Identificazione di un artista
di Davide Scaricabarozzi
(pubblicato sul suo profilo fb il 27 marzo 2023)
Nell’estate 1974 i miei genitori mi avevano regalato per il compleanno adolescenziale La montagna a mani nude del modernissimo René Desmaison, loro ne sapevano poco o niente di libri di montagna (oggi letteratura alpina), anzi direi più niente che poco, ad esclusione dell’unico testo in materia che c’era nella libreria del soggiorno: Le mie montagne di Walter Bonatti, che mi aveva spaventato mica da ridere, ma nonostante l’incomprensibile e costante sforzo fisico misto a epiche tragedie che trasudavano da quelle pagine, ne rimasi folgorato e al pari della corrente elettrica ad altissimo amperaggio, irrimediabilmente e indissolubilmente attratto.
Il regalo per i miei dodici anni fu una precisa richiesta che trovò mia mamma “daccordomamicatantoperchélamontagnaèpericolosa” e mio papà sufficientemente possibilista e “daccordoperchétantopoidiventagrandeenonglienefregheràpiùuncazzo”.
Apposto…
Il libro di Desmaison l’avevo visto in inverno nella vetrina di Ricordi in corso Vittorio Emanuele, non avevo bisogno di sfogliarlo per sapere che l’avrei voluto, la copertina in bianco e nero con due rozze mani prese a stringere con nonchalance un paio di franchi appigli furono sufficienti.
Il primo capitolo, lo sapete tutti, parla del salvataggio sui Drus dei due tedeschi ormai impantanati da giorni e ben in alto sulla parete ovest.
Siamo nel 1966 e un’operazione di soccorso su una parete di questo genere non era mai stata effettuata prima, gli elicotteri non erano quelli di oggi e i due rischiavano seriamente di restare imbalsamati lassù per sempre.
Chi non ha mai visto i Drus – tutti dicono il Dru ma è sbagliato perché sono due: il Petit e il Grand – non può comprendere la potenza di questa montagna gotica.
Li vidi per la prima volta dal Montenvers lo stesso anno e qualche giorno prima che mi regalassero il libro, oltretutto era una giornata di merda con nuvole basse e pioggerellina desolante.
Poi si alzò una leggera brezza e in tardissima mattinata i Drus si palesarono più o meno nella loro interezza ed è proprio per questa improvvisa visione incompleta, ma sufficiente, che mi sconvolsero doppiamente.
È la solita faccenda del vedo non vedo che avrei imparato ad apprezzare in modalità demone mediano non troppo tempo dopo.
Quindi, quando lessi il capitolo del salvataggio dei teutonici l’immaginazione, aiutata dalla fugace vista dei Drus di qualche giorno prima a sua volta sostenuta dalle poche foto del libro di qualche giorno dopo, lasciò più spazio a un’acerba comprensione.
Del resto, se non conosci la carta geografica non puoi nemmeno sapere che minkia significhi globo terracqueo (NdA).
Alla fine i tedeschi furono salvati dopo un assedio alla montagna su tutti i versanti disponibili, ci fu pure un morto tra altri alpinisti presenti sulla montagna, seguirono polemiche a non finire e ne uscì il nuovo eroe, californiano di Pasadena, Gary Hemming che incarnava tutto il bello e tutto il maledetto iconografico di quei tempi.
Furono riportati a valle da un team franco-californiano che si prodigò oltremisura nelle mille mila vertiginose corde doppie lungo la via aperta dall’incommensurabile Royal Robbins e dallo stesso Hemming qualche anno prima.
Il ricongiungimento coi poveri incrodati avvenne grazie e soprattutto al baffone (in quegli anni però era sbarbato) François Guillot che si sciroppò, in testa a tutte le cordate, la dura e severa via Magnone che in quei giorni era in condizioni orribili: bagnata, vetrata e, per usare un eufemismo, scabrosa oltre il ragionevole.
Guillot? Un fuoriclasse.
La cronaca di questo salvataggio è facilmente reperibile da moltissime fonti, soprattutto nei libri di Desmaison, Mirella Tenderini e l’ultimo particolarmente intenso e intimista di Enrico Camanni, se non l’avete letta vi toccherà farlo per comprendere, almeno marginalmente, cosa abbia significato nell’ambiente della Chamonix degli anni Sessanta.
Da ragazzo rimasi molto colpito dalla figura di Hemming e sgomento per la sua fine.
Oggi, che sono un giovane ultrasessantenne, lo sgomento ha ceduto il posto a una trasversale comprensione che non giustifica, non giudica ma semplicemente si fa discreta e rispettosa verso l’inadeguatezza costante di un uomo sempre in conflitto perenne tra ambizione, generosità, insoddisfazione, sogno, precarietà e globale incapacità di bastare a se stesso.
