I-TO
(la prima ascensione dell’immenso versante sud del Mount Logan, Canada)
di Katsutaka Jumbo Yokoyama
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2011)
Traduzione dal giapponese all’inglese di Jiro Kurihara
Era il luglio 2009 quando Christian Beckwith mi mostrò una foto del Mount Logan. La didascalia “La parete sud inviolata di 3.000 metri” ha catturato immediatamente la mia immaginazione. La frase attraente ne era responsabile, ma lo era anche la misteriosità della montagna stessa: non avevo assolutamente idea di dove fosse il Logan.

I miei compagni di cordata e io abbiamo scalato nell’Alaska Range negli ultimi anni. Queste esperienze sono state significative per noi, e ci sono ancora molti obiettivi che non vedo l’ora di tentare. In più, le montagne intorno al Denali hanno perso il loro fascino. Lì è facile trovare informazioni, descrizioni dei percorsi e previsioni meteorologiche ragionevolmente accurate, tutte cose che riducono l’avventura. Inoltre, l’impegno è relativamente basso perché le fughe sono facili. Anche se è una gioia arrampicare in un ambiente così accessibile, stavo iniziando a pensare che la vera scalata doveva essere in un’arena veramente selvaggia con più inaffidabilità, incertezza e ansie. La foto di Christian del Logan ha suscitato questi sentimenti.


La parete sud del Mount Logan ha una storia famigerata, avendo respinto diversi tentativi da parte di forti alpinisti nordamericani. La sua difficoltà tecnica non è stata l’unica ragione per cui questa parete è rimasta uno dei più grandi progetti inviolati nel corso degli anni. Ha una certa reputazione per il tempo imprevedibile, la caduta di seracchi, la lontananza e l’assoluta grandiosità del suo ambiente. Queste sono difficoltà che non possono essere descritte da un numero o da un grado. Vedo le montagne come parametri per misurare le difficoltà che una persona può sopportare, la resistenza fisica e mentale che una persona può o non può possedere. Sul Mount Logan sarebbe necessaria anche la pura fortuna. Per scalare la parete sud del Logan, si deve cercare forza in profondità. Ma mi sono detto: “OK, affronterò e accetterò tutto ciò che questa montagna ha da offrire.
“Enorme!”
Questa è stata la prima parola con la quale il nostro piccolo gruppo è sbottato quando siamo usciti dal piano sul ghiacciaio sotto il Mount Logan. L’enormità era ben oltre le nostre aspettative e persino la nostra comprensione. Quando Yasushi Okada, Genki Narumi ed io lasciammo il Giappone ci sentivamo già estasiati, come se fosse la nostra prima spedizione all’estero. Essere qui sotto la parete ha creato un’energia indescrivibile.
Il primo ordine del giorno era l’acclimatazione. Tuttavia, dal Seward Glacier, anche dopo un’approfondita ricerca, non siamo riusciti a trovare vie abbastanza sicure su cui acclimatarsi. Mentre riesaminavamo le nostre opzioni, decidemmo che la cresta est del Logan, accessibile dall’Hubbard Glacier, sarebbe stata la via più sicura e veloce per salire in alto. Abbiamo lasciato il campo base tre giorni dopo l’atterraggio. Due ore di cammino ci portarono a un colle dove potevamo guardare indietro verso il campo. La vista mi fece venire i brividi lungo la schiena. Il nostro accampamento era solo un minuscolo puntino nel vasto campo di ghiaccio, poi le nuvole sono arrivate e la tenda è scomparsa. Mi chiedevo come avremmo potuto ritrovarlo se avesse nevicato mentre stavamo scalando la cresta est. Saremmo persi in un vasto mare di bianco.

Abbiamo visto quanto eravamo stati stupidamente ottimisti e siamo subito tornati al campo base. La nostra priorità era rendere reperibile il campo base: ma senza un custode del campo o un GPS, eravamo limitati a metodi primitivi per contrassegnare il nostro campo. Abbiamo posizionato un palo della tenda in posizione verticale e sperato di poter localizzare il campo con una mappa e una bussola. La prima tempesta venne e se ne andò, e il sesto giorno ci dirigemmo di nuovo verso la cresta est.
Come previsto, l’acclimatazione si è trasformata in un’avventura. Prima c’era la camminata di 30 km solo per raggiungere la cresta. Questa è una bella linea che si estende piacevolmente fino all’altopiano sommitale, ma si è rivelata un po’ troppo tecnica per una facile escursione di acclimatamento. A peggiorare le cose, il maltempo ci costringeva a passare tre ore ogni notte a scavare rifugi nella neve. Se non piantavamo la nostra tenda all’interno di una grotta, sarebbe stata sepolta sotto la neve che cadeva.
Dopo otto faticosi giorni, avevamo finito di acclimatarci e stavamo tornando al campo base. Poco prima di raggiungere il campo, è calata la nebbia e abbiamo perso ogni visibilità. Abbiamo dovuto procedere centimetro dopo centimetro controllando attentamente la nostra bussola. Alle 21, una leggera apertura nella fitta nebbia ci ha permesso di intravedere finalmente le nostre tende. Abbiamo gridato di gioia.
Mi sono trovato stranamente eccitato. La cresta est e il brutto tempo avrebbero potuto essere difficili per l’acclimatazione, ma sul Mount Logan stavamo trovando l’avventuroso alpinismo che desideravo. Yasushi la pensava allo stesso modo e abbiamo concordato quanto fosse bello essere lì. A Genki mancava il nostro entusiasmo. Non era discordia nella squadra, ma una differenza nel modo in cui percepivamo la montagna. Mentre perlustravamo la parete sud, le riserve di Genki divennero chiare. Era sopraffatto dalla situazione. Yasushi e io abbiamo capito: i suoi sentimenti negativi avevano perfettamente senso per tutti noi. La domanda era: abbracci quelle negatività e le focalizzi in un progresso verso l’alto, o lasci che ti trattengano? Genki ha scelto di non accettarle. Decise di rimanere al campo base, riducendo la squadra di scalatori solo a me e Yasushi. Se eravamo solo in due dovevamo cambiare tattiche e pure l’equipaggiamento, ma l’obiettivo rimaneva lo stesso.
Il 4 maggio abbiamo attraversato il ghiacciaio sotto una luna splendente. Allo spuntare del giorno, riuscimmo a navigare attraverso i seracchi e raggiungere la base della parete. Mentre alzavamo lo sguardo, Yasushi scherzò a metà: “Ce la possiamo fare in un giorno, no?” Siamo sempre così, mezzi seri e troppo ottimisti.
Abbiamo scalato in simultanea il dolce pendio nevoso iniziale. I nostri progressi sono stati così rapidi che ho quasi creduto che avremmo potuto finire questa parete davvero in un solo giorno. Quando abbiamo raggiunto la roccia, la ricerca della via è diventata meno evidente e abbiamo traversato a sinistra con difficoltà.
Dopo la traversata abbiamo alzato lo sguardo verso un caratteristico camino. Era il nostro punto più alto programmato per la giornata, ma era ancora molto al di sopra di noi. Siamo stati rallentati dal nevischio che ci ha turbinato attorno per tutto il giorno. Mentre la notte si avvicinava e le stelle cominciavano a brillare, abbiamo scavato un bivacco inaspettatamente confortevole e ci siamo sistemati per dormire, soddisfatti dei nostri progressi.
Il secondo giorno abbiamo lottato fino al primo pomeriggio con l’incombente camino, passo cruciale. L’inesorabile ripidezza, il ghiaccio sottile e la roccia marcia hanno contribuito a rallentare i nostri progressi. Il secondo ha sofferto con lo zaino pesante, soprattutto durante le traversate delicate senza adeguate protezioni. Io ho subito una forte bastonata dopo troppi e vani tentativi di avvicinarmi pian piano al camino, e quando siamo arrivati in cima al camino era già buio. Non c’era abbastanza spazio per piantare la tenda, così l’abbiamo montata con l’aiuto di una specie di amaca di fortuna fatta con la corda. Anche in condizioni così miserevoli, Yasushi era allegro. Credo che se riusciamo ad accettare tutto ciò che la natura ci propina e a goderci la nostra presenza qui, su questa montagna, non ci sarà pathos, ma solo risate.
Il terzo giorno si è aperto con un cielo azzurro perfetto, ma eravamo scettici sul perdurare del bel tempo. Continuavamo a rimuginare su tutte le storie di feroci tempeste improvvise, sull’essere immersi “nella neve all’altezza del collo in una sola notte” e sulla spaventosa reputazione che il Logan aveva di essere la “montagna con il tempo peggiore”: oltre a quei dubbi e timori, non era più in discussione se scendere per la via che stavamo salendo. Le traversate, la roccia marcia, il ghiaccio sottile e il pericolo di valanghe la rendevano troppo lenta e pericolosa. Anche se detestavamo ripetere la lunga cresta est e la marcia di 30 km, quello era il modo più affidabile per tornare al campo base.
La parete non ce la dava vinta facilmente. Avevamo già superato i tratti tecnicamente più impegnativi della via, ma l’alta quota e gli zaini pesanti ci ricordavano che non eravamo ancora alla fine. Finalmente, dopo aver attraversato l’ultimo seracco, siamo usciti dalla parete alle 23. Per fortuna abbiamo trovato un crepaccio ben protetto dove sistemarci per il nostro terzo bivacco. Togliendoci i nostri robusti scarponi doppi, abbiamo scoperto che i nostri calzini erano congelati. Per tutta la notte, il freddo penetrante mi ha tenuto sveglio. A peggiorare le cose, abbiamo lasciato cadere una cartuccia di gas di ricambio sul fondo del crepaccio. Questa perdita ha ridotto le nostre scorte di un giorno e mezzo.
