oltre il “lei”. Romiti aveva retto l’azienda quando Agnelli se l’era ripresa dalle mani espertissime di Vittorio Valletta, che fu il presidente della Fiat dal 1946 al 1966 ma che l’aveva retta anche durante il fascismo, quando l’azienda era ancora un bene strategico, al vertice dei “Fornitori della Real Casa” molto vicina all’Arma dei carabinieri.
La guerra fredda era anche guerra sindacale e politica e industriale. Gianni Agnelli aveva speso la sua gioventù in giro per il mondo, ma poi decise di tornare a prendere le redini della più grande fabbrica italiana. Giorgio Amendola, che era stato uno dei comandanti della resistenza romana, aveva condannato a morte Valletta per collaborazionismo ma quando i suoi uomini erano andati ad arrestarlo trovarono agenti inglesi con la pistola in pugno. Gli inglesi spiegarono che Valletta aveva diligentemente sabotato la produzione industriale bellica durante la guerra e che andava trattato come un patriota. Dopo la guerra Valletta chiamò il giovane Gianni Agnelli e gli disse: «Decida lei chi vuole al comando. Se devo essere io, voglio carta bianca». Gianni Agnelli non ebbe dubbi: «La prego, professore, prosegua lei». E corse in America a rifugiarsi fra i suoi amici bostoniani fra cui il giovane senatore John Fitzgerald Kennedye i banchieri David Rockefeller e André Meyer. Leggo su internet della sua vita amorosa di quei tempi che è molto complicata ma che vede in testa l’ex nuora di Winston Churchill, ex moglie di Randolph Churchill. Di qui, penso, il suo distintissimo tocco di accento british anche quando parlava con gli americani. Poi si ruppe di nuovo la gamba già rotta durante la guerra e che si romperà di nuovo sciando. Si disintegrò più volte in auto e sugli sci. Rischiando di perderla. Ecco perché portava sempre con sé queste grucce sulle quali vergognosamente inciampai rovinando.
Gianni era nato a Torino il 12 marzo 1921, dunque domani sono cento anni. Finito il liceo, volò subito in America dove resta affascinato, oltre che da New York, troppo facile, anche da Detroit, la capitale dell’automobile, del Cipputi americano e della catena di montaggio. In una delle nostre stravaganti conversazioni ricordai quanto era pesante sorvolare la Germania dell’Est provenendo da Ovest, quando improvvisamente la notte diventa nera, non c’è più un bagliore, solo tracce malate e giallognole. «Anche a Detroit – mi rispose – Anche Detroit quando la sorvolai durante la grande recessione era buia. Detroit sembrava morta». Si fece la sua guerra come tenente in Africa, poi diventò ufficiale di collegamento con le forze di liberazione. Non parlava mai di quegli anni e di quelle durezze. Ne parlava più volentieri sua sorella Susannache diventò per un breve periodo ministro degli Esteri: «Gianni mi chiama tre volte al giorno – mi disse – perché è curiosissimo e vorrebbe sapere tutto anche i segreti più segreti e devo dirgli: guarda caro che non posso raccontarti proprio tutto, sai? Primo, perché non ho tempo e poi perché sono cose riservate. – E rideva felice perché fra i due era rimasta questa antica complicità che abbiamo letto su Vestivamo alla marinara – Ma lui insiste, insiste…».
