Il K2 d’inverno rimane inviolato – 2

Il K2 d’inverno rimane inviolato – 2 (2-3)

Lettura: spessore-weight*, impegno-effort**, disimpegno-entertainment***

La presentazione alla stampa
In un primo momento Denis Urubko aveva rifiutato l’invito di Krzysztof Wielicki a partecipare alla grande spedizione polacca in partenza per la prima invernale del K2 (l’ultimo Ottomila ancora da salire nella stagione più fredda). Ma, in occasione della conferenza stampa di settembre 2017, Urubko cambia idea: “Mi sento forte, voglio provare a far sì che il mio sogno diventi realtà” ha detto alla stampa. 

Il team è composto da undici alpinisti espertissimi di Himalaya, parecchi di loro già summiter del K2 per vie diverse. Si tratta di: Krzysztof Wielicki (capo spedizione), Adam Bielecki, Marek Chmielarski, Rafał Fronia, Janusz Gołąb (direttore sportivo), Marcin Kaczkan, Artur Małek, Piotr Tomala, Jarosław Botor (dottore della spedizione) e Dariusz Załuski (cineoperatore). E naturalmente Denis Urubko.

Il K2 con il tracciato della via Česen

Alcune affermazioni di Wielicki alla presentazione stampa:
Sappiamo bene di avere solo il 5% di possibilità di arrivare in cima, ma è solo provando che ci si riesce. Se in passato non avessimo mai osato non ci sarebbero tutti i successi polacchi in alta montagna”.
Non vogliamo diventare dei conquistatori ad ogni costo… Tutti quanti dovranno avere il telefono satellitare acceso tutto il tempo, anche a rischio di consumare più batteria”. 

Wielicki accenna alla necessità di avere una vita il più possibile comoda almeno al campo base, alla durata di 14 ore delle notti, al freddo previsto anche fino a -50°, alla permanenza lassù di almeno 70-80 giorni. Smentisce la voce per cui pareva ci fosse la volontà di percorrere la Kukuczka-Piotrowki del 1986. Il costo totale della spedizione è intorno a un milione e trecento mila Złoty, circa trecento mila euro. 

Ma non tutto precisa ai giornalisti, proprio perché soggetto alle condizioni che si verificheranno al momento. Per esempio la via da seguire: o la via Česen o lo Sperone degli Abruzzi.

Il K2 d’inverno è una sfida sportiva, ma è anche molto di più per noi – ha detto Janusz Gołąb, direttore sportivo- abbiamo i nostri allenatori e nutrizionisti, ma nei fatti è qualcosa di molto più grande. Dobbiamo dire che il K2 in inverno è come salire sul terzo polo della terra. E’ veramente una grande sfida ma sono convinto che con un team del genere avremo l’opportunità di affrontarla”.

Denis Urubko al campo base del K2

Quale inverno?
Ancora prima di partire, Urubko rilascia un’intervista alla rivista spagnola Desnivel. Riprende le affermazioni di Alex Txikon, in partenza per l’Everest: secondo il basco, la sua salita in programma sarebbe la prima salita invernale senza ossigeno, poiché quella effettuata da Ang Rita Sherpa il 22 dicembre 1987 non sarebbe perfettamente collocabile per intero in inverno considerando il solstizio di quell’anno: “L’ascesa di Ang Rita non è quella che oggi definiamo invernale, in quel momento storico le regole del gioco non erano ancora state scritte… tecnicamente l’inverno nel 1987 è iniziato il 22 dicembre alle 4.45, quando Ang Rita era a 8400 metri. Questi sono i dati e non serve che io dica che tutto è stato attrezzato in autunno”.

La polemica risale ancora alle diverse opinioni di Jean-Christophe Lafaille e Simone Moro su chi avesse salito in invernale lo Shisha Pagma, il più piccolo degli Ottomila. Lafaille raggiunse la vetta l’11 dicembre 2004, troppo presto e non venne considerata invernale; Moro invece ci arrivò con Piotr Morawski il 14 gennaio 2005, senza ossigeno ovviamente e avendo iniziato la salita dal campo base attorno a Natale.

