I monti del mare

Una sera della scorsa estate 2019, nella mia annuale settimana marina, gironzolavo pigramente per le viuzze di Spotorno. Per sfuggire alla folla, mi sono infilato in una libreria, andando a cercare il reparto “outdoor”.

Scrutavo, un po’ annoiato, i vari libri di arrampicata e MTB, quando il mio occhio è stato attirato da una piccola macchia di colore granata-porpora: si trattava della copertina di un libretto di formato contenuto, stretto nella morsa di volumi più ampi e possenti: I monti del mare di Gianni Pàstine e Michele Picco (Tamari Montagna Edizioni, 1999).

Mi sono avventato con la rapidità di un predatore: per quello che mi risulta, il libro è esaurito e probabilmente giaceva in quello scaffale da chissà quanto tempo.

La lettura mi ha appassionato, anche se esistono testi recenti molto più aggiornati. Ma Pàstine, che incrociai in un paio di occasioni istituzionali nei decenni scorsi, è sinonimo di quella impostazione a me gradita, sia in montagna che nel comparto della relativa editoria.

Baiarda, Diedro Gozzini

Il libro descrive itinerari di arrampicata e di escursionismo (anche in veste invernale) nell’Appennino ligure.

Non conosco i luoghi cari ai Genovesi: l’immagine che si ha della Liguria arrampicatoria è focalizzata sul Finalese, per carità a ragion veduta. Io aggiungerei il Muzzerone vicino a La Spezia. A questi si sono aggiunti nuovi centri di arrampicata di più recente scoperta.

Chi abita nella Pianura Padana sa poco, invece, delle altre località liguri, specie quelle di rinomanza storica. Certo non viene in mente, a chi risiede a nord dello spartiacque appenninico, di prendere scarpette e imbrago per andare ad arrampicare sulle alture sopra Genova. Meno che mai si partirebbe con piccozza e ramponi al seguito per infilarsi nei valloni invernali dell’Appennino ligure. Si sbaglia, lo so, ma è così. Ed è un peccato.

Alessandro Gogna, descrivendo le sue esperienze arrampicatorie degli anni giovanili, ha citato spesso centri di arrampicata nei dintorni di Genova, come La Baiarda e altro. Leggendo i suoi scritti mi rodevo dentro per non esserci mai stato di persona. La lettura approfondita del piccolo testo di Pàstine-Picco mi è risultata illuminante.

Allego alcuni spunti che mi hanno colpito e li colgo spiluzzicando fra mille informazioni utili e interessanti che offre questo testo. In particolare ho trovato conferma di una osservazione che tempo fa mi capitò di fare in Val d’Aosta. Mi aveva colpito una combriccola di liguri, alpinisti molto classici, che procedevano sempre con la stessa velocità di salita a prescindere dalle condizioni del momento. Un giorno li incontrammo su un’affilata cresta ghiacciata, nel pieno di una tormenta tipica dei 4000, con vento patagonico e mitragliata di pallini di ghiaccio su occhi e guance: imbacuccati, il cappuccio che oscurava il loro viso, procedevano sistematicamente, con il ritmo analogo a quello che avevamo visto in loro qualche giorno prima su un’altra cresta, questa volta arroventata dal sole di una splendida giornata estiva.

Alla sera in rifugio, segnalai la mia osservazione al socio di cordata. Lui, con il suo ineffabile cinismo, mi rispose: “Dipende dal braccino corto. I liguri non sprecano mai nulla, neppure le energie. L’altro giorno, quando faceva bello non hanno accelerato e così hanno conservato una riserva di energia per le giornate di tormenta, mantenendo inalterato il ritmo per tutta la durata della traversata”

In questo libro, da qualche parte, si cita la capacità degli alpinisti liguri di non sbandare neppure di una virgola anche nelle condizioni meteo più sfavorevoli. Sembra a prima vista un paradosso: dici Liguria e si ha l’immagine del mare, del sole, del caldo, del profumo di pesto e di orata al forno con patate e olive. Invece negli alpinisti liguri ho notato una perseveranza coriacea molto rara altrove. Non deve essere del tutto estranea l’abitudine a percorrere le creste appenniniche, spesso spazzolate dal temibile vento invernale.
Sarà che mare e monti si sposano bene ed entrambi abituano a stringere i denti (Carlo Crovella).

Alcuni capitoli de I monti del mare
di Gianni Pàstine e Michele Picco

Introduzione
Geograficamente l’Appennino rappresenta la più vasta estensione montuosa d’Italia, andando dal Colle di Cadibona sino alla Calabria. Di tutto questo naturalmente l’Appennino Ligure non rappresenta che una piccola parte: piccola e invero relativamente poco conosciuta.