Fratello e sorella avevano la stessa passione per fare il sindaco: lui a Villar Perosae lei all’Argentario. La storia industriale della Fiat sotto la guida di Gianni Agnelli chiunque se la può leggere su internet e dunque la tralascio, ricordando solo di essere io stesso stato un bambino-Fiat. La prima macchina che entrò in casa fu una Cinquecento “C”, poi una Topolino giardinetta – una miniatura delle station wagon americane – con carrozzeria in finto legno, poi sempre le Fiat casalinghe fino alla prima Cinquecento che i miei genitori mi regalarono quando compii vent’anni e potei prendere la patente. Tralascio i ricordi retorici sul miracolo italiano e l’autostrada del Sole, anche perché quella era ancora la Fiat di Vittorio Valletta, ma la Fiat era qualcosa che teneva in piedi il DNA italiano. Non avendo mai avuto alcuna passione per il calcio, e comunque considerandomi un romanista distratto, non potei iscrivermi – ma forse era dovuto, non so – ai convertiti alla Juventus che era l’altra istituzione fondamentale insieme alla Fiat, la Ferrari(presa dalla Fiat di Agnelli). Adesso che la Juve è – momentaneamente – al disastro, penso che l’Avvocato abbia fatto bene a morire in tempo prima di avere un dispiacere istituzionale, che non ha di per sé nulla di sportivo. Quando lasciai la Stampa per passare al Giornale, lo andai a trovare nella sua casa romana dove mi ascoltò impassibile, mentre gli spiegavo le molte ragioni di una difficoltà genetica. Quando terminai mi guardò ancora per un tempo talmente lungo da farmi provare un certo imbarazzo e che mi imponeva di chiedermi che cosa stesse pensando, che cosa volesse dirmi se avesse potuto dirmi qualcosa, ciò che l’etichetta invece gli vietava. Poi finalmente ruppe quella sospensione e disse con la rapidità di chi inghiotte una pillola: «Dunque lei ci lascia. Peccato. E auguri per il suo futuro».
Essendo io un plebeo, non ebbi ritegno nel mostrare la mia commozione e il dispiacere personale per la fine di una relazione amicale rarefatta e straordinaria. Quando andavo a trovarlo nel suo ufficio mi riceveva sempre con un grande sorriso piegato in mille rughe e aveva gli occhi fessurati in quel viso che aveva avuto troppo sole e mi chiedeva: «E allora? Si diverte? Mi racconti: si diverte?». All’inizio non capivo bene il senso di quella domanda. A quale genere di divertimento si riferiva? Poi capii il senso calvinista della questione: il lavoro che io facevo, doveva secondo lui provocare piacere. Era certamente convinto che il suo giornale fosse quindi il luogo più piacevole per un giornalista, così come la Juventus doveva essere la squadra più piacevole per chiunque si occupi di football.
L’Avvocato è morto ormai da diciotto anni. Ma nel frattempo è morta la Fiat, quella Fiat. Quell’orgoglio, quel marchio, quello stile e quella commistione impossibile fra l’austerità torinese e il libertinaggio intellettuale. È svanito un mondo di cui l’Avvocato è stato uno straordinario prim’attore, un uomo che quanto a vita privata ha avuto molte pene e ne ha probabilmente inflitte. Ma allo stesso tempo era un arci italiano come non penso ce ne siano più perché è finito il mondo delle grandi famiglie con idee futuriste e settecentesche allo stesso tempo, libertine e severissime. Nell’Italia dell’Avvocato, uno non valeva mai uno, ma valeva quel che valeva e la crescita era certamente felice.
I 100 anni dell’Avvocato
di Carlo Crovella
Ridendo e scherzando, da quel 24 gennaio 2003, sono già diciotto anni che viviamo senza l’Avvocato. Per noi torinesi di una certa fascia generazionale, l’Avvocato è stato innegabilmente un importante punto di riferimento: avrebbe compiuto 100 anni lo scorso 12 marzo 2021.
Mi ricordo che, sarà stato a metà dei ’90, giunse la notizia che Agnelli era stato operato in gran segreto a New York, non fu mai precisato il motivo, ma la sensazione era che si trattasse di quale problema oncologico. Io e il mio socio d’affari del momento, che aveva iniziato l’esperienza di lavoro con cinque anni alla Fiat Spa di Corso Marconi, ci guardammo un po’ spaesati. “Come potremmo fare senza l’Avvocato?” fu la domanda muta che ci scambiammo con lo sguardo. Noi non avevamo rapporti diretti con lui, con Gianni Agnelli intendo, né personali né professionali. Semplicemente l’Avvocato era il suggello di un generale quadro di vita (cittadina, lavorativa, culturale e sportiva): l’eventuale sua scomparsa si collegava immediatamente al timore dello sfaldamento di quel quadro.
Per questo Gianni Agnelli era un monarca senza corona. E’ stato il faro che legittimava la vita dell’intera comunità torinese. Perfino i suoi avversari, (politici, economici, sindacali e anche sportivi) venivano legittimati proprio grazie alla sua esistenza, al suo charme, alla sua eleganza di stile.