Per Urubko, invece, inizio dell’inverno è l’1 dicembre e fine il 28 febbraio. Per lui dunque è Lafaille il primo salitore invernale dello Shisha Pagma, come pure Ang Rita è il primo ad aver salito l’Everest d’inverno e senza ossigeno. Per inciso Jean-Christophe Lafaille si guadagnò per quella salita la nomina al Piolet d’Or, con la giuria presieduta proprio da Krysztof Wielicki.

In più, secondo il calendario Urubko, uscirebbero dalla scena dei record di prima invernale le salite del Broad Peak (effettuata dai polacchi Maciej Berbeka, Adam Bielecki, Tomasz Kowalski e Artur Malek) e anche del Gasherbrum I (cordata composta da Adam Bielecki e Janusz Gołąb) perché effettuate il 5 marzo 2013 e il 9 marzo 2012. Sarebbe bello sentire cosa ne pensa l’amico e compagno di spedizione al K2 Bielecki!

Una rivoluzione copernicana del calendario invernale alpinistico che difficilmente verrà accettata, un po’ come la questione se aumentare il numero degli Ottomila, oggi saldamente fermo a 14.

Élisabeth Revol

Il soccorso a Élisabeth Revol
I primi giorni di attività al K2 sono favoriti da un eccezionale bel tempo. Sole e pressoché totale assenza di vento permettono alla squadra polacca di progredire velocemente sulla via Česen. Urubko si distingue subito per la quantità di rotazioni: il 22 gennaio riesce, dopo aver bivaccato sulla montagna, a installare il campo 2, a 6300 metri.

Ma ecco che in questa regolarità quasi miracolosa arriva la sconvolgente richiesta di soccorso della francese Élisabeth Revol (al quarto tentativo invernale alla vetta) che, con il compagno polacco Tomek Mackiewicz (al settimo tentativo invernale alla vetta), sta salendo al Nanga Parbat per l’incompleta via Messner-Eisendle-Tomaseth. Dal campo base del K2, prelevati dall’elicottero, partono in quattro per il soccorso: Urubko, Bielicki, Tomala e Botor.

Il 27 gennaio sono depositati a 4800 m, in una zona nevosa abbastanza pianeggiante della parete del Diamir. Si sa che la Revol sta scendendo dopo aver lasciato il compagno a 7200 m. I due avevano raggiunto la vetta tardi, alle ore 18 del 25 gennaio, ma Mackiewicz è colpito da oftalmia. La discesa fino a 7200 è un calvario, l’uomo non può più proseguire. Ed è allora che la Revol chiama soccorso. Le dicono di scendere per la via Kinshofer.

Urubko e Bielecki in un’ora superano il muro delle rocce Kinshofer (il settore più tecnico della via Kinshofer al Diamir) e proseguono verso il campo 2. 1200 metri in poche ore, tutte d’un fiato, prima di arrivare in piena oscurità e trovare la Revol che è assai indebolita e colpita da congelamenti. Aveva infatti passato due notti all’addiaccio senza la tendina, lasciata all’ultimo campo della via Messner-Eisendle (che d’ora in poi si chiamerà Revol-Mackiewicz).

Nel mondo intero si scatena la gioia. Così, a caldo, Daniele Nardi, nel 2013 compagno di cordata di Élisabeth sullo sperone Mummery del Nanga Parbat in inverno: “E’ una grande alpinista, determinata e con una resistenza formidabile. Lo ha dimostrato anche in questa occasione ed in particolare nella drammatiche ore della discesa dalla vetta con il suo compagno e poi da sola fino ad incontrare i suoi soccorritori”.

