Il destino dell’exploit

Il destino dell’exploit

Gli alpinisti trentini sono sempre stati di casa sulle belle pareti di calcare che incombono sull’alta valle del Sarca. A cominciare da Bruno Detassis e il suo capolavoro sul diedro del Piccolo Dain, continuando poi sulle grandi pareti del Brento e del Monte Casale che hanno poco da invidiare alle più note muraglie della Marmolada o del Civetta.

Negli anni ’80 però questa valle diventò la mecca dei giovani arrampicatori europei: “riscoperta” inizial­mente da “maghi” come Manolo, Roberto Bassi o Heinz Mariacher, per l’abbondanza di splendide vie e per la ricercatezza di alcuni itinerari decisamente estremi, la valle diventò il centro di arrampicata più importante d’Italia, anche a causa dell’enorme afflusso dei giovani arrampicatori di lingua tedesca. Le rocce di Arco infatti, e del Sarca in generale, erano le prime muraglie solatie e a temperatura più mite che i ragazzi potevano incontrare nelle loro migrazioni settimanali verso sud. I campeggi, per fortuna già abbastanza attrezzati per via delle presenze estive dei turisti lacuali, crebbero velocemente e si creò un discreto indotto attorno alle varie tribù di arrampicatori.

La parete sud del Lhotse
parete sud del Lhotse

 

E fu così che, quasi per necessità, lo sport di compe­tizione in arrampicata, inaugurato internazionalmente a Bardonecchia (in provincia di Torino) nel 1985, trovò in effetti ad Arco una naturale e molto più ovvia prosecuzione. Ogni anno, su strutture artificiali, ad Arco si tiene il Master che laurea i più forti campioni, e richiama la presenza di appassionati da ogni parte d’Europa. Possiamo dunque dire, di fronte a queste prove di laboratorio, che la parola exploit proprio qui, in questa valle, abbia trasformato il suo stesso signifi­cato. Con le gare questa parola, prima attribuita alle imprese alpinistiche, ha cominciato a essere usata per le performance della competizione sportiva. Ma ciò che è organizzato lo è in funzione dello spettacolo, per catturare anche l’interesse di spettatori incompetenti e casuali: dunque exploit si confonde con quell’epidermica sensazione che prende il tifoso o con quel momentaneo senso di liberazione di quando si urla per la vittoria di un atleta. Qualcuno pensa che la parola stia perdendo signifi­cato. Gli exploit veri nel frattempo esi­stono ancora, le cronache specializzate parlano chiaro e basta leg­gerle atten­tamente, con cognizione di causa. Ciò che si è modifi­cato è l’attenzione che viene loro con­cessa, da parte del mondo al­pinistico e da parte dei media.

Il mondo alpinistico, quello che è attivo e ha in programma imprese mai tentate, è sempre, e ovvia­men­te, attento a ciò che succede. È un’at­tenzione non esibi­ta, proprio come un tempo. Forse si fanno meno conferenze, ma i giovani sono perfettamente infor­mati di quanto suc­cede nel mondo alpinistico. Invece giornali e televi­sioni, dopo la sbornia degli anni ’60 e ’70, dopo il tripudio di Messner degli anni ’80, hanno gradual­mente dimenticato gli exploit alpinistici. In effetti oggi non v’è più mor­bosa attenzione verso eroi e miti, con Messner si è bruciato tutto, an­che un’epoca. Riguardo a Manolo, si è saputo più sui suoi campanili e sulle sue creazioni irripetibili sul Totoga che dei suoi grandi capolavori in montagna. Le prodezze invernali di Simone Moro e Daniele Nardi al Nanga Parbat sono confinate in una nicchia, almeno fino al momento del successo (che comunque dura un momento). Le ardite realizzazioni di giovani che poi si ritrovano nominati al Piolet d’Or sono riconosciute solo appunto se c’è la nomination.

È chiaro che sto parlando dell’Italia, ma anche altro­ve, pren­diamo ad esempio la Francia, l’attenzione rivolta a suo tempo a Patrick Edlinger o a Catherine Destivelle, nuovi cam­pioni del prorompente e malinteso free climbing, è stata assai superiore a quella concessa a Christophe Profit o a Jean-Marc Boivin, moderni alfieri dell’alpinismo classico. Ben lontani i tempi di René Desmaison, Yannick Seigneur, Lionel Terray e Maurice Herzog.

