E’ possibile immaginare, con uno “sguardo” cittadino, che una parete di roccia possa essere un luogo che custodisce un vissuto umano molto importante? Qualcuno, che sa molto di montagna, ogni tanto parla di “paesaggio culturale”, ovvero di ciò che non è immediato percepire con i nostri occhi se prima non abbiamo fatto provvista di conoscenza. E allora proviamo a guardare con occhi culturali, grazie a Giorgio Inaudi, uno straordinario paesaggio di alta montagna.
Giorgio ci narra della parete che sovrasta il comune di Balme (Val d’Ala, provincia di Torino) e di come, per poter sopravvivere in ambienti ostili, si è cercato di “addomesticarla” non dimenticando, però, tradizioni ed usanze.
“Quest’oggi tempo bello sono a cercare sette pecore per queste montagne del diavolo”: è una delle tante iscrizioni che si trovano incise sulle rocce a picco che sovrastano le case di Balme. Molte recano nomi e soprannomi, date, osservazioni sul tempo, sulle stagioni, sul lavoro, ma ci sono anche dichiarazioni di fede religiosa o di filosofia di vita come, ad esempio, tuti abbiamo di morire oppure cibrario tundu’ giuan domenico dei costantini figlio di costantino di uceglio buon pastore per fare pascolare le pecore e vi saluto tutti in paradiso se procureremo di andare, ali 26 di ago 1865 (Redazione di CamosciBianchi).
Il fascino della grande parete
di Giorgio Inaudi
(pubblicato su Barmes news n. 24 il 10 luglio 2013 e da camoscibianchi.wordpress.com il 2 agosto 2013)
“L’Ròtchess” – le rocce – è il nome che i balmesi danno alla grande parete che incombe sul loro villaggio e che sulle carte militari è indicata con il nome di Torrioni del Ru [“Ru” significa “canale irriguo di alta quota”, NdA].
Una parete priva di vegetazione e solcata da cascate, che piomba per quasi mille metri di salto dalle vette della Punta Rossa e dell’Uja di Mondrone fino dietro ai magri campi e le vecchie case di pietra. Una parete che di lontano appare uniforme e compatta e che invece si articola in una miriade di anfratti, di canali, e di torrioni, che assumono reali proporzioni soltanto quando le nuvole s’insinuano nel rilievo delle creste e dei contrafforti o quando la neve si posa sulle cenge e sulle terrazze, disegnando i contorni di un gigantesco labirinto verticale.
Un luogo certamente severo, ma non ostile e in fondo persino ospitale, dal momento che vi trovano una felice convivenza gruppi sempre più numerosi di arrampicatori e di stambecchi. I primi trascorrono le domeniche di sole andando su e giù per le grandi falesie della palestra di roccia del Ginevré, mentre gli altri hanno trovato un habitat ottimale sulle lisce pareti di roccia, non hanno paura dell’uomo e scendono qualche volta persino a brucare l’insalata degli orti dietro le case.
L’una e l’altra sono presenze recenti. Per secoli e forse per millenni la parete ha conosciuto altri abitatori, che hanno popolato le cenge e le terrazze, traendovi di che vivere e lasciando tracce del proprio passaggio.
Generazioni di pastori balmesi hanno condotto su queste rocce il proprio gregge di pecore e di capre, non solo in estate, ma soprattutto nella cattiva stagione, quando il fondovalle è coperto di neve ed invece la grande parete riscaldata dal sole offre qua e là un pascolo magro ma libero dai ghiacci.
Era il lavoro dei ragazzini di ambo i sessi, che partivano la mattina di casa con una fetta di pane o di polenta in tasca e passavano la giornata lassù, con il gregge di capre che rappresentava una parte importante nel capitale della famiglia. Portavano con sé anche una scodella di legno, che usavano per dissetarsi con l’acqua delle cascate o più spesso con il latte dei propri animali. Ma la scodella serviva anche come compasso per tracciare sulle rocce quei rosoni a spicchi, remoto simbolo solare che da millenni si ripeteva immutato nella decorazione degli oggetti di legno o di pietra, anche se ormai non era più compreso nel suo originale significato magico e religioso.
Durante le lunghe ore sulle terrazze al sole oppure al riparo delle bàrmess quando il tempo era brutto, i ragazzini incidevano la pietra con il coltello o con la punta di un chiodo. Gli affioramenti di quella roccia tenera e verdastra, che si chiama cloritoscisto, fornivano una lavagna ideale per dare libero sfogo alla fantasia.