Dopo qualche ora di riposo, inizieranno le operazioni di evacuazione della Revol, che verrà aiutata a scendere a campo 1, dove si trovano Piotr Tomala e Jarosław Botor. Mentre si organizza un altro volo di elicottero per il prelievo e l’inoltro immediato della francese all’ospedale di Islamabad e poi in patria, il rescue team polacco comunica che non ci sarà alcun tentativo di raggiungere Mackiewicz per l’eccessivo rischio che questo comporterebbe unitamente alla ben scarsa probabilità di ritrovarlo ancora in vita.

Élisabeth Revol e Tomek Mackiewicz

Aspettano l’alba. Meglio bere e riprendere energia, soprattutto rifocillare e far bere una disidratata Revol. Impensabile scendere di notte con l’infortunata la parete Kinshofer. Proprio lì, nel 2016, a Daniele Nardi era saltata una vecchia corda provocandogli un volo di una ventina di metri.

Alle 11 sono a 5530 metri. Lì incontrano Tomala e Botor che sono partiti all’alba per andare incontro a Urubko, Bielecki ed Élisabeth. L’elicottero è pronto a decollare non appena arriveranno al campo 1.

Adam Bielecki posterà: “Udało sie niemożliwe. Razem z Élisabeth Revol i Denisem Urubko u podstawy ściany Diamir. Jestem zmęczony ale bardzo szczęśliwy. Dziękuje za wszystkie ciepłe słowa. Przykro mi ale nie mieliśmy żadnych szans pomóc Tomkowi (L’impossibile è accaduto. Assieme, con Élisabeth Revol e Denis Urubko sotto la parete Diamir. Sono molto stanco, ma molto felice. Grazie a tutti per le vostre affettuose parole. Sono dispiaciuto che non abbiamo avuto possibilità di aiutare Tomek)”.

Il salvataggio sulla via Kinshofer al versante Diamir del Nanga Parbat

Giunti a Skardu, i quattro si riposano in hotel qualche giorno. In un tweet, il Ministro dello Sport polacco, Witold Bańka, annuncia che chiederà al Presidente della Repubblica della Polonia, Andrzej Dud, di decorare con una medaglia al valore i quattro valorosi.

“L’operazione di soccorso è stata completata – dice il comunicato stampa di Krzysztof Wielicki – E’ andato tutto come da programma e speranze. It ran according to the plan and assumptions. Élisabeth Revol è stata salvata. I soccorritori sono a Skardu e, quando il tempo migliorerà, saranno riportati qui al campo base del K2. Questo episodio non si ripercuoterà sull’esito della nostra spedizione. I soccorritori stanno tutti bene”.

Élisabeth Revol appena raggiunta dai due soccorritori

Urubko ha il tempo di essere intervistato da Desnivel:
Le persone devono aiutarsi a vicenda, in particolare gli scalatori, soprattutto quando si tratta di una persona straordinaria come Élisabeth Revol, che rispetto molto. È stata un’esperienza unica quella di aiutarla a sopravvivere in una situazione così delicata”. Racconta la corsa, sua e di Bielecki e degli altri che hanno organizzato il soccorso, per raggiungere Élisabeth, strapparla dal Nanga e per capire se anche Tomek poteva essere raggiunto. 
Con il dolore per non aver potuto salvare Mackiewicz e la gioia per aver incontrato al buio Élisabeth, Urubko ripercorre la corsa sul muro di ghiaccio e poi sulle rocce della via Kinshofer: “La via è equipaggiata con corde fisse installate da spedizioni commerciali. Siamo riusciti a salire così velocemente grazie queste, ciò ci ha permesso di scalare senza alcun dubbio, concentrandoci sul salire, salire, salire”… “Onore anche al pilota dell’elicottero che ci ha depositati a 4800 metri, cento metri sotto campo 1, nessun pilota aveva spinto la macchina così in alto sul Nanga”.
Urubko continua: “Volevamo andare leggeri ma non avevamo altra scelta che portare peso perché dovevamo trasportare materiale di soccorso: cibo, medicinali… Abbiamo fatto un grande sforzo di cui siamo assolutamente soddisfatti. Penso che qualsiasi scalatore, in una situazione simile, farebbe la stessa cosa che io e Adam abbiamo fatto. Siamo stati molto fortunati: siamo stati in grado di utilizzare l’elicottero, eravamo acclimatati, c’era il budget per eseguire il salvataggio, avevamo l’attrezzatura necessaria. Dovevamo solo dare il massimo. Dovevamo farlo”.

Il momento in cui Denis Urubko incontra Élisabeth:

In discesa verso il Campo 1 sulla via Kinshofer

I tre sono arrivati in fondo alla parete. Foto: Adam Bielicki

A 6000 metri, poco sopra Campo 2 che è a 5950 metri, iniziano a chiamare Élisabeth: “Quando siamo arrivati ​​tutto era completamente buio, non riuscivo a vedere nulla. Alla radio qualcuno ci ha detto di aver visto una luce scendere. Cominciai a urlare – c’era molto vento – e sentimmo una voce nell’oscurità. È stata una grande gioia perché sapevamo che eravamo vicini a lei e che saremmo stati in grado di aiutarla”.
Mentre si riposano in attesa dell’alba nella piccola tenda da bivacco a due posti che si erano portati, danno cibo, acqua e medicinali a Élisabeth: ”Lei è riuscita a dormire un po’, a volte appoggiandosi a me, a volte su Adam. Siamo stati felici di poter aiutare questa grande donna e alpinista. Adam e io non abbiamo dormito affatto. L’importante è che Élisabeth abbia dormito qualche ora”… “Le condizioni di congelamento della Revol non sono terribilmente serie, ho visto molto peggio… Penso che sia persino possibile, spero, che possa guarire senza operazioni importanti”.
A proposito di Tomek Mackiewicz: “In quel momento dovevamo prendere una decisione: o aiutare Élisabeth a sopravvivere, o continuare, con una minima speranza di riuscire a trovare Tomek. Avevamo anche condizioni di meteo brutto per i giorni seguenti. Era evidente che dovevamo stare con Élisabeth, che era molto debole, ed è per questo che abbiamo deciso di concentrarci per aiutarla”. Così anche Adam Bielecki, intervistato da sport.tvn24: “Siamo molto dispiaciuti di non aver potuto aiutare anche Tomek. Élisabeth ci ha spiegato che non era più in condizioni di scendere, gli ha lasciato il suo fornello e il gas che le rimaneva. La prima cosa che le ho chiesto, appena l’abbiamo incontrata, era se Tomek era in grado di camminare. Era fondamentale per noi saperlo”. 

Denis Urubko e Adam Bielicki sull’elicottero che li trasporta a Skardu

La ripresa delle operazioni
Dopo le bufere di neve, le operazioni al K2 riprendono l’1 di febbraio, prima del ritorno dei quattro soccorritori. Molto attive le coppie Marek Chmielarski-Artur Małek e Janusz Gołąb-Maciej Bedrejczuk. Urubko, assieme a Marcin Kaczkan, dorme la notte del 3 febbraio al campo 1 (5900 metri) e quella dopo al campo 2 (6300 m). Peccato che dal pomeriggio siano previsti venti forti.

Gli alpinisti sperano che, secondo le previsioni, le raffiche dovrebbero durare al massimo fino al 7 febbraio. L’8 invece dovrebbe arrivare invece una bella finestra che potrebbe consentire ai polacchi di salire ulteriormente sulla via Česen e magari portarsi verso il campo 3.

Previsioni alla quota di 7000 metri (2 febbraio 2018, ore 10 53′ 26″)

Denis Urubko, “soldato disciplinato e inascoltato”, scrive il 13 febbraio:
Le avventure possono essere interessanti o no. Io preferisco quelle interessanti. Per quanto mi riguarda, la questione è sull’utilità degli sforzi: spendo tempo per il risultato, non per sedermi da qualche parte a non fare nulla. Stare seduti a causa di una decisione sbagliata… Grazie alla mia esperienza nelle invernali, so che il problema maggiore è il vento”.