In una notte degli anni Settanta sui muri di Mirafiori comparve una lunga ripetizione di scritte Agnelli e Pirelli, fascisti gemelli. Già nel corso della giornata successiva il Comune, allora retto dalla prima giunta del PCI, quella di Diego Novelli, fece provvedere a cancellare le scritte. “All’Avvocato non si manca di rispetto” mi disse un acceso sindacalista della FIOM. “Lo voglio battere, ci mancherebbe, ma in modo cavalleresco, sul campo”.
Strana città, Torino. Culla del comunismo più autentico e profondo: qui Gramsci soggiornò proveniente dalla natia Sardegna, qui Mussolini non amava presentarsi perché temeva i fischi delle folle operaie nonostante si fosse in pieno Ventennio.
Io in prima persona davanti a Mirafiori ho assistito ai più accesi comizi di leader comunisti e sindacali, da Berlinguer a Lama, da Bertinotti a Landini. Proprio al Lingotto si è consumato il passaggio storico del PCI, quello che ha portato alla nascita del PD.
Eppure Torino è la città dell’Avvocato che ne personificava tutte le amine. Tutti si riconoscevano in lui, anche i suo acerrimi avversari. Quando iniziai a lavorare, a metà degli Ottanta, da consulente esterno collaboravo alla stesura di un piano di riorganizzazione delle linee produttive di Mirafiori. Fresco di laurea, con la mia giacchetta a scacchi e la cravattina esile e lunga lunga, cercavo di illustrare i più recenti principi manageriali imparati all’Università. Un capo reparto, praticamente un simil Avvocato in versione Cipputi (tuta sporca, manone enormi come tenaglie, viso arso da decenni di Sala Presse, rude come la pelle di un serpente), mi urlò: “Daine nen da manca ai soegn!”.
Fu la prima volta che mi imbattei in questa frase tipica del mondo metalmeccanico torinese: “Non dare spago ai sogni!”, cioè stai con i piedi per terra, sii pratico e pragmatico, semplice ed efficace. Usa poche parole, sapientemente dosate, concetti secchi e chiari. Leggende metropolitane non confermate raccontano che l’Avvocato si sia lasciato scappare quella frase in dialetto perfino nella ovattate riunioni del CdA della Fiat.
Non ci sarebbe da stupirsi: vincere ha sempre contraddistinto la Juventus, al cui DNA “giocar bene” non appartiene. La leziosità non è sabauda. Gli scudetti si vincono con alcune star (Sivori, Platini, Del Piero, per citarne alcune dei suoi decenni), ma dietro c’è sempre stata la Juventus operaia, quella dei mediani, dei gran faticatori di centrocampo, dei terzinacci rudi e scabri.
Quel Caporeparto e l’Avvocato, seppur opposti nei ruoli, erano due facce dello stesso mondo, della stessa filosofia di vita. L’ambiente era tendenzialmente maschile, perfino un po’ maschilista. Non per disprezzo verso le donne, che anzi sono sempre state molto amate dall’Avvocato, ma perché il clima era quello di un esercito, con spirito cameratesco, pur nel rispetto indiscutibile delle gerarchie.
Se il clima militare si faceva troppo severo, l’Avvocato sapeva svelenirlo con una delle sue battute, eleganti, soft, intessute di humor britannico (e sabaudo: esageruma nen, perfino nella “sabaudità”).
Clima militare, dunque. La Fiat, “quella” Fiat, era come una fortezza, con i suoi cerimoniali, i cambi di sentinelle, l’alza bandiera, il giusto distacco anche fra i generali. L’Avvocato ha condiviso decenni di lavoro (e non solo) con molti importanti collaboratori, da Cesare Romiti a Gianluigi Gabetti, ma fra di loro hanno sempre mantenuto il “lei”, come fossero ufficiali in servizio. D’altra parte Agnelli da giovane fu davvero ufficiale di Cavalleria. Al suo funerale, Cesare Romiti rimase in piedi per tutta la cerimonia, come da costume militare.