Ruote, dischi solari, croci, figure umane e di animali si sovrapponevano a nomi, date, osservazioni sulla vita quotidiana. Ognuno si firmava con il proprio soprannome personale e familiare. Ricorre più volte il nome di “Sopo di Plere”, che lascia trasparire l’orgoglio di quel Giuseppe Antonio Castagneri detto Pìn Plère, calzolaio e suonatore di violino, che era zoppo e tuttavia capace si salire sulle rocce come i suoi coetanei.
A Balme qualcuno ancora si ricorda dei sistemi usati per superare i passaggi più impegnativi (sulle rocce più lisce, bisognava orinare sui piedi, perché la pelle bagnata aderisce meglio alla roccia asciutta…) ed anche di quante volte proprio i ragazzini erano andati a trarre d’impaccio gli alpinisti che si erano smarriti nel labirinto di cenge. Si parla anche del Vioùn della Pénna, dove si trova la cava di pietre per affilare le falci. Ed ancora di quando le donne salivano al lago del Ru per rimuovere le dighe di zolle, in modo che l’acqua scendesse nel vallone. Sulle cenge, gli uomini provvedevano con tronchi scavati a deviarla nei canali d’irrigazione (ru), per bagnare i campi di segale e di orzo sul versante riarso dell’andrìt.
Sono storie che può ancora capitare di sentire raccontare nelle vecchie osterie di Balme.
Sotto i nomi e le date, altre incisioni, più antiche, ci parlano di un passato più lontano e più enigmatico. Sono piccole coppelle scavate nella roccia ed allineate secondo orientamenti che sfuggono la nostra comprensione, come al Crest dou Lou. Vasche circolari collegate da canaletti che si diramano da un ceppo rotondo di pietra, come sulla cengia di Lansàtta e come nel cosiddetto “altare druidico” di Bogone, che sorge proprio di fronte alla grande parete. Erano destinate a contenere acqua o sangue o che altro? Chi le scavò, quando, perché? Sono domande che non trovano risposta, se non vaghe ipotesi, talvolta suggestive e spesso fantastiche.
Forse proprio per esorcizzare questi riti misteriosi e pagani, sulle stesse rocce sono state incise croci cristiane ed eretti piloni votivi. Ma il ricordo di questi tempi remoti, che il Cristianesimo ha assorbito senza cancellare del tutto, rimane anche nel nome dei luoghi. La parete che da Balme sembra costituire la sommità delle rocce (in realtà è soltanto un contrafforte più ripido ed impervio) si chiama La Pénna, nome che ritroviamo anche altrove nelle valli e che gli studiosi fanno derivare da Penn, divinità celtica delle vette, che i Romani identificarono con Mercurio. Ebbene, proprio dietro La Pénna si trova un piccolo lago che porta il nome insolito di Mercurìn…
Del resto Balme è un luogo dove il confine tra il passato e il presente è meno netto che altrove e dove e può ancora capitare di assistere a riti e tradizioni che risalgono alla notte dei tempi, come quella di percorrere gli stretti vicoli del paese, la sera del Giovedì Santo, suonando campanacci e dando fiato a grandi conchiglie di mare.
Ma accade di rado che i montanari abbiano voglia di parlare di questi argomenti.
Soltanto se vi conoscono bene e se insistete, vi indicheranno quelle rocce lisce su cui si lasciavano scivolare le màsquess (le streghe), ma anche le donne che volevano guarire la sterilità, oppure la Bàrma dii Cassài, il riparo sotto roccia dove i corpi sepolti (ma quando e perché?) ritornavano misteriosamente alla superficie.
Storie di camosci che si tramutano in diavoli, di vacche con un corno solo che s’incontrano al calare delle tenebre e che vi guardano con occhi maligni, di anime del Purgatorio che vagano salmodiando da una roccia all’altra. Qualcuno ancora si ricorda dei foulàt, gli spiritelli maligni che da queste parti non sono piccoli, ma altissimi, esili e quasi trasparenti e che si divertono a buttare la neve in faccia alla gente che sale al Pian della Mussa, soprattutto nelle gelide mattine di gennaio, per poi sparire molto rapidamente.
Sono storie che fanno sorridere, ma che per un attimo possono apparire credibili, se soltanto fissiamo lo sguardo sulla grande parete, illuminata dagli ultimi raggi di sole, mentre il fondovalle è già immerso nell’ombra e le cenge sembrano salire verso l’infinito.
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Che meraviglie!
Bellissimo pezzo di cultura alpina. Complimenti all’autore !
E qualcuno scrisse: