Giudizio in sede civile e sede penale per cause concernenti l’attività in montagna
di Carlo Ancona, giudice
Anzitutto, poche parole sull’inevitabilità di un “giudizio”, anche nella materia che ci sta a cuore. Qui occorre fare chiarezza su una premessa essenziale: libertà non è facoltà di vivere emozioni ed esperienze senza limiti né rischi, come vorrebbe la concezione oggi sempre più dominante che concepisce l’uomo come viaggiatore – consumatore, cercatore di felicità sulla terra. Questo tipo d’impostazione culturale pone diversi problemi, perché in quest’ottica la montagna non è più il luogo della formazione, del confronto con se stessi, ma quello del puro godimento rapido, effimero e garantito; ed anzi quel che conta è che sia davvero effimero, e quindi non consenta troppi dubbi o riflessioni, anche in punto di valutazione del relativo pericolo.
Al contrario, libertà è proprio l’opposto: è facoltà di determinare in autonomia le scelte che ci riguardano, sia come singoli che come componenti di una collettività. È quindi indissolubilmente legata alla responsabilità, e ne costituisce necessario presupposto sotto due punti di vista: perché solo chi è libero di effettuare una scelta può essere chiamato a rispondere di essa, e perché solo l’esercizio della libertà può abituare alla responsabilità delle proprie azioni.
Deve esservi, allora, un luogo nel quale questa responsabilità possa venire in discussione, perché non basta il così detto “foro interiore”: se siamo responsabili nei confronti anche degli altri, allora bisogna che gli altri possano far valere questa nostra responsabilità. In Italia oggi (ma anche altrove) non esiste una giustizia “corporativa”, e cioè propria delle categorie interessate, quale ad esempio esisteva prima dell’età moderna; i probiviri del CAI si occupano solo di controversie interne all’associazione, ma non possono andare oltre e trattare di rapporti che non riguardano quella limitata materia. L’opinione pubblica, e prima ancora la Costituzione che afferma la necessità di un luogo ove possano essere fatti valere i diritti di ciascuno, confermano che non possono esistere “luoghi franchi”; ed allora non resta che la giustizia ordinaria quale luogo di tali possibili controversie.
Quando si dice responsabilità si intende riconoscimento della colpa e punizione o retribuzione per ciò che si è fatto; ma va subito detto che questo vale solo per quella penale, perché quella civile ha una vocazione, ormai, non retributiva ma distributiva e solidarista. Si ritiene che se qualcuno ha subito un danno, occorre veder come fare per non far rimanere quel danno solo a suo carico, almeno sotto il profilo patrimoniale. Questo tipo di responsabilità sfiora l’addebito oggettivo: si è responsabili perché qualche cosa è successo, qualcuno si è fatto male; si crea il meccanismo della compensazione economica di ogni tipo di danno. In quella per cose in custodia (e tra esse ci sono i sentieri, o le vie ferrate) non si è più solo responsabili per l’incuria nella manutenzione che ha determinato una insidia imprevista, ma per tutti gli infortuni occorsi nell’uso della cosa, purché il danneggiato non ne abbia fatto un uso improprio.
Gruppo del Monte Bianco, soccorso sul Trident, 13.8.1983
Ma almeno per la responsabilità civile ci si assicura, e quindi paga l’assicurazione; e qui stiamo parlando non solo della responsabilità del singolo, ma anche delle istituzioni e delle imprese che organizzano e gestiscono il territorio a vario titolo; per tale via, l’assicurazione che queste hanno contratto copre la responsabilità civile e il pagamento del premio ricadrà sulla collettività. Nel penale non è così; ognuno risponde per se stesso: la responsabilità penale è personale. Ed occorre una precisazione. Nel processo penale il problema non è la condanna finale, perché in Italia per reati colposi questa quasi mai si sconta; i processi penali in altri Paesi si fanno per verificare se occorre davvero mettere gli imputati in galera; in Italia sembra talvolta che si facciano prevalentemente per far soffrire il prossimo: è lo stesso processo a costituire una pena, e con esso la sua pubblica notizia, l’angoscia, le ore passate nei corridoi dagli imputati ma anche dai testi, dalle parti offese.
La responsabilità collegata alla frequentazione della montagna può avere tre aspetti: per accompagnamento dell’infortunato, per manutenzione o comunque gestione di sentieri o vie attrezzate, ed infine per esposizione ad elevato rischio di se stessi e per tale via dei soccorritori, che non possono rifiutarsi di correre in aiuto. Sul secondo punto le decisioni note sono soltanto sentenze civili; sul terzo, semplicemente, non ve ne sono; sul primo, invece, vi è ormai dovizia di casistica anche in sede penale.
In materia, i giudici e prima ancora i pubblici ministeri sono portatori di nozioni e conoscenze tutt’altro che omogenee; la comprensione dei complessi elementi che intervengono nella formulazione di una scelta di chi frequenta la montagna non sempre è completa; avviene così che condotte, che per alcuni sono esenti da responsabilità, per altri invece lo sono; purtroppo, in molti casi non vi è alcuna prevedibilità della decisione. Ma questo non può meravigliare, perché in processi come questi cambiano i livelli non solo di conoscenza della materia, ma anche di disponibilità individuale ad accettare la logica della previsione e della inevitabilità di un rischio.
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…cerchiamo di vivere la vita e acettiamo il rischio delle nostre responsabilità senza incappare nelle bariere
create da pseudo magnati della sicurezza la prevenzione dovrebbe essere in ognuno di noi se non c’è non
la si crea con bariere e divieti…..a mio modesto avviso.
interessante, soprattutto la prima parte dell’articolo. Purtroppo molti incidenti non sono solo dovuti a mancanza di esperienza, ma proprio a irresponsabilità dovuta alla sovravalutazione dei propri mezzi. Gli esempi dati da professionisti del rischio sono negativi. sembra che tutto sia fattibile….
Anche gli ingegneri. Tutti a tavola!
La posizione del giudice Ancona va attentamente valutata: in effetti esprime il giudizio di un magistrato accorto, ma in qualche punto sensibile non coincidente con la filosofia dell’Osservatorio. Ci riserviamo di esporre in seguito un nostro commento