Il Canto del Gallo

Metadiario – 103 – Mezzogiorno di Pietra – 8 (AG 1981-009)

Lo Sballo di San Vito
In questa parte occidentale della Sicilia, fuori dalla linea battuta tra Palermo e Trapani, invisibile al di là di una cospicua catena montuosa, si prolunga in mare un promontorio roccioso e imponente, alla base del quale si stende un piccolo tratto di pianura, emergente dal mare di pochissimi metri, un tavolato che a poca distanza dalla costa si sprofonda nell’abisso marino. Ma se non si pensa alle profondità del mare e si guarda solo il Monte Monaco 532 m emergere, meravigliosamente bianco e verticale, in qualche punto giallo e strapiombante, sul tavolato arido, senza piante e battuto dal vento, appare un fenomeno decisamente diverso, singolare. Una scogliera con il collare. Dietro a questa bella massa rocciosa s’intravedono altre montagne, talvolta ricoperte di nebbia scura, talvolta lontane come montagne della luna, estranee a questa costa che vorrebbe parlarti solo di luce, di sole e di calore, della vita nell’abitato di San Vito Lo Capo. Lassù è il regno della sete e della solitudine, povero pascolo degradato e cretacico; l’euforbia arborescente infila le sue radici anche nei terreni più sassosi e capta zone umide anche a notevole profondità, mentre gli altri esseri viventi non possono far questo e preferiscono stare più in basso.

La parete est del Monte Monaco, San Vito lo Capo
Fabrizio Antonioli sulla 1a L dello Sballo di San Vito, 1a ascensione, 20 settembre 1981

La parete settentrionale di Monte Monaco, rossiccia e strapiombante, è solcata da oblique fessure aggettanti, interrotte da grotte ricurve striate da colate di guano in alcuni punti. Lì abitano il passero solitario, il piccione selvatico, il gheppio e il falco pellegrino. Quando il vento è assente, dal Monte Monaco si sente il rombo lontano del decollo degli aerei da Punta Ràisi: un tuono vago e distante che sulle prime sembra una minaccia ma che poi la nostra mente razionale accetta senza troppo sforzo, senza ricordarsi che la prima sensazione è quella che conta e che la minaccia è reale.

Marco Marantonio sulla 2a L dello Sballo di San Vito, 1a ascensione, 20 settembre 1981
Alessandro Gogna, 1a ascensione dello Sballo di San Vito

Sullo Sballo di San Vito (parete est del Monte Monaco) la sera del 7 ottobre 1981, Fabrizio, Marco e io poco mancò che bivaccassimo: ci eravamo alzati un po’ tardi, zuppi fradici di una notte estremamente umida e sciroccosa. La nostra compagnia zingaresca, in cinque nel pullmino, si era accampata al meglio nel giardino di una villa in costruzione e solo dopo molto tempo fummo pronti a salire sul pilastro. Per la prima volta Marco poteva scatenarsi, i giorni di quasi inattività lo avevano preparato a essere quello scalpitante di cui avevo bisogno.

Sua è l’idea del nome, perché fin dall’inizio quella magnifica cavalcata gli sembrò uno sballo.

– Mi sembrava di essere sulle onde. Ne arrivava una che ci portava su, poi un’altra. Così, dentro di me, cominciai ad accettare i ritmi forsennati e a divertirmi.

Fabrizio Antonioli, 1a ascensione dello Sballo di San Vito
Sballo di San Vito, 1a ascensione, Marco Marantonio su ultimo tiro difficile

Il Canto del Gallo
Le montagne di calcare del cretacico che circondano la Conca d’Oro sono chiamate Monti di Palermo. Monte Gallo è un enorme promontorio dirupato emergente tra le spiagge e le baie di Mondello e di Sferracavallo, entrambe centri balneari e di soggiorno domenicale ed estivo di Palermo. Non si può quindi parlare di natura selvaggia e incontaminata in questo caso: per esempio una strada costiera parte da Mondello e arriva fino al Faro di Capo Gallo, per poi continuare fino a Sferracavallo.

