Esattamente un anno fa in queste ore sul K2 si preparava la conclusione drammatica del tentativo di vetta degli scalatori che speravano di ripetere l’impresa dei 10 nepalesi che il 16 gennaio 2021 avevano realizzato la prima salita invernale della seconda montagna della Terra. Ora l’agenzia Summit Karakoram, che assiste la taiwanese Grace Tseng, unica cliente, ha annunciato che gli Sherpa della spedizione provano ad attrezzare la via dal campo 1 almeno fino al campo 3, approfittando di una finestra meteo favorevole proprio per oggi 5 febbraio 2022.
Ricostruendo cosa avvenne un anno fa, proviamo a pensare a cosa accadrebbe se l’attuale spedizione invernale dovesse avere successo sul K2 (con una cliente che diverrebbe la prima donna a salirlo nella stagione più fredda).
Normalmente il K2 è considerato molto più difficile e pericoloso dell’Everest, con finestre meteo più brevi e tempeste più violente. Si farebbe strada l’illusione che invece in inverno possa essere più “facile” e, come avvenne un anno fa, si moltiplicherebbero i clienti ansiosi di poterne vantare la salita, addirittura in invernale. Con moltiplicazione ancora maggiore del numero di Sherpa e Portatori d’alta quota (HAP) pakistani e col conseguente rischio di grandi tragedie.
Perché il problema già un anno fa fu appunto quello: l’illusione che fosse possibile ripetere esattamente quanto riuscito ai 10 nepalesi.
I rischi del K2
di Alessandro Filippini
In Pakistan sono riprese le operazioni sul K2, nonostante i forti venti annunciati dalle previsioni: gli stessi che hanno fatto desistere Hervé Barmasse e David Göttler sul Nanga Parbat, gli stessi che ha incontrato Denis Urubko sul Khosar Gang, anch’egli intorno a quota 6000 m. Sembra che ci sia una finestra meteo favorevole oggi 5 e domenica 6 febbraio 2022. Nima Gyalzen e i suoi Sherpa, che lavorano per la giovane taiwanese Grace Tseng, unica cliente, sono saliti per cercare di attrezzare la via almeno fino a campo 3.
Per la coincidenza delle date, è una notizia che porta con sé anche un po’ d’inquietudine. Infatti proprio il 5 febbraio dello scorso anno si svolse il tragico tentativo di vetta dal quale non fecero ritorno John Snorri, Muhammad Ali Sadpara e Juan Pablo Mohr. E in quello stesso giorno, in discesa da campo 3, ci fu la fatale caduta di Atanas Skatov.
Ora la situazione è sicuramente diversa, non fosse altro per i numeri: una spedizione con una sola scalatrice e 6 Sherpa contro ben 40 persone che un anno fa, fra il 2 e il 3 febbraio, avevano lasciato il campo base per tentare di ripetere la salita invernale della seconda montagna della Terra, salita che, per la prima volta dopo anni di vani tentativi, era riuscita a 10 nepalesi due settimane prima.
È vero che anche dopo la prima salita invernale del Nanga Parbat, riuscita nel 2016 dopo oltre 30 spedizioni fallite, ci sono stati nuovi tentativi (peraltro su vie diverse), ma è vero anche che purtroppo hanno avuto esiti drammatici, con la morte di Tomek Mackiewicz nel 2018 e quella di Tom Ballard e Daniele Nardi nel 2019.

Quindi era auspicabile che, ricordando i cinque morti del 2021 (il 16 gennaio, giorno della prima salita, c’era già stata la caduta mortale durante la discesa di Sergi Mingote), non ci fossero subito nuovi tentativi di imitare Nirmal Purja, Mingma Gyalje, Sona Sherpa, Gelje Sherpa, Mingma David Sherpa, Mingma Tenzi Sherpa, Pem Chhiri Sherpa, Dawa Temba Sherpa, Kili Pemba Sherpa, Dawa Tenjing Sherpa. Cioè, era auspicabile che non ci fossero nuove spedizioni commerciali invernali su una montagna, il K2, sulla quale prima dei 10 nepalesi avevano fallito grandi spedizioni tradizionali, nazionali e internazionali con alpinisti fortissimi. Che non fosse ripetuto l’errore di coloro che un anno fa, una volta realizzata la prima salita invernale, si erano illusi che l’impresa fosse divenuta possibile per tutti.