Denis Urubko

Per questo, secondo Urubko, la strategia da adottare subito era quella di salire dal versante est, più protetto dai venti che soffiano da occidente: ci si muove sulla montagna più agilmente, è più facile trovare luoghi dove posizionare le tende, che possono trovare riparo in crepacci o trune. Contesta il problema paventato da Wielicki delle valanghe, che secondo Urubko esiste in estate, non in inverno.

“Dobbiamo guardare il versante orientale, avevo detto a Krzysztof Wielicki due mesi prima che iniziasse la spedizione… Dobbiamo guardare il versante orientale, avevo detto a Golab mentre andavamo al campo base… Dobbiamo guardare il versante orientale! ho sbottato ancora una volta vedendo la faccia rotta e fasciata di Bielecki colpito da una pietra all’inizio della via Česen e miracolosamente sfuggito a un destino più duro”.

Solo la mattina dell’8 febbraio Urubko è ascoltato e ha quindi il permesso di andare a fare una ricognizione sotto la parete est, dove inizia la via dello Sperone degli Abruzzi. Con lui un portatore pakistano. “Ho allargato con entusiasmo le mie braccia in alto. Era bellissima”.

Selfie di Urubko sullo Sperone degli Abruzzi

I malumori di Denis Urubko
Ma l’8 febbraio è anche l’inizio ufficiale del malumore di Urubko che sul suo sito comincia a ventilare il fantasma della spedizione fallita del 2003, quando assieme ai polacchi, capospedizione sempre Krzysztof Wielicki, era al K2 a tentare la salita invernale dal versante cinese.

Secondo lui è fatale che, in una spedizione come questa, assai simile perché pesante e con tanti alpinisti, si verifichino gli stessi meccanismi, con “mancanze” e comportamenti “dei polacchi”, come li chiama prendendone quasi le distanze nonostante la recente naturalizzazione, che “turbano l’atmosfera ed incidono sull’andamento della spedizione”, come era appunto accaduto nel 2003.

Urubko cita la dimenticanza di chiudere le cerniere della tenda quando si lascia il campo, con la conseguenza che chi arriva dopo se la trova completamente piena di neve. Condanna anche il modo di cucinare dei polacchi nei campi alti, che pare abbiano l’abitudine di preparare il cibo all’interno della tenda chiusa. In effetti, in quel modo, il fornello rende poco in termini di calore, c’è spreco e la parte di gas incombusto avvelena l’aria. Secondo Urubko poi, gli alpinisti polacchi in salita non si idratano bevendo liquidi caldi, ma succhiano ghiaccio all’interno delle borracce. Si lamenta pure che al campo 2 la tenda è a un solo strato, con un freddo che “congela il cervello e la psiche”.

Piotr Pustelnik, presidente della PZA (l’associazione alpinistica polacca)

E’ lui il primo a dubitare della scelta della via: “Siamo scesi da un’altezza di 6500 metri, perché non si riusciva a salire. Siamo tornati alla tenda ed ho raccolto le mie cose perché sulla via Česen non c’è prospettiva…È una questione matematica: la via inizia a 5100 metri, siamo arrivati a 6500 metri, dobbiamo raggiungere almeno i 7950 metri. Non siamo nemmeno a metà della via”… Pianifichiamo il prossimo gruppo, il meteo, quando stabiliremo il terzo campo, le tattiche, pianificheremo di nuovo e calcoleremo i buchi nell’acqua fino a metà giugno…”.

Questa è sfiducia vera e propria, il modo di scrivere di Urubko è sempre finemente ironico e anche qui non si capisce fino a che punto lui sia davvero critico. Di fatto la via Česen viene abbandonata, con la conseguente manovra di dover attrezzare lo Sperone degli Abruzzi.