Arrampicare a Capo Gallo non è come al Pellegrino, dove si ha la città ai piedi. Il giorno prima sul Monte Pellegrino Marco Bonamini, Nella e io eravamo sul Pilastro del Bunker, spigolo Valdesi. Sotto Monte Gallo è il mare, ma anche la cittadina satellite, Sferracavallo, e le sue villette che continuano purtroppo ad avanzare sul pendio cosparso di rada gariga, composta principalmente da euforbia arborea, asfodelo, ferula, con radi cespugli di olivastro e tappeti erbosi di calendule. Quando si affiora oltre l’orlo superiore delle pareti, appare un altopiano carsico e desolato nel quale si respira per un attimo una solitudine che non è di Palermo e delle zone limitrofe.

Monte Pellegrino, Pilastro del Bunker

In vetta al Monte Santa Margherita, alla fine di Canto del Gallo eravamo felici, tutti e cinque affratellati dalla bellezza di ciò che avevamo appena concluso: Roby Manfrè, Giorgio Mallucci, Fabrizio Antonioli, Marco Marantonio e io. Ma è di breve durata. Si ode un vago ronzio di sottofondo, ci si sente circondati dalla città e presto, quando si scende per i ripidi ghiaioni incassati nei canaloni, l’incantesimo di quel 9 ottobre si rompe.

Marco Bonamini sul Bunker, 1a L dello Spigolo Valdesi, Monte Pellegrino (8 ottobre 1981)
Ornella Antonioli sulla 2a L dello Spigolo Valdesi al Bunker (Monte Pellegrino), 8 ottobre 1981

Forse non bisogna richiedere troppo ai tempi che stiamo vivendo. Alla maggior parte dovrebbe bastare isolarsi anche per poche ore e anche se in realtà non si salta lo steccato che ci rinchiude forse per un po’ si ha l’illusione di essere dall’altra parte, ci sono avventure dai prezzi più vari e non sempre si ha voglia di pagare il massimo per garantirsi delle esperienze che si possono rivelare anche molto scomode. Arrampicare a Monte Gallo vuole anche dire essere osservati da molte persone. In Sardegna, quando si crede di essere soli, in realtà si è sempre seguiti con i binocoli da qualche pastore che sorveglia la propria terra: la stessa persona apparirà «per caso» più tardi, quando avrà concluso che la nostra presenza non è pericolosa e vorrà conoscere di noi qualcosa di più.

Capo Gallo da Sferracavallo. Il Canto del Gallo corre sull’evidente pilastro tra ombra e sole.
Capo Gallo, via Canto del Gallo, 1a ascensione. Giorgio Mallucci sulla quinta lunghezza

Al fondo della discesa ci è capitato di essere invitati da una famiglia in villeggiatura sul litorale, dai coniugi Enzo e Ciccina Liga (ottima cantina di vino rosso): mia moglie Nella era rimasta lì nei pressi, al pullmino, e loro avevano potuto iniziare un dialogo. In queste persone era evidente la curiosità, ma ci apparve anche chiaro come loro riuscissero a non lodare e non biasimare: semplicemente rispettare che quello che riconobbero subito come loro conterraneo Roby si fosse unito a dei matti di Roma e di Genova. Per salire dove le rocce erano più spaventose. Noi eravamo ospiti, e in qualità di ospiti ci dimenticammo di aver fatto una gran bella cosa, quel giorno. Ci servì a non montarci la testa.

Capo Gallo, Giorgio Mallucci e Roby Manfrè sulla 6a L del Canto del Gallo, 1a ascensione, 9 ottobre 1981
Capo Gallo, Giorgio Mallucci sulla 4a L del Canto del Gallo, 1a ascensione, 9 ottobre 1981

Mallucci e Antonioli il mattino dopo ci salutarono, tornavano a Roma.
Giorgio Mallucci è nato a Roma il 10 ottobre 1947. Perito tecnico in telecomunicazioni, è stato insegnante di laboratorio di elettronica negli istituti tecnici e professionali, attualmente in pensione. Per cinque anni presso la SISS dell’Università di Roma 3 è stato incaricato del corso di “laboratorio didattico dell’arrampicata sportiva” e per alcuni anni è stato responsabile nazionale della formazione della lega montagna UISP. Nelle estati dal 2003 al 2007 è stato responsabile dei corsi di formazione per ragazzi afghani come accompagnatori di montagna per conto di Mountain Wilderness. Ha arrampicato in ogni momento libero della sua vita, e oggi ancora di più, con la sua compagna Elisabetta.

Il Canto del Gallo al tramonto

Fabrizio Antonioli, romano, è nato a Milano il 22 giugno 1953, laureato in geologia nel 1977, geomorfologo ed esperto di sollevamento di livello del mare. Autore di 75 lavori su riviste internazionali, è abilitato all’insegnamento universitario come prof. Ordinario. Fotografo subacqueo, ha esplorato un centinaio di grotte sommerse dal mare. Istruttore nazionale di alpinismo e arrampicata del CAI, è in attività dal 1974. Direttore della Scuola del CAI di Palermo, ha scritto alcune monografie di arrampicata. Ultimamente si è dedicato con successo ai film di arrampicata (Sutt’u picu ru suli, 2018 e L’uomo che accarezza la roccia, 2021).

Pizzo Grotta Màscoli, parete sud-ovest. La via Pericolo aereo corre lungo l’evidente pilastro che, con partenza nella zona basale sinistra della foto, giunge direttamente alla vetta (tra parete gialla e grigia)
Pizzo Grotta Màscoli (Punta Raisi), Marco Marantonio sul diedro di Pericolo Aereo, 1a ascensione, 11 ottobre 1981

Pericolo aereo
«Sicilia, dove tutte le canzoni sono tristi» è il titolo di un bel servizio del National Geographic Magazine, marzo 1976, a cura di Howard La Fay. L’autore aggiunge che anche le canzoni divertenti nascono sempre, in Sicilia, da situazioni tragiche.

Anche il mio Mezzogiorno di Pietra è diventato una canzone triste, proprio perché in questo momento è la pietra che fa le spese di millenni di dominazioni. In Sicilia ci furono i Fenici, poi vi dominarono i Greci, i Cartaginesi e i Romani. Poi vi furono i Bizantini, seguiti dai Saraceni, seguiti a loro volta dai Normanni. Poi gli Svevi, i Francesi e gli Spagnoli. Quando nel 1860 arrivò Garibaldi per unire l’Italia, la maggior parte dei siciliani lo vide solo come un nuovo invasore. Prima erano gli abitanti a fare le spese delle dominazioni, della vessazione, della signoria. Ora però, come nel resto dell’Italia, è spesso la terra a essere attaccata.

Eravamo a Punta Ràisi, esattamente sullo sperone sud-ovest del Pizzo Grotta Màscoli, una parete lunghetta, ostica, posta sopra a un aeroporto internazionale e quindi teatro delle rombanti virate dei jet in atterraggio o decollo, ma anche posta sopra a quella provincia degradata che in seguito partorirà la strage di Capaci.

Pizzo Grotta Màscoli (Punta Raisi), Marco Marantonio all’ultima sosta di Pericolo Aereo, 11 ottobre 1981
Marco Marantonio in cima al Pizzo Grotta Màscoli dopo la prima ascensione di Pericolo Aereo, 11 ottobre 1981.

Quell’11 ottobre 1981 eravamo solo Marco e io: chi studiava, chi lavorava, chi era tornato a Roma. Solo noi eravamo i veri fancazzisti, e così ci eccitavamo su per la gariga che portava all’attacco faticoso.

Intitolammo così quella via, perché questo nome richiama immediato il disastro aereo. Un gruppo di persone, tra loro generalmente sconosciute, unite dai motivi più diversi e da tanti biglietti uguali, s’imbarcano con un’unica destinazione che a volte può essere la morte: un’esecuzione moderna, asettica, senza sapere fino all’ultimo momento la sorte tragica di un decollo o di un atterraggio su una pista folle, nel samaritano rispetto della non sofferenza, nell’indifferenza della scatola nera, nel dubbio atroce di morire senza sapere perché. Il Pericolo aereo c’è. Un pericolo per i viaggiatori, ma anche un pericolo per tutti noi. Così si chiama anche la nostra via, balcone aperto sulla tragica pista che vedevamo dall’alto del Pizzo Grotta Màscoli. Anche noi, a nostro modo, uccidiamo il mito della montagna come luogo eletto dagli dei. La conoscenza che portiamo presto penetrerà anche nella mente del pastore e il pericolo sarà ancora più reale: non il pericolo che il mito muoia, perché quello è immortale! Il pericolo che noi non comprendiamo quello che stiamo facendo e quindi soccombiamo noi come topi, come quelli che precipitarono nel mare dopo un raccapricciante vuoto incendiato in caduta libera o come quelli che si sono schiantati sulle immobili pareti di Punta Ràisi. Tutto si arresterà, anche le mani dei bambini che salutano dalla terrazza dell’aeroporto.