Fu una illusione dovuta a varie motivazioni.
In primo luogo, come detto, quella suggerita dal successo nepalese. Ma i 9 Sherpa e Nirmal Purja non solo erano fortissimi. Avevano anche utilizzato una strategia e una logistica veramente al limite: tentativo di vetta direttamente dal campo 3 alto (quota 7350 m). Quindi ben 1300 metri di dislivello, la metà dei quali sopra gli 8000 metri, in una spinta consecutiva. In estate, quindi in condizioni nettamente migliori sia per le temperature sia per il ghiaccio, meno impegnativo, viene sempre attrezzato un campo 4. Il 16 gennaio i nepalesi impiegarono ben 16 ore per toccare gli 8611 metri della vetta. Salirono anche attrezzando la via (Sona Sherpa fece la maggior parte del lavoro aprendo la traccia) da 7800 m in poi. Fino a quel punto, dove normalmente viene appunto messo il campo 4, il giorno prima erano arrivati con le corde fisse Mingma David, Mingma Tenzie Mingma Gyalje, che poi erano tornati a riposare al campo 3 con gli altri. Particolare importante, a quota 7800 m non furono lasciate tende, ma fu lasciato un deposito. Lì i 10 nepalesi si fermarono a riposare e ad attendere che sorgesse il sole. Soltanto Nirmal Purja salì senza far uso di bombole di ossigeno.
Soprattutto, i 10 nepalesi poterono anche approfittare di condizioni meteo eccezionali: cielo sereno e assenza di vento in quota (al contrario di quanto avveniva ai campi bassi). E una temperatura “gestibile”, intorno ai meno 30°. Due settimane dopo, i meno 30° venivano registrati al campo 1 e sopra gli 8000 metri la temperatura si avvicinava ai meno 50°.
In secondo luogo, il fatto che ci fossero varie spedizioni e anche scalatori autonomi. E soprattutto la confusione sul concetto di spedizione commerciale. Al K2 d’inverno non si trattava di qualcosa di paragonabile alle normali spedizioni sull’Everest. Lì gli Sherpa delle agenzie preparano tutto e assistono totalmente i clienti, fino in vetta. In una invernale estrema come quella del K2 era impensabile che potesse avvenire la stessa cosa, anche se l’agenzia che aveva organizzato la spedizione per la maggior parte degli scalatori presenti era Seven Summit Treks, la più grande. Oltre alle tre squadre di Sherpa incaricate di attrezzare la via (in realtà lavoro condiviso con altre spedizioni come vedremo), molti degli scalatori presenti avevano uno Sherpa personale. Ma non si può chiedere nemmeno a uno Sherpa di andare avanti a ogni costo verso gli 8000 metri d’inverno, portando le bombole per il cliente, quando invece chiunque si trova al limite della resistenza nel freddo estremo. SST garantiva l’assistenza al campo base, le bombole (ne furono portate 100 verso i campi alti da una squadra di Sherpa che anticipò di due giorni la partenza degli scalatori) e le tende ai campi superiori, più le corde fisse lungo la via. In realtà queste furono piazzate anche da altre tre spedizioni. Fino a campo 1 da quella di John Snorri, con Muhammad Ali Sadpara e suo figlio Sajid Ali (iscritti come portatori!). Da lì fino quasi al campo 3 dalla squadra di Mingma Gyalje (spedizione autonoma di tre Sherpa) con l’aiuto di Pasang Norbu e Sona (SST) poi anche di Nirmal Purja (anche lui in spedizione autonoma, con cinque Sherpa). Molto probabilmente gli Sherpa personali degli scalatori “salvarono la vita” ai loro clienti quando rifiutarono di andare avanti nel tentativo di vetta, nella notte fra il 4 e il 5 febbraio 2021. Lo fecero per salvare se stessi da congelamenti (probabili, perché avrebbero dovuto usare meno ossigeno supplementare rispetto agli scalatori per limitare il numero di bombole da portare in spalla). Ma anche perché capirono che si trattava di affrontare troppi rischi con pochissime possibilità di successo. Proviamo a vedere perché.