Negli anni d’oro del monarca Agnelli (dal ’66 fino a cavallo del 2000), la fortezza per eccellenza era rappresentata dalla due palazzine gemelle della Direzione Fiat di Corso Marconi, solo nell’ ultimo scorcio abbandonate per il ritorno al Lingotto. Due palazzine senza fronzoli, due parallelepipedi, semplici, funzionali, esplicite: se crescevi di grado, salivi di piano. Ai piani alti c’erano gli uffici più importanti, a quelli altissimi i comandanti in capo, con un’invidiabile viste su tutte le montagne che circondano Torino.
Ancora oggi, ogni mattina quando apro le finestre, mi trovo davanti le due palazzine a ricordarmi cosa sia la “torinesità”.
Si tratta ovviamente di una “certa” torinesità, già allora non uniformemente diffusa a tutti i residenti nella città e che oggi è via via sempre più sfumata e forse, chissà?, fra qualche tempo non si esisterà neppure più. Ma, in quei decenni di fine Novecento, quella torinesità era davvero marcata e chi li ha vissuti quotidianamente ne è stato in qualche modo condizionato.
Se la Fiat era una specie di fortezza, Torino, “quella” Torino, ne costituiva la caserma collaterale. In fondo Augusta Taurinorum, fondata qualche decennio avanti Cristo, era un accampamento militare romano: costituiva la base d’appoggio per le legioni dirette in Gallia (e, più generalmente, verso l’Europa Occidentale).
La pianta della città è ancora oggi “militaresca”: cardi e decumani (le strade verticali e orizzontali dell’antico accampamento romano) si incrociano ad angolo retto e creano una fitta rete, regolare e perfetta. Un foglio Excel ante litteram: ogni luogo corrisponde ad una coordinata e ogni coordinata corrisponde ad un luogo. Efficienza ed efficacia militare. Algida operatività: niente fronzoli, niente “giuocar bene”, qui si bada al sodo.
Di questa rete, che è anche immateriale oltre che fisica, l’Avvocato costituì il perno ideologico per lungo tempo. Nel finale del suo articolo, Paolo Guzzanti (che fu giornalista de La Stampa ai tempi di Agnelli) ricorda la domanda chiave di Agnelli: “Ma lei si diverte?”. Pensando all’Agnelli libertino e aristocratico, uno può immaginare che il suo concetto di divertimento fosse riferito a feste, sfrenate corse in auto, barche a vela lanciate sulle onde, case lussuose e, last but non least, donne maliarde e sensualissime da Mille e una notte.
C’era anche tutto questo (e molto altro) nella vita dell’Avvocato, ma la base ideologica si incentrava in una specie di religione laica di stampo calvinista, che vede nel lavoro l’architrave esistenziale. Lavoro, impegno, abnegazione, fatica. Torino è la città del rusco come si diceva allora. Rusché non significa soltanto lavorare, ma sgobbare, a testa china, come muli che portano pesanti cannoni sulla soma. C’è di più: sgobbare è trovare piacere in quello che si fa.
“Prima il dovere e poi il piacere” è stato il mantra che mi sono sentito ripetere in famiglia fin da quando ero in culla. Non a tutti è chiaro che il concetto implicito di questa frase è che il principale piacere della vita consiste nel fare per bene il proprio dovere. Il dovere nel lavoro, sicuramente, ma non solo.
Quando vado in montagna, pur in una semplice gita domenicale, la mia principale soddisfazione consiste nella sensazione di aver fatto tutto a puntino, dalla scelta dell’itinerario al rispetto dei tempi, dalla traccia azzeccata ai compagni idonei (e riportati a casa). Niente corse all’impazzata, niente passione bruciante, nessuna libertà sguinzagliata per pareti, pendii e creste. Invece: rigore, metodo, precisione, lucidità sono le caratteristiche anche di quello che per me è un hobby, importantissimo, ma pur sempre un “divertimento”.
Tutto ciò non è altro che l’applicazione, fin nei risvolti più marginali come una gita domenicale, di una visione pseudo-calvinista, di cui l’Avvocato a suo modo fu il punto di riferimento, almeno in quei decenni.
