Il Catinaccio (AG 1962-006)
(dal mio diario)
Soraga di Fassa, 13 luglio 1962. Sveglia alle 7.30. Mi alzo, mi vesto, mi lavo, mangio. Ultimi preparativi con il sacco da montagna, che è gigantesco. Sono vestito con pantaloni alla zuava e scarponi entrambi nuovi.
Mi carico sulle spalle il gravoso compagno, saluto mamma e nonna e da Zester scendo a Soraga collaudando così gli scarponi: per ogni evenienza ho con me le scarpe da tennis in caso di dolori insopportabili.
Compro il pane e aspetto la corriera sotto sguardo incuriosito dei villeggianti poltroni e fanatici dell’automobile.
La parete est del Catinaccio dalla conca del Gardeccia. Foto: Paolo Lazzarin
Quando arriva, salgo assieme ad altra gente. Dopo un po’ di coda, da Vigo prendo la seggiovia per il Ciampedie. Senza indugio attacco a camminare, già affascinato dal prato e dai boschi di questo luogo, immerso tra i Mugoni e il Larséc, con lo sfondo del Catinaccio e delle Torri del Vajolet, un fascio di cuspidi e pinnacoli. Mentre sorpasso (non si finisce mai di sorpassare…) altri gitanti, uno mi urla dietro: “Largo alla freccia delle Dolomiti!”.
Io continuo imperterrito sui lievi saliscendi della mulattiera nel bosco rado. Al rifugio Catinaccio prendo dell’acqua, poi oltrepasso il rio dei Davoi e il rifugio Gardeccia 1949 m. Dominata dai Dirupi di Larséc, qui davvero imponenti, la conca sembra proprio chiudersi poco oltre, a nord, alle Porte Neigre, sopra alle quali svettano le Torri del Vajolet. La liscia ed enorme parete est del Catinaccio fa da immediato sfondo a questa pace e grandiosità. Numerosi fienili e qualche costruzione che fa capolino da qualche macchia boschiva impreziosiscono l’ambiente, già suggestivo di suo.
Il versante ovest del Catinaccio visto dal Passo Santner. E’ segnato l’itinerario della via normale con le calate a corda doppia
Passando per gli ultimi pascoli e fienili m’incammino verso quella che sembra la chiusura della valle. Con alcune serpentine nei detriti mi avvicino al salto roccioso delle Porte Neigre e, dopo aver incontrato il sentiero che viene dal rifugio Coronelle, rasentate le rocce della Punta Emma, piego verso destra e, con alcune curve, sono sulla spianata dei rifugi Vajolet e Preuss 2243 m. Il piccolo pianoro cade verso sud e verso est con arditi salti rocciosi; a ovest si alzano il superbo gruppetto delle Torri del Vajolet, l’omonima e dirupata Gola, la Punta Emma e, di scorcio, la sempre più possente parete est del Catinaccio.
Ma non mi fermo e continuo rapido verso il rifugio Re Alberto I. Attraverso qualche chiazza di neve e per il sentiero ripido e a gradini rocciosi arrivo alla conca con il piccolo laghetto ancora ghiacciato, accanto al rifugio, ai piedi delle famosissime Torri.
Appena oltre al rifugio, verso il Passo Santner, dato che non sono ancora ben allenato, mi siedo per terra e mangio la frutta sciroppata. Mi sento un po’ stanco, forse è colpa dello zaino enorme. Mi riprendo e riparto, fino a raggiungere in breve il Passo Santner 2741 m e il suo rifugetto. Anche qui non mi fermo e proseguo diretto, salendo una placca di neve, all’attacco del Catinaccio.
La più alta delle calate in doppia della via normale al Catinaccio
Quante volte avevo guardato le fotografie di questa bellissima muraglia arrossata dalle luci del tramonto (la famosa enrosadira). Questo è il punto in cui la parete è meno alta, poco più di 150 metri. E la via che voglio salire è stata vinta per la prima volta il 31 agosto 1874 da Charles Comyns Tucker e Thomas Henry Carson con la guida François Devouassoud.
Salgo dapprima dolcemente sulla neve, poi ripidamente fono al piede delle rocce della parete ovest. Attacco a sinistra del punto dove la neve arriva più in alto in un ripido camino e, superato un tratto un poco strapiombante, proseguo nel camino verticale, con buoni appigli e appoggi, fino a che si allarga a piccola gola rocciosa. L’enorme sacco che porto mi ha creato qualche difficoltà, così appena il terreno me lo permette mi libero del fardello e lo deposito sotto a una lapide.
Più agilmente proseguo uscendo a sinistra in parete, ancora su ripide rocce appigliate. Ora dovrei tornare a destra nel camino, ma mi viene un attacco di fifa. Sono solo, il tempo è brutto e c’è un vento che porta via. Guardo scoraggiato la parete superiore che mi sembra un muro; guardo in basso al Passo Santner: due cordate si stanno preparando per la stessa mia via. La speranza rinasce in me, progettando di aspettarli e di accodarmi.
Per un po’ sto lì a gingillarmi, poi quando reputo sia il momento scendo senza fretta fino al mio zaino. Qui vengo sorpassato dalla prima cordata che è appena uscita dal camino. Apro lo zaino e mi metto il berretto, poi li seguo. La cordata è eterogenea, con uomini e donne, credo anche di diversa nazionalità. In tutto sono sette, compreso il capo. Lentamente ci snodiamo fino al punto da me raggiunto prima, poi andiamo oltre. Sono guardato benevolmente da alcune signore alpiniste della cordata. Alla fine pieghiamo a destra, circa dieci metri sotto a tratti di parete giallo-rossi pervenendo così al margine sinistro della gola abbandonata prima. Parlano di III- nel camino e di II in parete. Giunti in una caratteristica nicchietta mi separo da loro e, per un ultimo tratto di camino poco inciso, salgo per una dozzina di metri fino alla forcellina sulla cresta nord-nord-est. Qui erigo un ometto (non si sa mai) per il ritorno e proseguo a destra sulla cresta.
Ora non ci sono più difficoltà e viaggio spedito, sorpassando anche una cordata di un giovane e un anziano, che non so da dove spuntino.
Intanto arrivo a un’altra forcelletta e, di fronte a un dirupo, non so che fare. Non mi sembra si possa aggirare a sinistra: e di fronte mi fa un po’ paura. Così mi risolvo ad attendere i due di prima. I quali, arrivati, attaccano di fronte. A me questo non va, perché sono slegato, e riguardo se posso passare a sinistra. Questa volta ci riesco, arrivando all’orlo superiore del risalto proprio quando il giovane si appresta a fare sicura al vecchio.
Intanto, continuo con facile e aerea arrampicata fino alla cima, 2981 m, dove ci sono già due austriaci. C’è un sole pallidissimo. Mi preme scendere. In dieci minuti arrivo al forcellino con l’ometto e mi ributto nella parete occidentale, incontrando varie cordate. Scendo con la schiena alla parete, cioè male: però mi riesce più comodo. Arrivo allo zaino, me lo carico addosso e mi accingo alla discesa del camino.
la cosa si prospetta alquanto ardua. Dapprima cerco di abbassarmi oltre l’orlo, ma non ci riesco per la paura che il peso mi sbilanci; poi ritento levandomi il sacco e scendendo con difficoltà mezzo metro più basso: niente da fare, non riesco a riprenderlo. Mi vergogno a dirlo, ma a quel punto uso un sistema che, se qualcuno mi vedesse, sarebbe giudicato da matti. Mi metto con il sedere sull’orlo del camino, con i piedi cerco gli appoggi e poi, buttando la pancia nel vuoto, cerco di voltarmi con la faccia alla parete. E ci riesco, ma poi scivolo con il piede sinistro. Per fortuna mi tengo con le mani all’orlo del camino. Rimetto il piede a posto e scendo in spaccata abbastanza bene. Alla fine, stufo, faccio un gran salto e finisco nella neve. Scendo sul nevaio e, raggiunte le rocce e la ghiaia, apro il sacco e mangio.
Devo friggere un uovo: con l’aiuto di due signorine riesco a non carbonizzarlo completamente. Insomma, è buono. Dopo ingurgito pane e prosciutto, frutta e zucchero.
Gruppo del Catinaccio (Dolomiti occidentali), Croda di Re Laurino e Catinaccio (Rosengarten) dai Prati di Cobleggio. Foto: Federico Raiser
La “gita” è finita, ma io non voglio che sia tale. Decido così di scendere al rifugio Coronelle, lungo la via ferrata. La sfida è di non toccare con mani piedi alcuna opera metallica. Scendo su neve, poi risalgo ad una forcella tra la montagna e gli Aghi di Schroffenegger. L’ambiente è fantastico, scosceso e selvaggio, gradini, camini e cengette. Solo una volta non riesco a evitare una scaletta di ferro che, noto, copre gli appigli. Dopo il cengione, scendo al rifugio, ancora evitando la ferraglia. Verso ovest la vista domina la vastissima zona di prati e boschi che si allunga fino a Bolzano, vedo anche i ghiacciai tra l’Adamello e le Alpi Venoste. Di buon passo seguo il sentiero sotto alla Roda di Vael, poi aumento l’andatura per raggiungere una comitiva che sta girando sotto la Punta di Masaré e credo sia poco distante dall’Aquila di Christomannos. In questa specie di gara raggiungo il rifugio Roda di Vael e la sottostante Malga Vael, dove mi fermo a mangiare tonno, pere e pesche. Continuo a pancia piena fino nel bel mezzo del Vajolon, aggiro il costoncino roccioso delle Rondolae e proseguo fino al rifugio Ciampedie. Qui non degno neppure di un’occhiata la seggiovia e mi butto giù per il sentiero 544, tortuoso e ripido, fino a Vigo di Fassa. Evito anche di prendere la corriera, perché togliendomi gli scarponi, che a questo punto mi fanno un po’ male, e sostituendoli con le scarpe da tennis m’incammino verso Soraga.
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Mi torna tutto, anche perché quell’anno anch’io prendevo la seggiovia per il Ciampedie, tranne l’uovo da friggere e le due signorine.
Grazie Alessandro, mi hai riportato in una dimensione di avventura che appartiene ai ricordi. Si avventura, perchè l’avventura non è fatta di difficoltà e neanche di luoghi selvaggi. La si può ritrovare sull’uscio di casa perchè è dentro di noi.