Introduzione
di Mauro Bonaiuti
Il concetto di decrescita è relativamente nuovo. Il termine stesso «decrescita», riattualizzato nel 2001 per denunciare l’impostura dello sviluppo sostenibile, è spesso provocatorio. Si tratta di mettere l’accento sull’urgenza di una constatazione: una crescita infinita della produzione e del consumo materiali non sono sostenibili in un mondo finito.
Dietro a questa idea di decrescita c’è, tuttavia, più di una provocazione. Una riflessione e un pensiero sono infatti in corso di elaborazione. In uno sforzo di ricerca collettivo, basato tanto sull’economia quanto sulla filosofia, la storia o la sociologia, intellettuali e accademici in tutto il mondo cercano di portare alla luce i principi e i contorni della società dell’abbondanza frugale alla quale aspirano.
La collana Precursori della decrescita diretta da Serge Latouche ambisce a dare visibilità a questa riflessione. Attraverso la presentazione di alcune figure del pensiero umano e dei loro scritti, essa pretende, in qualche modo, di fare emergere una nuova storia delle idee in grado di sostenere e arricchire il pensiero della decrescita. Essa offre al pubblico più ampio così come al lettore più informato una panoramica delle riflessioni in corso e, allo stesso tempo, un repertorio comune di riferimenti talora antichi come l’umanità, ma presentati qui sotto nuova luce.
Una collana che vuole dimostrare come il concetto di decrescita sia assai lontano dalla sua rappresentazione caricaturale: un tessuto di elucubrazioni di qualche arretrato fanatico desideroso di «tornare alla candela».
Una collana che intende innanzitutto sviluppare una delle rare correnti di pensiero in grado di tenere in scacco l’ideologia produttivistica che oggi struttura le nostre società…
Il testo, della fine degli anni Ottanta, presenta il tipico tono di voce dell’ultimo Georgescu […] Dopo aver denunciato la mancata risposta degli economisti ai problemi ambientali e “l’infatuazione ottimista”, tipica di quegli anni, Georgescu punta il dito sulle aporie concettuali della nascente economia ambientale ed ecologica. Importanti, nella prospettiva della decrescita, sono in particolare le sue critiche al concetto di stato stazionario, di sviluppo sostenibile e di sviluppo tout court, che possono essere ritrovate, in un linguaggio semplice e diretto, in questo brano.
La critica allo sviluppo sostenibile
di Nicholas Georgescu-Roegen
Note di Mauro Bonaiuti
(tratto da Quo vadis homo sapiens sapiens, dattiloscritto rinvenuto presso la Special Collections Library, Duke University, USA, con il sottotitolo A query by Nicholas Georgescu-Roegen on 16th of December 1989)
I fatti dei mesi scorsi nel Golfo Persico (il riferimento è ovviamente alla prima guerra del Golfo, NdC) mi hanno riportato con la mente a undici anni fa quando, durante un’intervista insieme ad altri venti economisti per il New York Times del 30 dicembre 1979, feci una dichiarazione singolare. Dissi che la questione più allarmante per la nostra economia – anzi, per la nostra specie – non riguardava tanto le preoccupazioni relative all’inflazione o alla disoccupazione, le quali allora come oggi monopolizzavano l’attenzione degli economisti, quanto il rapido esaurimento dei carburanti fossili, specialmente del petrolio, la più importante fonte di energia dei tempi moderni. Conclusi dicendo che «se non verrà presto realizzata un’azione seriamente concertata, [per razionalizzare la produzione e la distribuzione dei carburanti fossili], i missili probabilmente voleranno per assicurarsi il possesso dell’ultima goccia di petrolio […]».
Gli economisti si sono distinti come la categoria più estranea al problema della scarsità delle risorse naturali. Alcuni si sono aggrappati al credo dell’abbondanza, mentre altri, ancora più raffinati, si sono sforzati di convincerci che non esiste alcun problema entropico, come Wilfred Beckerman ha affermato con dotta retorica nella sua lezione di apertura all’University College e successivamente nel suo libro. Carl Kaysen, nel tentativo di scoraggiare qualsiasi tipo di avvicinamento all’economia, scienza della scarsità, ha liquidato ogni interesse verso la scarsità delle risorse affermando che «la scarsità non può condurre a nessuna conclusione interessante». E per quanto incredibile possa sembrare, Robert Solow (Premio “detto” Nobel per l’economia, noto in particolare per i suoi studi sulla crescita economica, NdC), durante la sua Richard T. Ely Lecture, nel 1974, annunciò che le risorse naturali non rappresentano un fattore indispensabile nell’ambito del processo economico. Egli intendeva esplicitamente assolvere l’economia standard dall’avere completamente ignorato il ruolo economico delle risorse naturali.
L’infatuazione ottimista fu così forte che persino le menti dalle quali ci si sarebbe aspettato un maggior discernimento, entrarono nelle fila degli ottimisti. Ad esempio, Glenn Seaborg, nella sua immensa autorevolezza, ci assicurò che la scienza avrebbe sicuramente messo in grado gli uomini di utilizzare la Terra senza degradarla in alcun modo. Così anche Paul Samuelson, che pure non era un Nobel della Fisica) non venne additato da nessuno per aver affermato che la scienza avrebbe trovato il modo di fermare la degradazione entropica dell’energia e della materia. Nel frattempo un altro eminente fisico, Alvin Weinberg presentò (e qui uso le sue stesse parole) un’alternativa faustiana per ottenere la salvezza a lungo termine: trentaduemila reattori autofertilizzanti distribuiti sopra quattromila isole, artificialmente costruite, in grado di mantenere una popolazione mondiale di 20 miliardi di persone a uno standard di vita due volte superiore a quello degli Stati Uniti […].
All’interno di questa chiassosa ma inconcludente discussione, Herman Daly, un Vanderbilt Ph.D (Herman Daly, riconosciuto tra i padri fondatori dell’economia ecologica, era stato allievo di Georgescu alla Vanderbilt University, NdC), inventò una formula di salvezza molto popolare che, proprio per questo motivo, ha portato i maggiori danni rispetto al comportamento che tutti noi dovremmo tenere di fronte a un’imminente crisi energetica. Dall’idea che la crescita economica non può essere infinita, idea che era nell’aria già molto tempo prima che ne parlassi io, Daly arrivò alla conclusione che «lo stato stazionario dell’economia è quindi una necessità», un banale errore di logica elementare, poiché l’opposto della crescita non è solo lo stato stazionario (bensì, come Georgescu-Roegen stesso ha suggerito nel titolo di una sua opera, la decrescita, NdC): un punto, questo, già argomentato precedentemente in relazione alla Legge dell’Entropia. Attraverso la combinazione di questa idea errata con un famoso precetto di John Stuart Mill il quale, in contrasto con Adam Smith, affermava che un’economia stazionaria presenta molti vantaggi dal punto di vista sociale, Daly cominciò a sostenere (a partire da una Alabama Distiguished Lecture successiva alla mia) che la salvezza ecologica poggia su questo tipo di economia. Tuttavia, Daly non spiegò mai in modo analitico cosa intendesse per stato stazionario (stationary state) se non precisando che sia il capitale sia la popolazione devono rimanere costanti: il ché non è una precisazione sufficiente. I suoi ascoltatori svuotarono di attrattiva l’invenzione di Daly insistendo sul fatto che lo stato stazionario (stationary state) rappresenterebbe inesorabilmente un’economia rigida e immutabile. Così Daly sostituì il logo stato stazionario (stationary state) con steady state, un termine preso in prestito dalle scienze naturali. Nel 1981, poiché perdurava la confusione terminologica, Daly occupò un’intera appendice per spiegare ancora una volta che per steady state non intendeva lo “stato stazionario”.
Durante gli anni ’70, e specialmente all’inizio del decennio, si sentivano ancora gli effetti dell’embargo petrolifero e nonostante ciò l’idea di Daly fu accolta da molti, perché aveva almeno il merito di non essere tecnica. Egli sviluppò la sua tesi in molte sue opere con notevole talento letterario al punto che, in breve tempo, il suo nome era divenuto sinonimo di steady state. Essendo tale approccio molto ottimistico, si diffuse come credo dominante molto velocemente. Naturalmente i Paesi avanzati lo accolsero favorevolmente poiché tutti sarebbero stati felici di poter continuare a vivere nelle stesse abitazioni, guidare le stesse automobili e mangiare lo stesso cibo appetitoso. Purtroppo essi non capirono che erano vittime di una grande illusione. E strano, veramente molto strano, che nessun predicatore del credo dello steady state abbia pensato per un attimo che, per le popolazioni provenienti dai paesi della scarsità – ad esempio il Bangladesh – la ricetta dello stato stazionario (stationary state) avrebbe significato la condanna a vita nella miseria.
Tuttavia, Herman Daly finì col rendersi conto di questo grave ostacolo e, alla ricerca di una scappatoia, come ammise apertamente nel seminario all’Università di Manitoba il 22 settembre 1989, cambiò il logo del suo movimento con un altro decisamente più allettante: sviluppo sostenibile, un’espressione che probabilmente prese in prestito da un volume di Lester Brown. Effettivamente chi potrebbe trovare qualcosa di sbagliato in questo nuovo programma, visto che è congeniale sia alla popolazione del Bangladesh sia a quella che abita negli attici di New York? Già gli autori di The Limits to Growth speravano che si potesse stabilire «una condizione di stabilità ecologica ed economica, sostenibile nel tempo». Tuttavia, come lo steady state non poteva essere separato dallo stato stazionario (inteso come stationary state), così lo “sviluppo sostenibile” non poteva essere separato dalla “crescita economica”. Questo approccio non poteva non ricordare a un economista il famoso “decollo” verso la crescita sostenibile di Walt Rostow. Chi davvero penserebbe che lo “sviluppo” non implichi necessariamente, in qualche misura, la crescita [l’affermazione è importante perché chiarisce come, per G-R, lo sviluppo implica di fatto la crescita e, dunque, lo sviluppo sostenibile ricade nelle contraddizioni tipiche della “crescita sostenibile” denunciate dallo stesso Daly (il neretto è nostro, NdC]?
E’ comprensibile allora come il falso ottimismo presente in questi due slogan – “stato stazionario ” e soprattutto “sviluppo sostenibile” – abbia attratto miriadi di convertiti, i quali si sono dati appuntamento a un forum “globale” dopo l’altro, accrescendo la reputazione dei promotori della formula. Tutte queste iniziative spinsero molte corporations a promuovere la propria immagine attraverso il finanziamento di tali attività.
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Matteo,
mi stupisco! Gli economisti non han bisogno di comprendere i problemi: li creano (cioè, li creiamo).
Paiono tutte affermazioni di una ovvietà imbarazzante per chiunque abbia un leggera infarinatura scientifica, diciamo da fisica a livello liceo.
Il dramma però è che per definizione gli economisti restano esclusi dalla possibilità di un qualunque tipo di comprensione anche solo del problema!
Ringrazio Gognablog per aver accettato il suggerimento di riportare queste osservazioni di Georgescu Roegen sull’implicita contraddizione presente nell’abusata dizione di ‘Sviluppo Sostenibile’.
Massimo Silvestri