Sembrava impossibile, ma il quarto giorno spuntò con un altro bellissimo cielo azzurro. Nonostante la nostra euforia per la salita, eravamo preoccupati per il tempo che avrebbe potuto bloccarci sull’altopiano sommitale. Presto doveva arrivare una grande tempesta.
Se avessimo pensato razionalmente avremmo dovuto iniziare immediatamente la nostra discesa. Ma Yasushi e io eravamo d’accordo sul fatto che il vero obiettivo dovesse essere la vetta, non solo la mostruosa parete che avevamo appena scalato. Quindi, ci siamo fatti 4 km verso ovest con 800 metri di dislivello solo per raggiungere la vetta! Ci sono volute tre ore per arrivare al colle finale. Il fare pista e la nostra stanchezza accumulata andavano oltre le nostre aspettative. Fisicamente e mentalmente ci stavamo avvicinando al nostro limite, ma rimanevano 600 metri di dislivello. Guardavamo il bellissimo cielo blu, ma eravamo ossessionati dalla nostra paura di una tempesta. Ad essere onesti, usavamo la nostra paura come scusa per rinunciare alla vetta.
Siamo stati dubbiosi per circa 30 minuti prima di decidere di tornare indietro. Mi pentii all’istante della nostra ritirata, ma cercai di tenere la bocca chiusa. Era stata una nostra decisione. Nel momento stesso in cui abbiamo iniziato la discesa, non riuscivo a smettere di sospirare. Quando Yasushi colse il mio sospiro, le parole gli sgorgarono dalle labbra: “No, Jumbo. Andiamo in vetta. Così non va bene. Dovremmo andare”.
Tre ore dopo, eravamo in cima alla vetta est. Le persone potrebbero dire che non c’era alcun significato nella nostra faticaccia, o potrebbero chiedersi perché non siamo andati alla cima principale. Tra la cima Est e le cime principali c’era un altro pezzo enorme, e abbiamo dovuto ammettere che era oltre il nostro limite. Ma trovandomi sulla vetta est, sentivo finalmente che era giusto così. La vetta su cui ci trovavamo era la nostra destinazione finale e corretta. Quella sensazione non è cambiata, nemmeno adesso. È difficile dire che l’ultimo tratto fino alla vetta abbia aggiunto valore alla nostra scalata della parete sud, ma avevamo promesso di accettare tutto ciò che il Mount Logan aveva da offrire. Quest’ultima mezza giornata di culo e l’inevitabile conflitto mentale era il condimento che mancava al nostro “viaggio”.
Ora non restava che tornare al campo base dove Genki attendeva il nostro ritorno sani e salvi. La discesa della cresta est non è stata facile e 30 km di battitura di pista senza sci o racchette da neve sono stati una punizione crudele. Ma stavamo semplicemente camminando.
Sommario
Area: St. Elias Range, Yukon Territory, Canada
Ascensione: prima ascensione della parete sud del Mount Logan 5957 m, con prosecuzione fino alla Cima Est (4-8 maggio 2010, inclusa la discesa). Yasushi Okada e Katsutaka Jumbo Yokoyama hanno chiamato la loro via I-TO (2500 m, ED+ M6 WI5), che significa “filo, linea, relazione”; in parte in onore di Jack Tackle e Jay Smith, che avevano tentato la via due volte e condiviso i dettagli con Yokoyama. Gli alpinisti giapponesi sono scesi dalla cresta est, aiutati dalle inaspettate tracce fresche di un’altra cordata di alpinisti.
Note sull’autore
Katsutaka Yokoyama è soprannominato Jumbo perché, beh, è grosso. Viene dal Giappone, dove è membro dei Giri-Giri Boys, un gruppo informale di alpinisti che ha sistematicamente risolto impressionanti vie nuove in tutto il mondo. Yokoyama è ben noto ai nordamericani per le sue nuove vie nell’Alaska Range, incluso un massiccio collegamento delle vie Isis e Slovak Direct sul Denali nel 2008, su cui ha scritto un articolo sull’American Alpine Journal del 2009, la via Pachinko sul Denali.
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Course impressionnante.
Bravo aux alpinistes.
Impressionante. Una via ED+ di 2.500 metri va oltre la mia immaginazione.
Grandissimi rispetto e ammirazione. Un esempio di straordinario alpinismo, determinazione, positività e ricerca di una vera avventura totale.
Leggere queste cronache fa bene.
jumbo numero 1, una belva. Conosciuto mentre faceva pilar rojo in conserva con gli scarponi! Sembrava andare per funghi mantre noi ragliavamo come asini!
Accettazione e serenità interiore. E’ la chiave di volta.
le montagne intorno al Denali hanno perso il loro fascino. Lì è facile trovare informazioni, descrizioni dei percorsi e previsioni meteorologiche ragionevolmente accurate, tutte cose che riducono l’avventura. Inoltre, l’impegno è relativamente basso perché le fughe sono facili.
QUESTO SI CHE È ALPINISMO!