Altro ritratto di Denis

Sullo Sperone degli Abruzzi
Il 12 febbraio, mentre Kaczkan e Tomala attrezzano la via fino a C1 6060 m, dove trascorreranno la notte, Denis Urubko fa una ricognizione in solitaria fermandosi a 6500 metri, sotto al camino Bill.

Lo scopo di Urubko è quello di sapere in anticipo quante corde fisse sono già presenti sull’itinerario, in modo da sfruttarle senza prevedere un’attrezzatura sistematica che farebbe perdere assai più tempo.

Rafał Fronia, trasportato e curato all’ospedale a Skardu, è stata confermata la rottura dell’avambraccio e il 13 febbraio è a Islamabad, da dove volerà a casa.

Urubko vuole fermamente la vetta, come gli altri, ma la vuole alle sue condizioni, cioè enntro il 28 febbraio. Per questo è lui a scalpitare di più. E quando dice “Tentiamo la vetta il 20 febbraio”, dalla Polonia Piotr Pustelnik risponde: “Ci vogliono altre tre settimane”. A Urubko fa gola la finestra di bel tempo prevista per il 20: sole, vento debole, temperature in aumento. Un’occasione da non perdere.

Il contrasto quindi è tra il pragmatismo irruento di Urubko e il pragmatismo ordinato dei polacchi che continuano a ricordargli il rispetto delle procedure e delle strategie decise a inizio spedizione. Tre settimane vuol dire iniziare a pensare di tentare la vetta dal 10 marzo in poi. Urubko ci sarà ancora? I dubbi iniziano a crescere. Intanto i lavori sulla montagna sono interrotti per il maltempo e il campo 1 al 15 febbraio non è ancora stato attrezzato.

Il campo base polacco sotto al K2

Il punto massimo raggiunto
Urubko e Bielicki lasciano le “comodità” del campo base il 17 febbraio dopo colazione. A differenti velocità entrambi raggiungono il campo 1 e vi passano la notte. Grazie alle vecchie corde ritrovate sul camino Bill giungono al luogo del campo 2, anche d’inverno luogo che reca i segni di una frequentazione esagerata e irrispettosa, una specie di Colle Sud dell’Everest con meno bombole vuote di ossigeno ma tante tende gelate e piene di materiale inutilizzabile che fanno corpo unico con la montagna. Un luogo per di più ventoso e piuttosto ripido.

Lavorando di piccozza i due si trovano un posto per la loro tendina, ma nella notte il vento rende impossibile un riposo decente. Al mattino dopo attaccano la Piramide Nera, dove trovano altre corde fisse. Nel punto più ripido alla fine delle rocce, le corde spariscono; Denis ne recupera una sotto, è in buono stato, la taglia in tre spezzoni, e riesce ad attrezzare il tratto critico.

“Si stava facendo buio. L’ambiente era rosso acceso grazie ai raggi del tramonto. Le valli erano invase da un’ondata di buio. Sembravamo due insetti lenti che strisciavano duramente sul bordo sanguinante della montagna. – Denis, per favore, trova un posto per la tenda! – mi chiese Adam. – C’è una piazzola, ma bisogna scavare duramente – gli risposi”.

Urubko racconta che, durante la durissima notte a 7200 m, nel dormiveglia ha avuto un’allucinazione, con la precisa visione di un casco di banane che cresceva accanto alla tenda, banane pronte per essere raccolte.

Il 19 febbraio fa un po’ meno freddo e c’è il sole, si riesce operfino ad asciugare al sole i sacchipiuma. I due compagni, oltrepassato il luogo del classico campo 3 a 7330 m, si spingono fino a circa 7400 metri, per esplorare il percorso verso la Spalla del K2 e il campo 4. Purtroppo non possono osservare le condizioni del famoso Collo di Bottiglia, ben visibile solo dalla Spalla, e dell’altrettanto famoso seracco che gli pencola sopra. Notano la necessità di almeno altri 100 metri di corda per attrezzare il raggiungimento della Spalla su ghiaccio vivo. Ne sono sforniti, dunque i due alpinisti, con il vento forte chericomincia a soffiare, seppelliscono nella neve tutta l’attrezzatura e scendono al campo 1, dove li accolgono con bevande calde Kaczkan e Załuski.