Il tentativo di vetta. Erano passate due settimane dal successo dei 10 nepalesi. La maggior parte degli scalatori era rimasta ferma al campo base. Solo Snorri aveva provato a salire, ma si era dovuto fermare una volta ancora al campo 2. In tutto l’inverno della spedizione, solamente il povero Sergi Mingote e Juan Pablo Mohr erano riusciti a dormire una notte al campo 3 giapponese (quota 7000 m). Snorri, che era stato il primo ad arrivare al campo base, non era andato oltre campo 2, dove aveva dormito due notti. Anche usando le bombole, era davvero ottimistico pensare di avere già un acclimamento sufficiente. A maggior ragione, lo era per chi voleva salire senza ossigeno supplementare (Mattia Conte, Mohr e Tamara Lunger, che aveva fatto cordata con lui dopo la rinuncia del suo primo compagno, Alex Gavan, e la morte di Mingote). Eppure fra il 2 e il 3 febbraio partirono dal campo base in 40, fra scalatori e Sherpa. Il capo spedizione, Chhang Dawa Sherpa aveva dettato dei tempi di salita da rispettare per arrivare a ogni campo. Chi non fosse riuscito a rispettarli avrebbe dovuto tornare indietro. Lo fecero solo Conte e Noel Hanna per scelta, e Magdalena Gorzkowska per problemi fisici.
I ritardi accumulati. Alcuni altri, già in ritardo il secondo giorno all’arrivo a campo 2, semplicemente chiusero le comunicazioni col campo base per evitare di sentirsi dire che dovevano scendere. Le cose peggiorarono il 4 febbraio, perché i ritardi accumulati si sommarono. Inoltre gli Sherpa mandati per rifornire i campi alti non erano andati oltre il campo 3 giapponese. Nonostante questo, la maggioranza continuò come se fosse sicuramente possibile il tentativo di vetta, anche se erano avvisati che la finestra meteo accettabile si sarebbe chiusa nel pomeriggio del 5. Per questo il capospedizione aveva avvisato che eventualmente bisognava arrivare in vetta entro le 9-10 del mattino, per avere il tempo di rientrare almeno al campo 3 prima che il vento diventasse troppo forte (calo della temperatura reale e percepita in contemporanea con l’esaurimento delle bombole e delle forze…). Questo voleva dire partire da campo 3 alle 21 (12-13 ore per 1300 m di dislivello: comunque programma ottimistico, soprattutto per persone non perfettamente acclimatate). Il risultato dei ritardi precedentemente accumulati fu che molti arrivarono a campo 3 dopo le 20 e qualcuno persino dopo le 21. Solamente lo statunitense Colin O’Brady aveva rispettato i tempi ideali per poter anche riposare, arrivando alle 14, seguito più tardi da Mohr, comunque veloce anche se salito senza bombole. Per gli altri, compreso Snorri e i Sadpara, non c’era tempo sufficiente per rifocillarsi, riposare e prepararsi alla parte più dura della salita.
Mancanza di tende. I primi arrivati avvisarono che a campo 3 non c’erano le tende previste. Nelle due settimane trascorse dal passaggio dei 10 nepalesi forse erano state distrutte dai venti o nascoste da accumuli di neve. Ugualmente salirono in 22 e si fermarono solo Elia Saikaly e gli Sherpa che lo accompagnavano (doveva effettuare riprese per Snorri). A campo 3 avevano portato tende personali solo O’Brady, con due Sherpa, Mohr (tendina da due) con Tamara Lunger (che aveva rinunciato fra i due campi 3 ma era poi stata convinta da Muhammad Ali a raggiungere il campo 3 alto) e Snorri (con i due pakistani). Gli Sherpa riuscirono a recuperare soltanto un’altra tenda. Ventidue persone in 4 tende. Impossibile riposare. Ogni movimento, necessario, era ritardato per la difficoltà di muoversi. Ma fra gli scalatori soltanto il più in forma, O’Brady, e Lunger decisero di rinunciare a salire.
Verso la vetta. In ritardo sulle indicazioni, ma prima della fine del 4 febbraio uscirono dalle tende Bernhard Lippert, Tomaz Rotar, Josette Valloton con i loro Sherpa e Snorri seguito da Mohr. Lo Sherpa di Skatov rifiutò di proseguire, così anche quello del greco Antonis Sykaris. A mezzanotte partì Sajid Ali, che incrociò coloro che rientravano al campo. Oltre a Mohr, davanti c’erano solo Rotar e Snorri, che lo aveva convinto a tornare con lui fino all’ostacolo che lo aveva già fermato.
Il grande crepaccio. Il 15 gennaio i 10 nepalesi salendo dal campo 3 alto avevano dovuto perdere molto tempo e cambiare strada perché non avevano trovato modo di superare un grande crepaccio sulla via normale. Erano scesi seguendolo fin quasi a raggiungere dallo Sperone Abruzzi l’altro Sperone, più a sud, chiamato Basco o Česen. Avevano infine trovato come attraversare il crepaccio, piazzando una corda fissa che lo scavalcava. Quella che gli scalatori trovarono nelle prime ore del 5 febbraio sul largo crepaccio era troppo lasca per sembrare affidabile. Secondo il racconto di Sajid, Rotar rinunciò e lui lo incrociò prima del crepaccio. Gli chiese il respiratore per la maschera perché il suo non funzionava. Lo sloveno (che ricorda in modo diverso la successione dei fatti) rifiutò, perché aveva bisogno dell’ossigeno. Davanti al crepaccio Snorri, Mohr e Sajid, che voleva anch’egli salire senza usare le bombole, furono raggiunti da Muhammad Ali, partito per ultimo dal campo 3, alle 2. Erano andati dove erano passati i 10 nepalesi o erano sulla via normale? E in questo caso, come mai non avevano fatto come Nirmal e compagni? Però, come mai avevano trovato la corda? In ogni caso la lunga sosta per decidere che fare avvenne intorno ai 7600 metri, secondo le indicazioni del tracker di Snorri (che poi smise di funzionare a quota 7800 poco dopo le 3).
Il Collo di Bottiglia. Da qui in poi sappiamo solo quello che ha raccontato Sajid Ali, lui stesso poco convinto dell’esattezza dei suoi ricordi dopo quelle ore estremamente difficili e tragiche per lui. Loro quattro erano riusciti a saltare il pur largo crepaccio e avevano proseguito, ma quando giunsero al Collo di Bottiglia lui cominciò ad accusare mal di testa. Suo padre gli disse di usare la bombola di scorta che aveva nello zaino (insieme a un’altra per Snorri). Ma, come già detto, il respiratore non funzionava. Così Muhammad Ali disse a suo figlio di scendere. Sajid afferma che erano le 10. E che ha visto per l’ultima volta suo padre, Mohr e Snorri in cima al Collo di Bottiglia e pronti a iniziare il traverso sotto il grande seracco alle 12. In entrambi i casi, tempi molto lunghi per guadagnare 400 metri da quota 7800 a quota 8200 circa. Sajid rientrò nel tardo pomeriggio a campo 3 (anche in questo caso tempi estremamente lunghi, che non sa spiegarsi) e lì, da solo, attese invano il rientro dei tre uomini impegnati nel tentativo di vetta. Come sappiamo, nella scorsa estate Sajid li ha poi ritrovati: Mohr poco sopra campo 4, Snorri e Muhammad Ali proprio sopra il traverso, poco distanti uno dall’altro.
La discesa. Tutti gli altri dopo l’alba erano scesi, vista l’impossibilità effettiva di andare oltre quel campo 3 nel grande freddo e affaticati dalla salita e dalla notte senza riposo. Inutile restare, visto che stava arrivando l’annunciato maltempo. Il vento in effetti nel pomeriggio del 5 aumentò sensibilmente. Purtroppo all’inizio della discesa il bulgaro Skatov precipitò sotto lo sguardo del suo Sherpa, che lo seguiva. Si parlò di problemi legati alle corde fisse. Sulla via normale ce ne sono molte, rimaste da tante passate spedizioni, vecchie e inaffidabili. Di sicuro sono vergognose le accuse, poi ritrattate, contro i 10 nepalesi, che evidentemente non tagliarono le corde, visto che le usarono loro stessi per poter scendere.