Al confronto dell’imponenza delle Alpi Apuane, del massiccio del Gran Sasso, del vicino Appennino Tosco Emiliano, l’Appennino Ligure appare un po’ come la Cenerentola di turno, buona al massimo per passeggiate autunnali o per ripiego quando non si ha tempo per andare in Alpi. In effetti l’attrattiva che quest’ultime hanno e il preconcetto che le montagne vere incomincino solo con una certa quota, portano una vasta fetta di pubblico a snobbare l’Appennino Ligure, misconoscendone i pregi e la bellezza. Parlare poi di alpinismo in Appennino sembra già un contrasto, ma vi assicuriamo che non è affatto né un’idea peregrina né balzana. Innanzi tutto avete a disposizione uno dei più vasti campionari di rocce in modo che i vostri polpastrelli possano trovare ciò che più gli aggrada, avete poi la possibilità, invero rara da altre parti, di praticare l’arrampicata anche d’inverno, senza esporsi a condizioni climatiche proibitive, a bivacchi, ecc. Si tratta comunque di salite di tutto rispetto, che in qualche caso, pur in modo discontinuo, arrivano ad oltre 300 m di lunghezza.

La possibilità di salite a disposizione del pubblico è estremamente varia, in modo da accontentare sia l’arrampicatore più esigente, sia l’alpinista alle prime armi, come pure, e sono tanti, quelli che cercano quella dimensione intermedia tra l’escursionismo e l’alpinismo.

Anzi, da un certo punto di vista la conformazione orografica dell’Appennino fa sì che gli itinerari facili o di media difficoltà siano la maggioranza, rendendo questa area particolarmente appropriata alla pratica dell’apprendimento dell’alpinismo.

Anche l’inverno sa riservare gradite sorprese poiché la neve si assesta presto e bene ed esistono itinerari che, a detta dei più esperti, sono paragonabili addirittura ai gully scozzesi: naturalmente ci sono anche cose più facili, canali ghiacciati su cui muovere i primi passi in piolet traction e vasti pendii innevati dove divertirsi anche con gli sci. Per quanto riguarda il fondoescursionismo e lo scialpinismo facile si trovano itinerari davvero unici, in un ambiente da grande nord, immersi tra i faggi o a cavallo di ampie dorsali, con possibilità di effettuare “Grand Course” anche sulle 10 ore. Per concludere, non pretendiamo di dire che l’Appennino abbia un fascino e un interesse maggiore dei luoghi “sacri” come le Dolomiti o il Bianco o il Rosa, sarebbe un confronto impari e inadeguato, ma vorremmo mostrarvi che talvolta anche dietro casa si nascondono piccole gemme, non per questo meno preziose: la nostra speranza è di esserci riusciti.

Storia alpinistica
Benché profondamente affezionati alle montagne della nostra regione, occorre dire che la loro importanza nella storia generale dell’alpinismo è relativamente modesta, pertanto per particolari più dettagliati e aneddoti rimandiamo alle prefazioni dei vari itinerari (si riferisce ovviamente all’opera di cui questo brano fa parte, citata sopra, NdR).

La prima data importante è il 1879, anno in cui veniva fondata a Genova la Sezione Ligure del CAI, la prima di tutta la Liguria, nome che ha conservato tuttora, ad onta di chi ritiene tale nome modificabile, poiché esistono attualmente altre sezioni; è da Genova che parte la scoperta delle montagne liguri, che vengono dettagliatamente descritte la prima volta da Giovanni Dellepiane, attivo soprattutto negli ultimi decenni del secolo XIX, un personaggio dalle cognizioni talmente capillari da meritare il soprannome di “Padreterno”. Molto importante, soprattutto dal punto di vista naturalistico, è anche l’opera di Gaetano Rovereto, geologo e profondo conoscitore della morfologia delle nostre valli. Storicamente però la prima impresa alpinistica di spicco è di Emilio Questa nel 1904. Partito a piedi da Genova, percorse l’affilato spigolo SSE della Biurca, superando, con gli scarponi chiodati e nessuna protezione, il tratto chiave, costituito da una pancia strapiombante su roccia con appigli infidi, di difficoltà di V grado: poco dopo Bartolomeo Figari, suo compagno nell’impresa, effettuava una variante a sinistra dello spigolo con un’esposta traversata di IV grado, mentre di poco appresso è la salita del Torrione Est al Castello della Pietra nel 1906. Per vedere però qualche salita di spicco bisogna attendere gli anni Venti: non che mancassero gli uomini adatti, tutt’altro, ma la loro attività principale si svolgeva sulle Marittime e sulle Apuane, non esclusa qualche ascensione in Alpi Liguri. In Appennino invece, Gino Pisoni e Vincenzo Galletto aprono una via in camino di IV grado al Castello della Pietra e tra Voltri e Arenzano incominciano ad essere salite tutta una serie di creste e contrafforti. Si registra purtroppo anche una prima disgrazia, infatti Eolo Tuschetti cade nel 1928 dalle rocce del Monte Argentea. Con gli anni Quaranta la presenza alpinistica si intensifica ed alcuni luoghi come la Baiarda incominciano ad assumere notorietà; spiccavano allora i nomi dei genovesi Attilio Sabbadini e Mario Gozzini, oltre ad altri dediti ad una minuziosa esplorazione alpinistica locale, a tal punto che anche durante la seconda guerra mondiale fu possibile una discreta attività sui monti dell’arenzanese e in Baiarda. La ripresa post bellica vede subito il notevole exploit di Renato Avanzini che, al Castello della Pietra, supera lo spigolo est, via tutt’altro che facile e che ancora negli anni ottanta Alessandro Gogna darà di V e V+. Il ritorno all’alpinismo è purtroppo funestato da incidenti mortali: Alfredo Talarico e Leonardo Tanda cadono nel 1946 al Monte Pennone. Gloria Paganetto ed Ervedo Zanotti precipitano nel 1947 dalle rocce della Baiarda durante un corso di roccia (sic!) e nel 1950 Germano Querzola cade sull’Argentea. Veniva così steso un immeritato velo di sinistra fama su quelle strutture rocciose, quando la colpa era ancora una volta della tecnica approssimativa e delle attrezzature “autarchiche” dei tempi, oltre che di una filosofia del rischio ancora troppo post bellica. Superato questo momento, gli anni Cinquanta segnano un’espansione dell’alpinismo: Italo Muzio di Sestri Levante saliva il Monte Treggin e la cresta del Birillo al Groppo Rosso e l’alpinismo tornava a rifiorire con la nascita a Genova di prestigiose scuole che facevano delle montagne liguri il loro primo terreno di esercitazione. I Chiavaresi guidati da Ottavio Bastrenta, valdostano temporaneamente residente in Liguria, e soprattutto da Franco Chiarella, scoprivano le innumerevoli possibilità dell’Appennino orientale. Vengono così salite la Roccagrande e il Groppo Rosso, la Rocca del Prete e una serie di canaloni innevati che diventeranno delle classiche: sempre in zona, ma sul mare, vengono aperti duri itinerari con pochissimi mezzi sulle lisce placche di Riva Trigoso. Nel 1962 Euro Montagna, elemento di punta del prestigioso alpinismo della delegazione di Bolzaneto, autore di numerose salite di tutto rispetto in Alpi ed Apuane, tali da meritargli l’ingresso nel prestigioso club degli accademici, consegnava alle stampe una pubblicazione specificamente alpinistica con la Guida alle Palestre di Arrampicamento Genovesi. Con l’inizio degli anni Settanta appaiono all’orizzonte le rocce del finalese. La scoperta di questo luogo, come era inevitabile, portò all’abbandono di moltissimi siti, non più in grado di offrire itinerari di un certo tipo e soprattutto con una roccia così particolare, ma non per questo sono mancati gli ultimi affezionati dell’Appennino. Tra questi, ancora attivi attualmente, i piacentini capeggiati da Lucio Calderone, che sulle rocce della Rocca del Prete hanno aperto numerosi itinerari, di cui alcuni di notevolissimo impegno ed hanno dato inizio alla pratica del cascatismo in Appennino.

L’arrampicata sportiva di elevata difficoltà e di più tiri si è invece sviluppata nello spezzino, sulle rocce del Muzzerone, altro “santuario dell’arrampicata. Utilizzate dapprima dagli incursori della marina, sono state valorizzate in seguito da Bruno Manicardi, Roberto Vigiani e soprattutto da Davide Battistella. Le piccole montagne della Liguria avevano formato più generazioni di alpinisti ed alcuni fra loro avrebbero anche assunto notorietà internazionale: molti avrebbero portato sulle Alpi e non solo su di esse l’impronta degli abitanti di una terra tale che da sempre li ha aiutati a vedersela con le bizzarrie della natura. Una nota guida alpina, di casa sulle più grandi vie classiche delle Alpi occidentali, non riusciva a capire come mai i suoi clienti liguri fossero di gran lunga i meglio abituati ai rigori del clima, tutto questo finché un giorno, con alcuni di quei clienti, non percorse un crinale appenninico battuto dal vento…

Baiarda
È sicuramente la più imponente struttura rocciosa di tutto l’Appennino Ligure occidentale, situata immediatamente a sud della Punta Martin e alle spalle della costa ligure fra Prà e Voltri. La sua sommità raggiunge un’altitudine di 723 metri. Degrada più dolcemente sul versante SE, mentre sul versante NO si allunga per 400 m, precipitando con creste e pareti sul Rio Baiardetta per un dislivello di 300 m ed è costituita da roccia serpentinosa di tipo herzolitico, abbastanza rugosa. Al di là degli aspetti puramente fisici, la Baiarda è un posto sicuramente affascinante; di aspetto severo, selvaggia e alpina, con molte vie esposte e spesso battuta da forti venti. Anche le sue creste più facili sanno regalare sensazioni da montagna vera, con passaggi divertenti e mai banali in cui, come diceva Detassis “si cerca il facile nel difficile”. Già incontestabilmente la più importante “palestra” del genovesato, è decaduta nelle considerazioni degli arrampicatori che le preferiscono il più difficile, comodo, solido, e meglio protetto calcare finalese; tuttavia almeno il fascino ambientale non dovrebbe lasciare indifferente l’alpinista che troverà qui qualcosa di più simile alla montagna, con svariati itinerari, oltre a quelli citati, di difficoltà entro il V.