“Il mio corpo è emaciato. C’è ancora energia nei muscoli per un tentativo finale verso la vetta, ma è un’energia che non mi scalda. Secondo un detto popolare sono “magro come una bicicletta”, scrive Denis.

 

E’ impensabile che i due più allenati e desiderosi della vetta (questa per Denis è stata l’ottava rotazione sulla montagna) si mettano loro stessi le corde fisse. Sarebbe una fatica che comprometterebbe l’esito finale. Dunque il lavoro è stato distribuito nel modo seguente: Urubko e Bielecki spingono in alto, gli altri attrezzano la via, controllando le corde, estraendole dalla neve e dal ghiaccio, e portano su materiale. Intanto un team di quattro portatori è al lavoro sulla via Česen per disattrezzare e portare giù corde, tende e tutto l’equipaggiamento lasciato. Il meteo dovrebbe rimanere favorevole almeno per qualche altro giorno, poi arriveranno neve e vento.

Selfie di Urubko a circa 7300 metri

La spedizione ne approfitta per fare il punto della situazione.
La decisione ufficiale (comunicato del capospedizione dell’11 febbraio) di cambiare itinerario era stata presa solo il 10 febbraio, dopo gli incidenti a Bielicki e a Fronia, ma soprattutto dopo le lamentele di Urubko.

A quel punto i campi posizionati sono il C1 a 6200, il C2 a 6700 m e il C3 a 7200 m, un po’ inferiore a quello estivo.

Il logo della spedizione polacca

La via al momento è attrezzata come si deve solo fino a 6500 metri, sotto al Camino Bill. Sul Camino Bill, in base alle verifiche effettuate da Urubko, ci sono vecchie corde che devono essere però rafforzate; data la maggiore verticalità,  tra C2 e C3 ci sono corde in ottimo stato.

La quota massima raggiunta ad oggi sono i 7400 metri di Urubko e Bielecki. Janusz Gołąb e Maciej Bedrejczuk sono arrivati a 6500 metri. Tutti gli altri alpinisti che sono saliti in parete si sono fermati poco sopra il C1.

Non avendo però ancora raggiunto la Spalla, non si conosce ancora la condizione in cui si trova il Collo di Bottiglia e il grande seracco. Questo sarà un elemento chiave per la riuscita della spedizione. 

I più in forma sono decisamente Urubko e Bielicki. Fino a questo momento nessuno degli altri è arrivato al Campo 2, bensì solo fino al camino Bill.

Dopo la spalla occorrerà attrezzare con almeno altri 250 metri di corda il Collo di Bottiglia, più che altro per garantirsi la discesa dalla vetta, magari notturna: la primavera arriva tra un mese, il lavoro da fare è davvero tanto e una vera e propria finestra buona per pensare di tentare la vetta al momento non si vede. Bisognerà ancora attendere. 

Schermata del 21 febbraio 2018, ore 15 17′ 29″

22 febbraio 2018: Urubko pubblica un breve video dei giorni scorsi. Sono poche immagini, ma aiutano a capire quello che vuol dire scalare il K2 in inverno:
https://www.facebook.com/denisurubko/videos/555046831554900/

(continua)

Il K2 d’inverno rimane inviolato – 2 ultima modifica: 2018-03-14T05:34:53+01:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “Il K2 d’inverno rimane inviolato – 2”

  1. Mi pare che non di debba perdere il senso della realtà. Chi rischia la propria vita per il bene degli altri è encomiabile: Questo si che è un valore proprio della natura dell’uomo. Purtroppo quello che capita a noi alpinisti, di rischiare cioè la vita per inseguire una propria passione personale, anche se indubbiamente e’ un affascinante aspetto della natura dell’uomo non può essere certo motivo di orgoglio

  2. Il rischio e la natura umana – 11 febbraio 2018

    Chiunque, a qualsiasi livello, coltivi la passione per un’attività ritenuta estrema, se lo sarà sentito chiedere almeno una volta: “Perché lo fai?”.