Torino, “quella” Torino non è più così, come non è più così “quella” Juventus o “quella” Ferrari. Però chi è ideologicamente nato in quel clima, se lo trova scritto nel DNA e non può cambiarlo.
Per questo mi manca l’Avvocato. Sto in piedi lo stesso, so ugualmente camminare sulle mie gambe, ma ogni mattina, quando apro la finestra del mio studio e vedo le vetrate del “suo” ufficio di Corso Marconi, è come se facessi l’alzabandiera: inizia la giornata, è ora di ruscare, non dare spago ai sogni, a sera farai il bilancio di quanto hai combinato.
Cerca di fare tanto e, soprattutto, di farlo bene.
https://www.liberoquotidiano.it/news/personaggi/28774701/vittorio-feltri-gianni-agnelli-scheletri-armandio-cio-nessuno-dice-avvocato.html
Ovviamente Torino non si riduce al solo confronto agnelliani-debenettiani. Ci sono infinite altre sfaccettature. Per es i comunisti torinesi sono molto particolari, parlo ovviamente di quelli storici, almeno fino ai primi 80. Duri e puri, giansenisti/luterani, nel Ventennio mettevano paura persino a Mussolini. E così via. I comunisti torinesi li ammiro, anche se sono sempre stati miei acerrimi avversari politici. Ho vissuto gli anni metà ’70 della prima giunta PCI, quella di Novelli, il cui figlio frequentava il mio stesso liceo e ci “linciavamo” in aspre assemblee in aula magna. Botte da orbi, m gran rispetto. Invece i debenetteddiani radical chic, nella loro ipocrisia falso comunista , li disprezzo irrimediabilmente, da sempre. Ma la caratteristica molto particolari di Torino sono le infiltrazioni trasversali,i finite e imprevedibili. Per esempio, restando al mondo della montagna, sono molto interessanti i rapporti fra i vari alpinisti di punta, che negli anni ’30 arrampicavano insieme pur essendo in conflitto ideologico. C’erano antiifasisti dichiarati e poi condannati (Mila), iscritti al partito per pragmatismo (Gervasutti e molto altri) e addirittura magistrati del regime (Alfonso Castelli) che reprimevano gli oppositori del regime. Castelli, nei mesi della guerra partigiana, chiese all’accademico De Rege, coinvolto nella resistenza e quindi “avversario” in città (De Rege pero” valicava il confine in montagna e teneva i rapporti con gli alleati di stana in Francia) di portargli notizie del fratello rinchiuso in un campo di prigionia in Francia. Lo stesso possiamo dire anche nei decenni di fine 900. Ho fatto gite con iscritti al PCI e stranamente l’atmosfera era molto cordiale, per nulla nervosa. Magari in settimana ci menavamo in piazza, ma la domenica facevamo gita insieme. Potere taumaturgico della montagna. Ora è tutto più una cosa omogenea, sono tutti uguali e hanno perso le loro caratteristiche individuali. Egoisticamente so o felice di aver vissuto i miei anni più dinamici (dai miei 15 ai miei 45-50) nei decenni di fine 900’iniio 2000. L’oggi dell’umanità mi disgusta, a Torino e altrove.