Tra luce e ombra, il Pilastro della via Pace di Chiostro (Pizzo Monaco o Faraglione di San Vito)
Faraglione di San Vito. Marco Bonamini (dietro) e Roby Manfrè sulla 2a L di Pace di Chiostro, 1a ascensione, 12 ottobre 1981.

Pace di Chiostro e Capo Zafferano
Il 12 ottobre tornammo ancora a San Vito Lo Capo, rimaneva l’evidente problema di salire lo sperone ovest del Faraglione del Pizzo Monaco 225 m (ma oggi tutti lo chiamano Pizzo Monaco: e il Pizzo, quello vero, che sta ben al di sopra è diventato Monte Monaco). La salita non c’impensieriva, sembrava ben fattibile a tutti e quattro i componenti della squadra, Marco Bonamini, Roby Manfrè, Marco Marantonio e io. Ne risultò Pace di Chiostro, una salita difficile ma non certo estrema, con tutte le caratteristiche per diventare una grande classica, come infatti poi divenne: specie dopo che qualcuno negli anni seguenti si prese la briga di smantellare un ammasso di palme nane che impediva il passaggio e che avevamo chiamato “la piovra”.

Marco Marantonio sulla 2a L di Pace di Chiostro, 1a ascensione, 12 ottobre 1981
Faraglione di San Vito. Marco Marantonio affronta il passo della Piovra, Pace di Chiostro, 1a ascensione, 12 ottobre 1981.

Sul Pizzo Monaco, le corde non volevano saperne di essere recuperate. Ci fu una risalita a prusik mia, sistemazione dell’ancoraggio, calata, ma non servì a nulla. Salì quindi Marco Bonamini e questa volta si riuscì ad avere indietro le corde, che non scorrevano causa il forte attrito di una roccia non comune.

Questi i miei ricordi, a volo d’uccello, su San Vito Lo Capo. Vi sono tornato, per fortuna. L’arrampicata sportiva si è sviluppata in Sicilia in modo impressionante, grazie alla bravura dei ragazzi siciliani e di qualche visitatore. I territori dove si arrampica rischiano di rimanere intatti per ancora un bel po’, e questo è un grandissimo successo, per tutti.

Faraglione di San Vito. Marco Bonamini sulla 1a L di Pace di Chiostro, 1a ascensione, 12 ottobre 1981.
Faraglione di San Vito, Marco Bonamini arriva in vetta a Pace di Chiostro, 1a ascensione, 12 ottobre 1981

È stato un grande lavoro quello di trovare itinerari sportivi e di attrezzarli in modo che la frequentazione non sia limitata ai più avventurosi, necessariamente pochi. Mi auguro anche che possa rimanere adeguato spazio per gli itinerari più “alpinistici”, perché la fatica è il trait d’union traNatura e Gioia. Senza la fatica non ci sarebbe mai vera gioia, non si potrebbero sopportare le mille e mille prove che ci sono inflitte quotidianamente. La fatica è quindi un mezzo per unirsi, in qualche modo assai poco definibile, con la gente del luogo, che con la fatica ha sempre convissuto. La fatica è una lingua universale che tutti possono capire. Purtroppo succede che spesso amministrazione, idee, progetti siano in mano a persone che non hanno mai faticato.

Roby Manfrè conduce la 4a L della via del Frate (Roccia dello Schiavo), 13 ottobre 1981. Foto: Marco Marantonio.

Tornammo a Palermo. Il 13, mentre Marantonio e Manfrè salirono la via del Frate al Monte Pellegrino, feci con Bonamini il Prisma del Diavolo. Fu una salita rilassante, Marco era felice di farmi conoscere i suoi tesori.

Fu l’ultima volta che vidi Roby. Nato a Palermo il 15 luglio 1961, Roby Manfrè Scuderi era destinato a diventare un grande, come testimoniano tutte le pagine a lui dedicate anche in questo libro. In totale ha aperto 373 vie, molte delle quali (circa 150) ancora oggi attendono di essere ripetute. Morì arrampicando in solitaria sulla via a Giulio (Schiavo), il 18 giugno 1994.

Marco Bonamini è nato a Palermo il 30 luglio 1956: appassionato anche di speleologia, si è poi laureato all’università di Palermo in geologia, dedicandosi poi professionalmente alla stabilità dei pendii e dei fronti rocciosi. Istruttore Nazionale del CAI dal 1979, componente del CNSAS dal 1975, ha aperto altre vie di roccia in Sicilia. È sposato con due figli.

Prisma del Diavolo, Monte Pellegrino.

Intanto continuava il mio lavorio di pensiero. Non è sulla roccia che avremo gravi scompensi ecologici. I siciliani sono sommersi di carta stampata, di dépliant, di libri, di pubblicazioni, di libercoli tutti uguali, tutti tendenti a dimostrare quanto la Sicilia sia bella. Riedizioni di vecchie guide che riprendono le stesse frasi scontate, i boschi ricchi di selvaggina, i graziosi villaggi, i solinghi eremi, le spiagge incontaminate. Io ho ricordi assai diversi, ho registrato le sensazioni provate da me e dai miei compagni in determinati luoghi: emozioni che in genere accostavano alla bellezza la nausea di continue atrocità ai danni della terra. Non è colpa dei siciliani, non è colpa del governo, non m’interessa dare colpa a nessuno. Vedo attorno solo distruzione e il millantato progresso di un Capo Zafferano che non ha più nulla dell’originario.

Marco Bonamini sul tiro seguente al tiro chiave della Diretta al Prisma del Diavolo, Monte Pellegrino, 13 ottobre 1981

In origine unito al massiccio del Monte Catalfano da un colletto stepposo, sul quale soffiavano i venti turbinanti da un arco naturale a pochi metri dalle onde, e abitato da un solitario faro invisibile se non dal mare è oggi solo una propaggine insulsa di una periferia benestante, residenza serale della borghesia di Bagheria, squallida réclame di cioccolatini al bacio. Il mare continua a ruggire sulle scogliere, le rocce seguitano a strapiombare sulle profondità marine, mare e vento nascondono ancora il rumore di una distruzione meccanica che avanza, ma siamo quasi alla fine, anche alla fine di ogni guida e di ogni libro.

Marco Bonamimi sulla 4a L della Diretta al Prisma del Diavolo, Monte Pellegrino, 13 ottobre 1981
Capo Zafferano, Marco Marantonio scende in doppia l’arco naturale, 13 ottobre 1981

Marco e io, il pomeriggio del 13 ottobre andammo a fare la traversata ovest-est di Capo Zafferano, come ci avevano consigliato gli amici palermitani. A vivere per una mezz’ora tra rocce e onde, al vento che passa e va; d’ottobre si può ancora fare il bagno. È questione di sintonia, forse Marco riusciva a vedere di là del mare, senza porsi il limite geografico di questo: oltre alle acque è ancora la terra e là ricomincia la stessa storia che qui vogliamo fuggire, perché anche altrove l’uomo si sta espandendo. Imprigionato in una mente che sa, l’uomo non può fuggire perché vede che al di là di una sbarra ve n’è un’altra più grande e questa non è altro che mancanza di fede.

Marco Marantonio lambito dalle ondate nella traversata ovest-est di Capo Zafferano, 13 ottobre 1981
Rocca Busambra da est, dalla Portella del Vento. Strada sterrata per Ficuzza.

Vuoto a perdere
Avevo visto qualche fotografia di una montagna all’interno, la Rocca Busambra, e mi sembrava che ci fosse terreno per fare qualche bella salita. In questo mi confortavano alcune “dritte” di Maurici, che in seguito se ne sarebbe occupato nella Guida dei Monti d’Italia, su alcune salite non bellissime compiute alla fine della guerra da Giovanni Galluzzo, Luigi Di Giorgio e altri compagni. Ma nel complesso, nessuno dei giovani arrampicatori ne sapeva nulla, quindi andammo allo sbaraglio muniti delle mie cartine e di tanta buona volontà. Con Nella e Marco girammo fino alle ultime luci del 13 ottobre, e poi ancora al mattino, per avere una mappa reale della Rocca Busambra e dei suoi accessi. E finalmente decidemmo di andare a tentare la struttura più evidente ed elegante, lo sperone nord-est.

Rocca Busambra da nord-est. Tra sole e ombra, Vuoto a Perdere

Purtroppo ne risultò un itinerario non all’altezza delle aspettative. La linea è bella, di 8 lunghezze, ma la roccia spesso canaglia ci alternava tratti non difficili con sezioni molto impegnative. All’ambiente di Vuoto a perdere, abbastanza cupo, almeno quel giorno, si aggiungeva la paurosa presenza di nugoli di vespe. Il vespaio non era visibile, ma non doveva essere distante. A volte avevamo l’impressione di essere attaccati, poi miracolosamente questo non succedeva. L’arrivo in vetta fu una liberazione e a quanto pare la via negli anni a seguire non ispirò nessuno a ripeterla.

Rocca Busambra, sperone nord-est. Marco Marantonio sull sesta lunghezza di Vuoto a Perdere, 1a ascensione, 14 ottobre 1981

Ma la giornata, per certi versi negativa (“poco luminosa”, la definì Marco), non finì lì. Tornati al pullmino da Nella, che intanto era andata in giro a fare fotografie, decidemmo di abbandonare subito la zona e di dirigerci verso le Madonìe. Sulla strada per Misilmer e Bagheria, poco dopo Marineo dove avevamo comprato qualcosa che ci mancava per fare cucina, a un tornante a sinistra ci fermammo per farci una pasta nel piazzale all’interno del curvone. Avevamo una fame da lupi. Avevamo appena messo l’acqua sul fornello che nel piazzale arrivò sgommando una 126 bianca. Ne uscirono tre loschi figuri. Il capo, basso, tarchiato, coppola, camicia colorata e aperta, con i due guardiaspalle. Il capo aveva una pistola infilata nella cintura.

– Perché avete tolto il filo spinato e siete entrati qui? Non si può stare qui!
– Quale filo spinato?
– Quello là, che è lì all’ingresso.

Rocca Busambra, uno sfocato Alessandro Gogna sulla 7a lunghezza di Vuoto a perdere, 1a ascensione, 14 ottobre 1981.

Noi non vedevamo nulla. Uno dei due tirapiedi si allontanò una decina di metri e ci fece vedere, scostando ciuffi d’erba, un rotolo di filo spinato, là da chissà quanto tempo. Nel frattempo il secondo tirapiedi si avvicinava al pullmino per curiosare. Nella lo salutò freddamente e non si allontanò dal fornello.

– Non l’abbiamo arrotolato noi. Non vedete che è così da anni?
– Cosa state facendo qui? – sempre meno amichevole.
– Ci siamo fermati per farci un po’ di spaghetti – sempre più in guardia.
– Non potete, dovete chiedere il permesso.
– Il permesso per fermarci a lato di una strada, in un bosco, in una piazzuola? E a chi, poi?
– Minchia, a noi lo dovete chiedere, chiaro?
– Va bene, allora ce ne andiamo subito. Nella, spegni il gas, che andiamo.
– No, potete restare… però, quando andate via, rimettete a posto il filo spinato!
– Va bene, d’accordo – conclusi desideroso solo che se ne andassero. Ci mancava anche la rissa con i mafiosetti attaccabrighe.

E se ne andarono salutandoci quasi con scherno.

Rocca Busambra. Marco Marantonio in vetta dopo la prima ascensione di Vuoto a perdere, 14 ottobre 1981.

Incazzati come poche altre volte, cuocemmo la pasta al sugo di pomodoro, e la trangugiammo senza riuscire a pensare ad altro che alla violenza subita.

Poi, poco prima di ripartire, Marco disse: – Belin, col cazzo che ora gli mettiamo giù il filo spinato!
– E invece lo facciamo, e subito. Non vorrei mai che ci stessero spiando.

Imprecando a bassa voce facemmo il lavoro, ben attenti a non ferirci. Poi mettemmo in moto e via da quel posto di merda. Dopo qualche km, la 126 bianca ci superò salutandoci con il clacson…

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Il Canto del Gallo ultima modifica: 2022-08-09T05:19:00+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Il Canto del Gallo”

  1. Grazie per i racconti d’avventura, le descrizioni paesaggistiche e le splendide foto. 

  2. Canto del Gallo is a beautiful climb that we very much enjoyed. Looking forward to returning for more. Grazie and best wishes, Scott and Patti from Colorado

  3. Anche solo per semplice conoscenza è sempre bello leggere questi articoli che parlano di montagne (per me sconosciute) e di varia umanità che si può trovare al sud.

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