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Nel 2006 stavo guidando, assieme a Nima Norbu Sherpa, un piccolo gruppo che faceva un lungo trek per salire due seimila tra la valle di Arun e quella del Kuhmbu. Mentre risalivamo l’Amphu Labsta La (passo a 5800m situato tra Ama Dablam e Baruntse) da est incrociamo una spedizione spagnola diretta al Makalu che risaliva il passo dal versante opposto al nostro. C’erano dei nomi famosi che non mi va di citare, ma rimasi colpito dalla loro goffaggine nel muoversi già vedendoli da lontano. Pensai tra me e me: ecco della gente che va a cacciarsi dei guai. Erano equipaggiati all’inverosimile e quando ci incontrammo ci dissero di trovare lo scavalcamento del passo come molto difficile. Eppure vedevano i nostri portatori in scarpe da ginnastica e noi stessi vestiti da trekkers “4 stagioni” ma assolutamente non in assetto da altissima quota come lo erano loro. Arrivarono, seppi dopo, sul Makalu e questo è il “bello”. Perché i toni con cui lo raccontarono facevano pensare a alpinisti da piolet d’or mentre io gli avrei consigliato un corso base del Cai.
Il fatto è che salire un ottomila oggi non significa affatto necessariamente essere alpinisti.
Sembra una telenovela, orrendo!!
Confesso che questo articolo non mi è piaciuto per niente. È una specie di telecronaca in cui si citano luoghi, fatti e persone come fosse una partita di calcio. Non si respirano minimamente nè il profumo della montagna nè le sensazioni dei protagonisti, nessuna emozione, nessuna poesia. Del resto questo è lo stile di Filippini e mi sorprende non poco che sia ospitato in questo blog. Certo, non tutti sanno scrivere di alpinismo come Alessandro Gogna ma qui siamo agli antipodi. Ho seguito a suo tempo gli scritti che apparivano su “Alpinisti e montagne” ed erano piatti resoconti come questo: si parlava tanto di alpinisti in vetta quanto di uomini che non erano più tornati senza trasmettere la minima emozione. Mi auguro invece che presto qualcuno di voi che lo conosceva scriva qualcosa per ricordare Korra Pesce. Grazie, buona domenica.
Francesco, sii ardito: scrivi il tuo cognome.
Cosí gli “idioti” e i “misogini”, “buoni solo a scrivere commenti inutili e vergognosi”, sapranno almeno a quale dei tanti Franceschielli d’Italia potranno rivolgersi nel caso improbabile in cui desiderassero risponderti.
Ti riferisci a me? Sì, è stata una battuta di antiquata idiozia. Oggi lo chiamano catcalling. Mi spiace.
Però ho posto un paio di questioni serie delle quali mi piacerebbe sapere di più.
Come al solito non mancano gli idioti misogini buoni solo a battere sulla tastiera commemti inutili e vergognosi.
Questo non è alpinismo
Comunque, a parte gli scherzi, esattamente chi è questa ragazza?
E’ un elemento valido o è solo ricca e sta pagando a peso d’oro un team di Sherpa esperti?
Non è una domanda polemica, ma davvero vorrei saperne di più, perché non trovo informazioni.
@ 3
È una Barbie Girl.
Be’, mi si conceda una caduta di stile: è una gnocca spaziale…!
Ma Grace Tseng è vera?
Dalla foto sembra una bambola…
Sante parole le tue Paolo che condivido totalmente.
Purtroppo a vedere questa mercificazione passa la voglia di andare in montagna.
Mi da fastidio questo articolo…
Non per il contenuto o per l’autore, anzi. Ma per quello che comporta la situazione descritta.
Per me il K2 resterà sempre “la montagna alla fine del mondo”.
Quello di Nives e Romano. La montagna selvaggia.
Il grande seracco, il palazzo dei ghiacci eterni.
Sono romantico. Ingenuo e sognatore, se volete. Frega un cazzo.
Il K2 è la Luna.
E io sono stato sopraffatto, era come se tuonasse davanti ai miei occhi. Non ero e non sarò mai (ormai) in grado di salirlo.
Il K2 è poesia, è epica, tragedia.
Lasciate in pace la Grande Montagna. O affrontate le sue difficoltà con amore, cuore, testa.
Si lasci il commercio dove deve rimanere.
E che la si affronti con umiltà, senza sfruttare la fatica di altri.