L’attenzione dei media si scatena solo se c’è il morto, oppure se Barack Obama manda il telegramma di congratulazioni.

Ma alla fine io credo che tutto ciò sia un bene per l’alpinismo.

Gli exploit di oggi, chiarita la distinzione tra competi­zioni e alpinismo, non sono rivestiti dell’attenzione del profano e sono confinati in un mondo elitario che nulla concede al pubblico, proprio come nel secolo scorso. Si potrebbero elencare le possibilità di nuovi exploit sulle Alpi o nel mondo. Ci sono sufficienti pareti e creste per incrementare il livello di impegno e di difficoltà, com­piendo imprese sempre più “pulite” da tutti i punti di vista. Ma sarebbe troppo lungo.

Siamo tutti curiosi di sapere che cosa succederà in questo prosieguo del nuovo millennio. Anche quella che doveva essere la salita del 2000, l’himalayana parete sud del Lhotse, è stata archiviata ben 10 anni prima dai russi; la salita impossibile (solo perché pluritentata), l’infinita Cresta di Mazeno al Nanga Parbat è stata salita in stile alpino, senza che fosse mai stata salita in stile spedizione prima, da Sandy Allan e Rick Allen; la cordata di Steve House e Vincent Anderson ha salito la più alta parete del mondo (la Rupal del Nanga Parbat) per via nuova e in stile alpino; e la grande traversata patagonica Cerro Standhardt-Cerro Torre è stata fatta in 24 ore nel gennaio 2016 da Colin Haley e Alex Honnold.

La grande traversata del Cerro Torre. Foto: Rolando Garibotti
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Che cosa ci rimane? Ci resta una storia da vivere e da co­noscere, senza porci tante affannose domande. Se non ci fossero più storie da raccontare, perderemmo tutti gli scrittori. E questo mi sembra improbabile.

Il mio entusiasmo per le competizioni è sempre stato meno che tiepido e la mia posizione sull’apertura di vie nuove a spit è assai moderata. Credo infatti che gli spit denobilitino un’impresa. Forse sarebbe me­glio che si facessero più tentativi senza, prima di decide­rsi a usarli. Ma for­se è chiedere troppo. Comunque una volta si faceva così, a rischio di farsi soffiare la “prima” da qual­che altro. E quanto alle gare, l’impo­verimento che determinano nelle qualità di un giovane talento comincia per fortuna a essere più evidente, dal momento che abbiamo esempi di personaggi alpinistici favolosi anche se provenienti dal mondo della competizione.

Sono ottimista, credo che l’alpinismo cambierà ancora le sue rego­le non scritte. Modificandosi l’at­teggiamento nei confronti dell’ex­ploit, si cambiano anche le regole. È sempre stato così, tra mille di­scussioni. Non so quali saranno le nuove direzioni, dopo che abbiamo visto affermarsi il disinteresse per il raggiungimento della vetta, lo stemperarsi della rigidezza degli inverni e lo spit usato nelle maniere più diverse. Il moltiplicarsi delle vie sulla pa­rete sud della Marmolada, per esempio, alcune fatte in solitaria e d’inverno, non può che modificare l’atteggiamento che si ha verso ciò che una volta era una vera e propria conquista dell’uomo. For­se la direzione è proprio quella del togliere impor­tanza all’impresa, quell’im­portanza “per gli altri”, magari a beneficio dell’im­portanza per i protago­nisti, nel loro interiore. Ed è proprio per questa crescita intima che la forza di volontà maturata nella fatica degli allenamenti e della competizione potrà dare risultati ed exploit fino a ieri del tutto inattesi.

Nell’alpinismo esplorativo di quelle regioni, anche alpine, dove ancora molto resta da conoscere, ci sarà un cambio d’intenzioni. Non più esplorazione per conquistare, per allargare l’umana espansione geogra­fica, bensì per ritrovare luoghi che rispecchino quel­la parte sco­nosciuta di noi stessi.

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Il destino dell’exploit ultima modifica: 2016-03-28T05:11:10+02:00 da GognaBlog

5 pensieri su “Il destino dell’exploit”

  1. 5
    Alberto Benassi says:

    ” Più ci si avvicina al limite o lo si raggiunge e più le imprese perdono d’interesse, rientra nella normalità delle cose.”

    Non credo che la perdita d’interesse verso le imprese sia dovuta al superamento del limite.
    Penso invece che la perdita di interesse, verso le imprese, si dovuta al grande numero di imprese che oggi vengono fatte che quasi le fa rientrare nella normalità. Ci fa abituare ad esse.

  2. 4
    Antonio Arioti says:

    Condivido il contenuto dell’articolo e mi piace il finale però faccio fatica ad essere ottimista. Per meglio dire non sono né ottimista né pessimista, sono semplicemente guardingo.
    L’alpinismo, e più in generale tutte le attività umane, risente notevolmente dello sviluppo tecnologico (anch’esso frutto di idee) e, pertanto, risulta difficile ipotizzare a priori a quali sviluppi potrà andare incontro. Sicuramente l’exploit in quanto tale conduce, prima o poi, in un vicolo cieco e ciò per la sua stessa natura. Più ci si avvicina al limite o lo si raggiunge e più le imprese perdono d’interesse, rientra nella normalità delle cose.
    A quel punto bisogna necessariamente inventarsi qualcosa di nuovo oppure rivisitare il passato con occhi diversi e/o con nuovi mezzi a disposizione.

  3. 3
    jacopo says:

    Complimenti Luca, analisi assolutamente condivisibile

  4. 2
    Luca Calvi says:

    Bell’articolo, offre parecchi spunti di riflessione che vanno ben oltre i confini degli ambiti d’interesse dichiarati.
    Offre la possibilità di rivedere in senso più ampio e generale le modalità, la fruizione e l’interesse dell’informazione così come l’ha concepita la generazione di chi adesso ha da cinquant’anni in su.
    In particolare, la sovrabbondanza di “informazioni” o presunte tali, così come l’eccessiva offerta di libri, scritti, pagine web e sedicenti opinionisti hanno portato al disinteresse per la “ricerca e l’approfondimento” che ancora pochi anni fa vedevano gli appassionati divorare in modo famelico le non troppe pubblicazioni periodiche, i libri e presenziare a incontri e conferenze con genuina curiosità.
    Le informazioni a portata di clic, anche se palesemente incongrue, assieme alla sovrabbondanza di offerta e costo e con qualità sempre più basse, hanno portato ad una sorta di annoiata indifferenza per tutto ciò che va al di là dell’immediatamente contingente exploit compresi.
    Il racconto in prima persona, l’approfondimento e le analisi hanno ceduto il passo a linguaggio dei tweet, al concetto di “audiovisivo” per non dichiarare la propria incapacità comunicativa tramite la scrittura e alla necessità dello “scioccante”…
    L’exploit, che fino a un paio di decenni or sono veniva vissuto come un momento unico, del quale dibattere a lungo e che diventava poi assioma nelle discussioni, è stato sostituito dal concetto di exploit come prestazione momentanea alla mordi-e-fuggi, in attesa del prossimo funambolo pronto a stupire ed a scalzare anche il ricordo dell’exploit che l’ha preceduto.
    Mi piace pensare che l’alpinismo sappia in futuro ritagliarsi nuove regole per rinnovare il piacere della più bella delle passioni inutili, ma tutto dipenderà dalla voglia di demassificare edi creare un nuovo elitarismo positivo senza andare a provocare inversioni di tendenza che non porterebbero benefici, invece, alle macchine del turismo e del business che gravitano attorno alla pratica dell’alpinismo.
    Riflessioni simili a pensieri spettinati, certo, ma è in questo senso che vedo il “buono” dell’articolo proposto da Alessandro: porta alla riflessione ed all’analisi in vista di una critica che preveda contestualmente anche una sana autocritica.

  5. 1
    MountCity says:

    Mi permetto di dubitare che l’attenzione dei media si scateni solo quando in montagna ci scappa il morto. A parte il recente caso dei sei morti in un sol colpo sotto una valanga. Sono altri i morti che fanno notizia oggi. Purtroppo.

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