Sulla via Classica della Baiarda

Storia della Baiarda
La frequentazione alpinistica della Baiarda inizia durante il periodo tra le due guerre: Gozzini, supera il gran diedro omonimo, Gambino la parte inferiore dei diedri. A conflitto in corso fu frequentata da un nutrito numero di alpinisti che, per sottrarsi alle imposizioni autoritarie e liberticide del regime fascista, che aveva trasformato il CAI in “Centro Alpinistico Italiano”, si rifugiarono sotto l’ala protettrice della Giovane Montagna, allora garantita dalla Chiesa Cattolica, nella fattispecie rappresentata a Genova dal cardinale Dalmazio Minoretti e dai suoi allievi, tra cui il futuro arcivescovo cardinale Siri. Umberto Saukkonnen, Gerolamo Piccaluga, Sandro Gastone Girtanner, Beppe Ramagli, Navone, Bodda e altri erano i più attivi. Si arrampicò anche nella drammatica estate del 1944, quando la Baiarda era ormai l’ultima montagna dove potersi recare. Il dopoguerra fu subito funestato da un grave incidente occorso durante un’uscita di un corso di alpinismo organizzato, congiuntamente, dalla sezione ligure del CAI e dalla Giovane Montagna. Vanno chiamate in causa povertà di mezzi e gravi carenze tecniche, ma anche la filosofia del rischio: Zanotti, segretario della Ligure, obbligò Rossi, timoroso e riluttante, a superare quel passaggio centrale dei diedri, caratterizzato da un becco sporgente; naturalmente senza ombra di chiodo (guai!). Navone, assai più saggio e prudente, si rammaricò di non essere stato presente: “altrimenti il chiodo l’avrei piantato io, come sempre!”. Italo Rossi cadde trascinando con sé i compagni, ovviamente non autoassicurati, ma fu salvato dalla rottura della corda; Ervedo Zanotti e Gloria Paganetto invece precipitarono fino al torrente. Poco dopo cadde Picasso a Punta Martin, dove il 10 dicembre del 1922 era scomparso anche Francesco Savignone. Bisognò attendere gli anni ’50, con i bolzanetesi (Montagna, Giorgio Noli, Nicola Campora, Salvatore Gargioni), i sampierdarenesi (Sergio Rinaldi e Claudio Goretti), gli studenti universitari della Ligure, la SUCAI (Giancarlo Bussetti, Enrico Cavalieri, Carlo Sabbadini, Gianni Pastine) e la Giovane Montagna (Renato Montaldo e Mino Barberis), per riportare in auge la Baiarda; i primi soprattutto aprirono diversi itinerari difficili. Poco dopo, guidati dal sampierdarenese Avanzini, comparvero i forti Piergiorgio Ravaioni, Piero Villaggio e Guido Rossa, mentre la scuola di alpinismo della Ligure, diretta da Vittorio Pescia, ed il corso di Bolzaneto vi svolgevano regolari esercitazioni. Purtroppo, sul finire di una di queste, un banale quanto tragico incidente provocò una vittima. Non fu però questo il motivo del progressivo abbandono della Baiarda. Con la fine degli anni ‘70 e i primi anni ’80, il solido, anche se più difficile calcare finalese attraeva maggiormente. L’ambiente montano e alpestre della Baiarda continuò comunque a esercitare il suo fascino: facciamo alcuni nomi, anche se ne dimentichiamo troppi: Sergio Casaleggio e Ubaldo Lemucchi della Ligure. Musso, D’Angelo, Ferrando, De Cesare e Dondero della ULE di Sestri Ponente e del relativo soccorso alpino. De Cesare redige una dettagliata pubblicazione sulla zona, e cura inoltre, assieme al succitato soccorso, una più che meritoria opera di sistemazione di attrezzature fisse che non ledono l’ambiente più di tanto, ma che possono contribuire a salvare qualche vita in più. Oggi si torna in Baiarda: la frequenza è più selezionata ma anche più consapevole, moralmente e tecnicamente. Non si è seminato invano: ci si lasci solo continuare su questa strada.

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I monti del mare ultima modifica: 2020-09-09T05:12:47+02:00 da GognaBlog

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30 pensieri su “I monti del mare”

  1. Di fatti parlo di “civiltà”, cioè insieme di elementi culturali. Anche l’approccio all’andar in montagna risente di fattori come questo (oltre che di tutto un immenso insieme di elementi strettamente individuali, come il carattere, l’estrazione socio-culturale, la propensione atletica ecc). Ho numerose conoscenze umane in varie zone italiane, specie al nord. I lombardi sono “proiettati” verso il domani fino al limite dell’essere “smargiassi” e hanno una visione dell’alpinismo che oscilla fra l’intraprendente e il temerario.  I piemontardi come me sono invece prudenti fino al limite del tirarsi indietro. Due approccio diametralmente opposti. Naturalmente faccio di tutt’un’erba un fascio (come si usa dire) e quindi ci sono le debite eccezioni, figlie anche di infinite mescolanze avvenute nel corso dei secoli. Da che mi sono interessato alle origini culturali degli alpinisti (parlo di alpinisti dilettanti della domenica, quelli  – come me – che praticano per sport e non di professionisti al top), ho iniziato a notare le correlazioni fra modo di andare in montagna e terra di origine. (questa intesa come insieme di elementi culturali). E’ attività molto interessante.

  2. So che non c’è malizia. Però attenzione alle parole. Le razze non esistono. Esiste una sola razza: la razza umana. Esistono culture diverse (valori, regole e costumi) che  caratterizzano raggruppamenti sociali diversi, molte volte costituiti da persone con origini diverse: tipico il caso delle aree metropolitane o anche le vallate di confine e di passaggio. Anzi oggi più del passato, visto l’ampio rimescolamento delle carte, una cultura coincide sempre meno con un gruppo di persone con un comune patrimonio genetico.

  3. Ma si, le razze altro non sono che un calderone di altre razze. Le peggiori sono quelle pure che sono anche le più deboli.
    Aggiungo solamente che in Liguria, a Genova in particolare, c’è una componente saracena (quindi araba) che ha un effetto dirompente per quanto riguarda ironia e parsimonia. Dalle parti del Col di Nava, nell’imperiese, dove si fa lo squisito vino rosso Ormeasco di Pornassio, si era rifugiata una comunità saracena inseguita da dei liguri guerrieri che ancora esiste. Infatti il dialetto che parlano è incomprensibile a qualsiasi ligure costiero. Avendo degli amici in quelle zone, posso affermare che questi liguri-saraceni contengono alla massima potenza le caratteristiche di essenzialità di cui stiamo discutendo negli ultimi commenti.

  4. Quando, anni ed anni fa, tornavo da Finale (sia in versione arampicatoria che in versione marino-familiare), per evitare il rischio coda in autostrada si prendeva per i monti al fine di sbucare in pianura a Ceva. Facevamo tappa in vari paesini incuneati fra le montagna ma ancora con aria di Liguria. I tipi delle osterie erano proprio uguali ai muntagnin valsusini doc: talmente schivi che sembrava avessero fastidio se ti fermavi a cenare da loro. Uguali ai piemontardi come me, laddove invece i padani di pianura sono in prevalenza estroversi, ospitali, intraprendenti. Confrontandomi con il citato storico Barbero, questo essere chiusi pare proprio un retaggio della matrice celtica: civiltà pre romana, guerriera, rude, di poche parole, nettamente meno ricercata della civiltà greco-romana. Costretti a vivere nel pericolo e nella continua incertezza del domani, si rizzano difese e si accantonando risorse per eventuali emergenze e imprevisti. Curioso che le testate delle valli dalla Liguris alle Svizzera abbiamo questo denominatore comune. La parsimonia, come già detto è non solo finanziaria, ma a 360 gradi: di affetti, di disponibilità, di curiosità verso gli altri, anche di voglia di viaggiare. Il bugianen dei torinesi potrebbe essere uno dei corollari della nostra origine.

  5. Nel senso che la cultura veneziana prima e austroungarica dopo (molto diverse dalle culture dominanti ad ovest) hanno profondamente influenzato quei territori in epoca moderna. Basterebbe contare il numero di leoni di Venezia che ci sono a Brescia. 

  6. Per Crovella. Forse per spiegare certe differenze tra le culture alpine est – centro – ovest non è necessario andare così lontani nel tempo. Per le  rivali ma sorelle vallate di Bergamo & Brescia basterebbe forse citare Repubblica di Venezia e Impero austroungarico. 

  7. Ci avevo provato anche io con gli scarponi ma il mio (piccolissimo) giardino è completamente piatto e d’estate molto assolato, per cui scarponi cuociono piedi. Ottime invece le Mariacher, saranno felici alla Sportiva di sapere che possono riciclare i fondi di magazzino per il giardinaggio. Riprendendo ragionamenti di Pasini su bresciani ecc, cito un mio illustre concittadino, tal prof. Barbero, storico di una certa fama (attualmente anche in TV), il quale sostiene che gli italiani del nord hanno una radice celtica, su cui si è posata l’impronta romana e poi quella longobarda. Si vede che nelle testate delle nostre valli più occidentali, dal mare su su fin verso l’attuale Svizzera, si son visti pochi soldati romani e quasi nessun longobardo, in quanto son rimasti in pianura: si è quindi conservata una forte matrice celtica, lo si vede in certe tradizioni come, ad esempio, quella (pagana) dei fuochi della notte del solstizio d’estate. Aggiungo io che il carattere longobardo, evidentemente molto marcato in Lombardia, porta con sé un certo ottimismo di fondo che si traduce nella forte propensione all’intraprendere. Invece la dominante della radice celtica, come nelle testate delle nostre valli, comporta una visione più pessimistica, più prudente, più orientata a “risparmiare oggi per fronteggiare eventuali difficoltà domani”. I piemontardi (piemontesi montagnardi) sono quindi schivi,   diffidenti, si rintanato,”risparmiano” (nel senso che accumulano), laddove i longobardi sono invece proiettati verso il domani e quindi investono per far fruttare le risorse. La mia radice è marcatamente piemontarda e per me la parsimonia (non solo finanziaria in senso stretto, ma a tutto tondo) è un valore esistenziale, per cui, quando la “vedo” in altri, mi complimento con loro.