Hemming sarebbe stato un grande artista, anzi lo era. Sebbene non sia stato in grado di razionalizzare ed esprimere tutta questa sua meravigliosa peculiarità.
Ed è proprio quello che ho detto a Camanni qualche sera fa a Milano, in occasione della presentazione del suo ultimo libro dedicato al californiano irresistibile e inquieto.
Modestamente sono convinto che non possa esistere un’espressione artistica che non passi attraverso le forche caudine di una sorta di sofferenza e disagio interiori, ma comunque da uno stato alterato della coscienza, fosse anche amore che nel suo estremo tocca l’ultimo punto di un cerchio imperfetto per chiuderlo definitivamente, in attesa di cominciare a disegnarne un altro.
La storia delle vite di tutti, alpinisti compresi, s’inerpica faticosamente nella nostra mente e nei nostri cuori.
C’è chi riesce ad esprimerla e c’è chi vi soccombe. Io sono grato a entrambe le categorie.
In questa foto di Desmaison ma anche in tutte le altre non ho trovato un’immagine che identificasse un artista…
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Camanni è un bravo narratore, come dimostrano anche i suoi due libri “gialli” che hanno come protagonista la guida Settembrini. Magari ne parleremo in futuro, visto che hanno come sfondo la VdA. Una VdA diversa da quella miserevole, fredda e tragica che fa da sfondo alla saga di Rocco Schiavone. Qui applica questa sua notevole capacità alla vicenda forse quasi più “umana” che alpinistica di Gary Hemming. Ne viene fuori una storia, un romanzo che ti coinvolge e non ti molla, pagina dopo pagina, anche se sai già come finirà. Per come è scritto potrebbe essere la base per una sceneggiatura di successo. Ogni capitolo ricostruisce un pezzo del complessa dinamica della personalità di quest’uomo, compresi i lati oscuri, senza omissioni pietose e ricostruendo anche lo sfondo storico-sociale dei luoghi e delle epoche che Hemming ha attraversato. Fino al finale tragico che lascia nel lettore una grande tristezza e malinconia e la solita domanda irrisolta che sorge di fronte a questi finali: possibile che nessuno si sia accorto del livello di deragliamento a cui era arrivato e non sia riuscito ad aiutarlo? Una domanda che sempre ci si pone anche di fronte ad altri suicidi di alpinisti famosi, una domanda che esprime più un desiderio che una reale possibilità: fermati, non sprecare così la tua vita. Un desiderio a posteriori che si scontra con la dura realtà di processi profondi che una volta innescati sono ben difficili da fermare, a maggior ragione se la persona in difficoltà pensa di farcela da solo e le persone baciate in un certo momento della loro vita dalla fama, fanno fatica ad accettare l’idea di essere aiutate quando magari i riflettori si spengono o sono meno brillanti e ci si trova di fronte alle banalità del quotidiano.
Conoscevo la tua bravura coi Negroni, non con la scrittura: grazie Davide!
De grandes qualités d’alpiniste, mais un esprit tourmenté, et une triste fin pour cet homme énigmatique et attachant.
Ho conosciuto GH dai racconti di quel topo di biblioteca che si chiamava Claudio Cima e ripercorso la via di Lele e Claudio al Pizzo Boga per anni. Mi fido di Camanni e corro a catturare il libro.
Dal bel libro di Camanni emerge ancor più, rispetto a quello di Mirella Tenderini, che Hemming era uno per cui l’alpinismo sarebbe stato un qualcosa di passaggio e che non era di certo un grande arrampicatore. Questo senza nulla togliere al personaggio nella sua particolare interezza.
Hemming era un tormentato. Solo così si hanno peculiarità nella persona, con picchi estremi che esprimono sentimenti ai limiti. Cosa difficile da comprendere dalla persona comune, specie per l’esito negativo finale che, per queste ultime, cancella ogni caratteristica positiva che c’è stata in precedenza.
Di Desmaison avevo apprezzato ancor più di: La Montagna a Mani Nude, Professionista del Vuoto. Avrei vissuto in seguito sulla mia pelle le situazioni a la Curteroche o della pioggia sulla lamiera del tetto del rifugio la mattina presto che ti impedisce di andare al lavoro ma ti regala il poter restare sotto le coperte. Chi se le ricorda?
Grazie Davide! Bella analisi.
Bellissimo ….magistralmente scritto e comunicativo …..analisi a 360° dell’autore e del sua idea di alpinismo