    La stessa domanda si è stata riproposta più volte dopo la seconda salita invernale del Nanga Parbat, lungo la via Messner-Eisendle, che ha portato alla morte di Tomek Mackiewicz e al salvataggio in extremis di Elisabeth Revol durante la discesa, dopo il raggiungimento della cima..

    L’interrogativo “Vale la pena perdere la vita per un 8000?” di per sé non ha significato, tanto meno per chi pratica l’alpinismo d’alta quota. Dove sta scritto, per esempio, che ha più senso morire in un incidente stradale, mentre si va a fare la spesa o si va al lavoro?

    Un incidente può succedere sempre, in qualsiasi tipo di attività, che sia ludica o che sia lavorativa, e non c’è una morte più o meno sensata, più o meno giustificabile. Succede e basta.

    Dal mio punto di vista Tomek è morto facendo sicuramente una delle cose che amava di più. Era la settima volta che tornava sul Nanga. Evidentemente per lui quella salita era estremamente importante e non vedo come possa essere utile (e tanto meno lecito) tentare di dare una scala di valori alle morti, per valutare se abbiano più o meno senso.

    Sul Nanga Parbat i due alpinisti stavano portando avanti quella che per loro era una grande passione. Conoscevano l’ambiente, sapevano che non era una passeggiata, erano consapevoli del pericolo. In fondo, scalare era la principale attività nella loro vita, quindi era probabile che un eventuale incidente, ammesso dovesse succedere, succedesse proprio durante una scalata.

    Facendo le dovute proporzioni, ognuno di noi, nel momento in cui tenta un passaggio al limite delle proprie possibilità in montagna, oppure fa una calata su uno spuntone di roccia, si chiede “Chi me l’ha fatto fare?”.

    In realtà, per esperienza personale, posso dire che i momenti più memorabili e quelli che ti porterai sempre dentro sono proprio quelli in cui, anche per poco, esci dalla tua zona di tranquillità. E la zona di tranquillità, il confine della sicurezza, è diversa per ognuno di noi: per qualcuno può essere solo un sentiero un po’ più ardito e un po’ esposto, per altri è un passaggio sul ghiaccio sottile, per altri ancora è parlare davanti ad una platea; ma per tutti riuscire ad andare un po’ oltre quelli che sono i propri limiti è sempre motivo di soddisfazione.

    Questo non vuol dire che chiunque frequenti la montagna lo faccia per misurarsi con se stesso: di solito lo si fa semplicemente perché si ama la natura, i panorami e lo stare all’aria aperta. Tuttavia qualsiasi confronto con la natura è sempre potenzialmente più a rischio di quanto lo sia stare sul divano di casa propria. Ma stare seduti sul divano di casa propria difficilmente rispecchia e rispetta la natura umana, che credo sia fatta piuttosto per “seguir virtute e canoscenza”, quindi esplorare, ricercare sempre qualcosa di più e qualcosa di diverso rispetto a quello che già si conosce.

    Lo spirito di ricerca in senso lato è l’essenza dell’Uomo, la voglia di far luce sull’ignoto è quello che ci ha spinti dall’età della pietra verso l’era tecnologica. Parlare di disprezzo della vita quando si parla di alpinisti, esploratori, sportivi, scienziati, imprenditori, sognatori, inventori o chiunque nella propria vita cerchi costantemente di migliorare se stesso e di andare a scoprire cose nuove è semplicemente falso rispetto alla realtà delle cose.

    L’esplorazione è l’essenza della natura umana e l’essenza della vita stessa. Dovremmo ringraziare Tomek per avercelo ricordato e augurargli semplicemente un buon riposo.

     

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