  8. Crovella, sulla parsimonia ti vengo socio al 100%. Tanto che delle scarpe da giardinaggio da 200€ neanche le avrei guardate. Unica variante è  che avrei usato un vecchio paio di scarponi invece delle Mariacher (gialle viola erano loro) che essendo a suola liscia possono scivolare. Sarà che il mio giardino è in salita. Ciao

  9. I mandrogni non c’entrano nulla. Semmai si parla di “piemontardi” che sono i piemontesi montagnardi, appunto valli occidentali come ha ben focalizzato Pasini. Sono la mia radice. In ogni caso il discorso generale riguarda la propensione a risparmiare, cioe’ mettere da parte per utilizzare quando necessario. Ognuno ha le sue radici. Io ho queste (non per volontà, ma per casualita’) e devo dire che mi piacciono molto. In ogni caso stupisce questa irritazione: elogiando la parsimonia (che condivido), ho fatto un esplicito complimento ai liguri, non uno sberleffo. (Per la cronaca, fra gli storici, c’e’ una accertata linea di pensiero secondo la quale i taurini, cioè il popolo che si stanzio’ più o meno dove si trova Torino (che infatti da loro prese il nome)  sono di origine ligure. Si tratta di popoli a matrice è pre romana, quindi celtica). Buon wrekend a tutti@

  10. Visto che Conte ha scritto una canzone su come i bassopiemontesi vedono i genovesi, io mi sono permesso, da genovese, di fare lo stesso con i mandrögni, che so benissimo essere diversi dai torinesi. I cuneesi non intesi come cioccolatini, si sono fatti una pessima fama da quando hanno tenuto accesa l’illuminazione pubblica di giorno (spreco e inutilità,  cose per un genovese incomprensibili) per farla vedere al Re nei primi del ‘900.

  11. “Eppur parenti siamo in po’Di quella gente che c’è lìChe come noi è forse un po’ selvatica” ahi ahi Marcello adesso Crovella ti sgrida. Hai messo insieme Alessandria con il Piemonte pccidentale. I gamberoni rossi sono il sogno magico della terra di Vittorio Alfieri ( Ei pera, mitico pezzo del notaio di Asti) del dolcetto, del bue grasso di Carru e dei cuneesi, intesi come i dolci pieni di liquore. Buon week-end. 

  12. Tutto si può riassumere nel concetto: ogni cosa ha il suo prezzo.
    Non concordo sulle presunte origini celtiche dei liguri e le supposte comunanze tra questi ultimi e i piemontesi d’oltremandronia. Il “mandrögnu” è l’abitante della fascia che comprende Tortona-Alessandria-Noviligure-Asti. Per intenderci: la canzone di Paolo Conte “Genova per noi” descrive come i mondrögni vedono i genovesi e la loro città. Il mandrögnu dice “belìn” pur essendo piemontese.

  13. Per Crovella. Le culture alpine non sono tutte uguali. Quella che tu descrivi è la cultura delle valli del Piemonte occidentale. Il vantaggio di essere un ibrido fa vedere cose diverse. Io sono per metà ossolano e per metà bresciano. La cultura delle valli bresciane è fondata sull’”intraprendere” non sul resistere. Come ha colto Cominetti parlando delle piste di plastica e del Covid è anche in parte la cultura orobica. Sicuramente nelle valli del Piemonte non avrebbero mai sviluppato il business dell’acciaio che richiede capitali e visione globale. Un mio amico camuno, piccolo imprenditore di successo, dice che se non hai almeno due milioni di debito con le banche non hai stimoli sufficienti per darti da fare alla mattina quando ti alzi. Per qualcuno è il debito e non il risparmio che muove il mondo e le vite individuali. Ognuno si ispira a fonti diverse in funzione dei suoi bisogni e della sua storia. Noi ibridi siamo spesso dilaniati dal dubbio di decidere da che parte stare. Una pena ma, come sempre, anche un piccolo vantaggio.

  14. Conservo sempre il mio materiale da montagna anche quando non lo utilizzo più sul terreno. Ho una cantina piena di roba: può tornare sempre utile in futuro per altre finalità. In campagna abbiamo un piccolo giardino da curare, poca roba, sono più i fastidi che dà in ogni stagione dell’anno del piacere di vedere l’erba tagliata fresca, ma tant’è… “ruscare” fa bene all’anima e al fisico. Tempo fa sono andato in un negozio di roba da giardinaggio per visionare le scarpe specifiche: costano fra i 100 e i 200 euro (le più economiche!). Allora sono andato nella mia cantina: ho prelevato un vecchio paio di scarpette d’arrampicata (La Sportiva, viola e gialle, ricordate?) e le uso nel giardino, fnel fango o fra le foglie secche, a seconda del clima. I 200 euro risparmiati sono serviti per acquistare libri, non solo di montagna. Con il riutilizzo delle scarpette, messe da parte anni fa, oggi ho nutrito il corpo (lavori in giardino) e la mente (libri). Lo stesso dicasi per le energie: saperle risparmiare anche nelle giornate in cui tutto gira giusto e si potrebbe “spingere”, consente di avere un magazzino di energie cui attingere nelle giornate difficili. Vale per le energie fisiche (come nell’aneddoto raccontato), ma anche per quelle psicologiche ed emotive da impiegare nella vita di tutti i giorni. La capacità di resistere anche domani dipende dal risparmio di oggi. L’ho imparato anche dai contadini e dai montanari delle nostre valli (come arguisce bene Pasini), quando lavorano nei campi o badano alle bestie (da noi così si chiamano mucche, pecore ecc): sempre vestiti allo stesso modo, indipendentemente dalla temperatura, sempre gli stessi gesti, calcolati e misurati, sempre lo stesso ritmo di lavoro. Non li vedi mai sudare, così come non li vedi mai rabbrividire per il freddo. Fronteggiano quest’ultimo con i “risparmi” accumulati dei gironi caldi, quando rallentano il ritmo e non sudano mai. Osservare queste cose dei montanari, assimilarle, allinearsi al modo naturale di vivere per me non ha prezzo, è il vero insegnamento che io traggo dell’andar in montagna.

  15. Per me il concetto interessante sviluppato da Daverio non è tanto l’idea del mix brutto/ bello (ovvio) ma quello della specificità della costa ligure “una fragile lingua di terra schiacciata tra la ferrovia e l’autostrada che rappresenta una sola formazione urbanistica che si articola lungo il litorale alternando punti di eccellenza ad altri di assoluta mestizia.” Secondo lui  questa sorta di unica lunga dimensione urbana è cresciuta in modo anarchico e senza un pensiero e una visione generale a livello regionale che ne definisse le linee di sviluppo. Come una sorta di unica città costiera nella quale ogni quartiere è andato per conto suo. Anche l’uso della parola “mestizia” mi è piaciuto molto: coglie bene lo spirito di alcuni luoghi, non l’arroganza aggressiva e pacchiana di altri ambienti come la Versilia attuale dei russi ma proprio la “ mestizia”. In questo coglie bene Crovella il collegamento con lo spirito di alcune valli del Piemonte occidentale. È il prezzo pagato a un’educazione basata sul “ “trattenere” , sul “conservare”, sul “non apparire” , contrapposto al vitalismo ad esempio della costiera romagnola e del suo popolo.,Capisco che chi è spinto da una forza vitale prorompente in gioventù senta il bisogno di fuggire e di “andare per mare” metaforicamente o concretamemte, come hanno fatto generazioni di marinai liguri.,Salvo poi apprezzare, all’avvicinarsi della sera, la rassicurante discrezione e immobilità di un vecchio molo, di una vecchia osteria o il fascino di uno di quei negozi di ferramenta che esistono solo in Liguria, persino a Santa Margherita,  al servizio del tapullo, dove le viti ti vengono vendute, contate, avvolte in un pezzo di carta di giornale. 

  16. Be’, non doveva ricordarcelo una mante sopraffina come quella di Daverio, che la Liguria è costellata di bellezze e brutture, perché le può vedere chiunque. Io dalla Liguria sono fuggito tanti anni fa anche perché non sopportavo i miei conterranei, mentre ora li apprezzo di più.  Poi la storia del braccino corto qualcuno dovrà spiegarmela.

  17. si sicuramente Daverio da cultore dell’arte quale era, è stato  affascinato dalla bellezza  che si pò  realizzare con il marmo.
    Magari non ha mai pensato che il marmo poteva servire anche a fare del semplice carbonato di calcio, e delle montagne così belle trasformate in polvere….

  18. Caro Benassi, non sapevo di questa posizione di Daverio. Forse è stato abbacinato dalle bellezze create col vostro marmo. Chissà? Nessuno purtroppo è comunque perfetto. Tieni conto che io sono ossolano di origine e ho visto il prezzo pagato per costruire con il marmo della mia valle il Duomo di Milano. Mannaggia, gli dei non ti regalano mai niente, c’è sempre un prezzo da pagare. Riusciremo mai a rompere questo incantesimo?

  19. soffro a vedere alcune trasandatezze.

    concordo con Pasini di trasandatezze ne ho viste parecchie, diverse senza senso, se non il braccino corto. Non è che per fare un pò di bellezza bisogna  essere faraonici.
    Quanto a Daverio persona di enorme cultura e grande capacità di spiegare con semplicità l’arte, mi è dispiaciuto assai sentirlo parlar bene della cave di marmo.

  20. Purtroppo spesso le virtu’ , come le ciliege, si trascinano accanto una sorella meno luminosa. Come mette in luce Daverio tutto l’ambiente urbano costiere ligure è un alternarsi di gemme e di brutture, frutto di trasandatezza e miopia. È stato coniato appositamente anche il termine “rapallizazione”. Si è investito poco anche sulla cura dell’ambiente interno con tutte le conseguenze disastrose che conosciamo. Di solito si attribuisce tutto questo alle classi dirigenti ma le classi dirigenti sono espressione delle culture locali che le scelgono votandole per anni e anni. Le cose sono sempre più complesse e intrecciate dei nostri desideri di pulizia e chiarezza. Io amo molto la Liguria che frequento da una vita e alcune volte soffro a vedere alcune trasandatezze. Un piccolo esempio sciocco ma non troppo. Non sopporto quando magari in posti bellissimi dell’interno vedo usare vecchie reti metalliche da letto sfondate e arrugginite per costruire recinzioni quando con poche decino di euro al Brico si potrebbe comprare del cavo verde utile allo scopo. L’arte del “tapullo” è sicuramente un segno di morigeratezza ma a volte anche di mentalità chiusa e poco portata al cambiamento. Dopo di che apro le finestre e vedo il Tigullio e mi passa. 

  21. Intendevo proprio elogiare l’aspetto positivo della parsimonia, finanziaria e soprattutto non finanziaria, elemento che tutti dovremmo emulare e che accomuna ai liguri anche certi “piemontardi”: sarà retaggio dell’antica comune radice celtica?

  22. la lettura dell’esilarante nonché interessantissimo “Genovesi in Montagna, Cronache di mezzo secolo di alpinismo” a firma di Gianni Pastine

    ce l’ho !!

  23. Il compianto Daverio parlava degli aspetti critici della parsimonia comunicativa ligure. Ed era un grande ammiratore del patrimonio spesso nascosto racchiuso in questa terra. Segnalo questa bella intervista ripubblicata dal Secolo XIX per onorare la sua scomparsa. Contiene considerazioni molto acute, formulate con il suo stile elegante e leggero. Ho scoperto anche due o tre cose su Genova che non conoscevano neppure i miei amici indigeni. Riposa in pace, simpatico e brillante Philippe. A volte se ne vanno troppo presto i migliori e rimangono i cialtroni.
    https://www.ilsecoloxix.it/cultura-e-spettacoli/2020/09/02/news/cosi-philippe-daverio-raccontava-la-liguria-terra-anarchica-serve-la-chirurgia-estetica-1.39258767

  24. I Pàstine (e sua moglie Margherita Solari), Montagna, Pescia, Avanzini che cito perché li ho conosciuti e ci ho arrampicato assieme, fanno parte di quella schiatta di alpinisti d’altri tempi che nella loro attività dilettantistica hanno saputo introdurre elementi di storia e cultura che ne hanno fatto dei veri pilastri di completezza. Non era raro che si lanciassero con la massima naturalezza su itinerari che negli anni della loro gioventù rappresentavano le massime sfide del tempo. Avanzini aveva ripetuto la Solleder in Civetta, per esempio, tra i primi e non mi scorderò mai di quando sulla sua barca nel porto di Arenzano, ormai ultranovantenne, mi diceva di quanto gli piacessero le donne, segno di una vitalità invidiabile. Ubaldo Lemucchi non perdeva mai l’occasione di fare casino. A parte questo, consiglio a chi è rimasto colpito dallo spirito coriaceo dei liguri in montagna, la lettura dell’esilarante nonché interessantissimo “Genovesi in Montagna, Cronache di mezzo secolo di alpinismo” a firma di Gianni Pastine (ed. Feguagiskia’studios) come anche di una delle migliori storie dell’alpinismo tutto, sempre di Pastine “Una storia dell’alpinismo ” (ed. Liberodiscrivere). 
    Termino con la storia del solito “braccino corto” quando si parla di liguri, che invece è PARSIMONIA nel vivere, proprio quello stile tanto auspicato dal Crovella, e non solo, che tutti dovremmo adottare, semplicemente per vivere meglio e pesare meno su questo povero pianeta.

  25. Causa virus ho passato molto tempo nel Levante ligure. Un’occasione per ri-scoprire tante cose interessanti ad est di Finale. La mia bibbia è stato il libro di Roccati: “Onde di Pietra”. Una vera enciclopedia di nuovo e vecchio. Ci sono ormai palestre e palestrine ovunque, compresa la bellissima Val D’ Aveto. Poi,  come dice lui, almeno una volta nella vita non si  può non fare lo spigolo dei Chiavaresi, con i sub e le barche sotto di te e poi il bagno dopo la doppia e i traversi. 

  26. dimenticavo (grave!!)  :
     
    MARIO PIOTTI genovese trapiantato a Pisa, grande realizzatore in Apuane. Sua parete prediletta la nord del Pizzo d’Uccello, dove ha aperto il maggior numero di itinerari.

  27. bello il diedro GOZZINI alla Baiarda che ho salito qualche anno fa.
    quanto agli alpinisti liguri sono stati dei grandi esploratori e realizzatori in Apuane, ne cito alcuni che adesso mi vengono in mente : Figari, Questa, Bastrenta, Montagna, Campora, Ravaioni, Pomodoro, Calcagno, Pescia, Schenone, Vigiani.

  28. Mi sono tornati alla mente i momenti in cui, da ragazzino, da solo, andavo alla ricerca di qualsiasi cosa fosse arrampicabile sulle alture genovesi. La Baiarda, via dei Diedri, Diedro Gozzini e fessura degli Svizzeri, era allora una delle vie piu’ ambite per i principianti. E devo dire che il passaggio iniziale del diedro Gozzini, IV, non e’ mai stato sgradato…
    Le alture genovesi, hanno la fortuna di portare spesso l’arrampicatore in un luogo stretto fra cielo, roccia, vegetazione piuttosto selvaggia e mare che, di solito, e’ sempre vicino o comunque fa da sfondo. Posti magnifici. i genovesi hanno il braccino, diciamo che sono prudenzialmente parsimoniosi.
    Al masso del ferrante si dava appuntamento agli allievi alla prima uscita del Corso di Alpinismo della Figari.
    Posti che meritano una visita a chi si trovasse in zona. E comunque Acquasanta – Punta Martin (sull’altro lato del vallone rispetto alla Baiarda) puo’ stuzzicare qualche runner odierno o chi vuol fare una bella sgambata.

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