Discorsi già fatti. Ma sento il bisogno di ripetere perché non amo le semplificazioni e forse voglio difendere la mia esperienza, come tutti del resto. Agnelli e De Benedetti? Non ci sono stati solo questi due poli della borghesia torinese (alla quale non ho mai appartenuto per origini sociali e geografiche, anche se l’ho frequentata per una parte della mia vita). C’è stata una borghesia/ piccola borghesia torinese profondamente radicata nella Resistenza e nel movimento operaio, al quale ha fornito molti dirigenti sindacali e politici. Un gruppo sociale certamente non radical chic, giansenista/luterano, con il culto del lavoro e del dovere, il rifiuto di ogni frivolezza ed eccentricità “aristocratica” , alla quale furono sensibili invece gli Agnelli, nella loro fase calante, finita poi tragicamente in beghe pubbliche tra madre e figlio per spartirsi il malloppo nascosto all’estero. Oserei dire estremista, nella sua ricerca della purezza etica e politica, infatti ha sempre portato alla sconfitta il movimento operaio, quando ha avuto la leadership. Ma questo è il punto di vista di un emigrato “marrano”, convertito al riformismo di rito ambrosiano e padano. Aggiungo che Agnelli, quello vero, non il santino per usi devozionali, ebbe in gioventù quattro referenti, anime diverse che probabilmente convissero dentro di lui nel resto della sua brillante vita: la madre, un’aristocratica eccentrica e molto libera nei costumi e negli amori, il suo precettore Franco Antonicelli, intellettuale antifascita appartente a quella borghesia di cui sopra, e l’ex ragionier Valletta, poi laureato in economia, di origine brindisine e valtellinesi, massone di rito scozzese, condannato per collaborazionismo e poi recuperato nel dopoguerra e poi il nonno, il Senatore, ex proprietario terriero della provincia torinese, appassionato di meccanica. Gli uomini reali sono più complessi dei miti costruiti dalle narrazioni per il pubblico. Questo vale per tutti, anche per i miti della montagna, come dimostra proprio l’analisi di Gervasutti fatta da Crovella, che ho recentemente riletto con piacere su Meridiani Montagne meno “santino” di quella di Agnelli fatta qui ma non per questo meno ispiratrice, anzi.
scherzi a parte condivido al 100 per cento quello che dice crovella
l’avvocato è stato un simbolo e sotto questo aspetto ingiudicabile perché i simboli non si giudicano
si può certo giudicare l’uomo e le sue azioni ma non un simbolo,cioè si può giudicare l’uomo agnelli ma non il simbolo agnelli
de benedetti,esempio calzante,non è mai stato un simbolo,quello che sembrava per un momento poter ambire a simbolo è stato il tronchetto ma ha deluso ampiamente le aspettative
le spiegazioni sul perché alcuni diventano simboli o totem le lascio a psicologi sociologi e antropologi
Gli ultimi commenti sono fuori tema. L’obiettivo dei due articoli non è affatto celebrare Agnelli in quanto tale, né tanto meno sviscerare i suoi successi o insuccessi imprenditoriali, ma raccontare come mai l’Avvocato sia stato importante per ciascuno di noi due autori. Guzzanti ed io siamo diversissimi: lui romano del Roma, io torinesissimo, anzi sabaudo. Mi ha colpito che, pur nella nostra diversità, l’Avvocato abbia costituito un riferimento per entrambi. Le mie considerazioni valgono per me o al massimo per una certa fetta di torinesi, quelli appunto dalla mentalità sabauda (concetto che non c’entra nulla con censo ed estrazione nobiliare). Lo stesso per il valore che attribuiamo al lavoro. E’ ovvio che vi sono alcuni (forse molti) torinesi che lavorano per mantenersi e anche io, pur privilegiando un certo approccio, devo alla fin fine far quadrare i conti e portare a casa la pagnotta. Ma il dato che “altri torinesi” lavorino solo guardando alla necessità economica non esclude che ci siano quelli come noi che, in primis, cercano di fare le cose in un certo modo e solo dopo guardino al giusto compenso. Questo mondo a me piace molto e di questo mondo l’Avvocato è stato il totem rappresentativo, almeno per i decenni dai ’70 fino a cavallo del 2000. Le sue mosse imprenditoriali non incidono su queste valutazioni. Anzi vi assicuro che la FIAT avrebbe anche potuto cannarle tutte e il totem Avvocato sarebbe stato uguale per noi. Altra cosa: Torino e i torinesi non sono tutti così. “Non tutti i gusti sono alla mente” diciamo proprio noi torinesi. A Torino c’è un altro filone, quello dei salotti buoni simil-socialistoidi, molto radilcal-chic. Uno dei totem di quest’altro mondo torinese è (o almeno è stato) l’Ing. Carlo De Benedetti, persona che forse ha registrato maggiori successi imprenditoriali rispetto all’Avvocato, ma che non ha nessun impatto emotivo sul mondo cui io appartengo. Anzi questi salotti radical chic io li disprezzo, a partire dai loro totem e comprendendo anche quelli che, direttamente o indirettamente, ne fanno parte o vi si riconoscono. Ognuno ha i suoi punti di riferimento.
seduti sul cesso siamo tutti uguali
le differenze iniziano quando ci si alza
forse è per questo che alcuni fanno delle lunghe sedute,bisogno inconscio di uguaglianza
dell’avvocato non ho mai pensato né bene né male
era lì,un uomo un totem,un re non re
aaatttteeeennntttiiii
alzabandiera
poooopopopoooooooo
al lavoro,no due no due no due paaassssooooo bebemmmm passooo bebeeeemmmm caaaadenzaaa bem bem bem bem bem
che la terra gli sia lieve
Coincidenze astrali. Apparso sul Corriere di oggi il punto di vista di un altro torinese. https://www.corriere.it/sette/incontri/21_agosto_16/barbero-per-noi-piemontesi-lavoro-non-culto-necessita-che-implica-sudore-4803c0ae-f931-11eb-8531-faab9a3adcfb.shtml
Qualcuno si divertiva lavorando, anche se si annoiava un po’, perché era un’opzione, qualcun’altro un po’ meno, perché era una necessità. Altra storiella sentita nei cessi Fiat, rigorosamente alla turca, pre – Marchionne, tranne che per i dirigenti. Mattina d’inverno. Freddo cane. Due vecchi operai vanno in bicicletta a Mirafiori. Primo turno. Forte accento torinese. “Ma dimmi un po’, secondo te gli Agnelli scopano? “ dice il primo. “ Scopano, scopano” risponde Pautasso. “ Ma secondo te, quando scopano gli Agnelli godono anche? “ . “Sicuramente” risponde Pautasso. “Ma come fai a essere sicuro? Te l’ha detto il Partito” .”No, ma sono sicuro, perché altrimenti lo farebbero fare a noi”.
Sinceramente (oggi piove) ho trovato nei due articoli più un modo per parlare di sé da parte dei due autori che la volontà di descrivere davvero un personaggio che nel bene e nel male (forse più nel male, ma vabbè) ha sicuramente condizionato le sorti italiane del novecento.
Sempre “sinceramente” ho sempre visto nell’avvocato uno che se la spassava più che poteva e che doveva rispondere di oneri e onori ogni tanto e con fatica (altro che operosità), visto la sua posizione sociale.
Fa un po’ sorridere guardare all’ultimo piano della “palazzina” FIAT con emozione. Da noi in Liguria un certo Paolo Villaggio ci aveva creato l’ineffabile travet Fantozzi. I liguri non sono mai stati grandi lavoratori e in questo assomigliano di più dei torinesi all’avvocato, secondo me.
Credo che ci sia un po’ di confusione e di cose viste come piace vederle, un po’ da democristiani da prima repubblica. Ma ci sta.
Carlo Crovella,
per provare a farti combiare idea sul tuo amato Avvocato, ti ho mandato un testo, ad un indirizzo e mail solo immaginato…vediamo se funziona, o almeno se ti arriva
“Alle linee delle puntatrici [alla FIAT] gli operai si prendono l’esaurimento nervoso con le migliaia di punti che danno in un giorno e che risuonano dentro la testa come tanti colpi di martello. Un operaio non può impazzire facendo sempre questa operazione: bisogna scambiarsi le mansioni, fare diversi lavori e controllare tutto il ciclo di produzione. Tocca agli operai che ci lavorano dire come devono essere distribuite le mansioni e quanti uomini ci devono essere in una squadra per il numero di pezzi che si fanno in un giorno. Imporre la rotazione delle mansioni vuole anche dire impedire alla Fiat di tagliare continuamente i tempi, cosa che invece succede quando l’operaio è costretto a ripetere sempre come una macchina la stessa operazione”. [1969, Ciclo capitalistico e lotte operaie – FIAT]
Bravo Carlo: un saggio di scabra ed essenziale efficacia, che solo un torinese può capire e penetrare fin nelle sue pieghe più riposte.
Il lavoro rende liberi.
Quando si dice l’indotto.
F:I:A:T =acronimo di
(Aggiustala di nuovo Tonino) Fix it again Tony
e quasi sempre per una guarnizione che perde , un paraolio, un gommino..in compenso in ogni paesetto facili ricambi e meccanico che ci aveva la mano sui modelli popolari.