Luis Sepúlveda, uno dei più noti e celebrati scrittori sudamericani, recentemente scomparso, aveva tratteggiato per Alp i caratteri di una terra dura, aspra e malinconica, che lui stesso vedeva come un luogo ai confini della realtà oggettiva. Ne era uscito il grido d’allarme per una natura minacciata, per un mondo che pareva dimenticato ma che già portava le ferite dei nostri tempi.
Il mondo alla fine del mondo
Intervista a Luis Sepúlveda
di Elena Dallorso
(pubblicata su Alp n. 161, settembre 1998)
Davanti all’Oceano Atlantico, in quel tratto della costa che è il limite meridionale del Mar Cantabrico, il cielo è in costante mutamento. Anche oggi è una giornata di sole, battuta da un vento forte che porta tempesta. Qui, un po’ isolato dal centro del paese di Gijón, vive da un anno Luis Sepúlveda, il cileno errante, che ha scelto di trovare in questa terra bellissima e aspra una fissa dimora. Forse perché dopo tutta una vita trascorsa a viaggiare, dopo molti anni passati in Germania (prima ad Amburgo poi nella Foresta Nera) ha sentito la necessità di una patria, di un buen retiro, per continuare a scrivere e a lavorare. A Gijón non è venuto da solo: con lui, nella bella casa di fronte all’Oceano, vive Carmen, la sua prima moglie, anche lei cilena, anche lei, come Sepúlveda, militante della Unidad Popular nel Cile del breve sogno di Allende. Si sono ritrovati dopo più di vent’anni, da sempre uniti da un legame fortissimo consolidato dall’esistenza di un figlio, Carlos (cantante rock in Svezia) e da un passato comune che non si dimentica facilmente. Entrambi idealisti, entrambi giovanissimi, con il golpe di Pinochet hanno conosciuto il carcere, la tortura, e in fine l’esilio.
Sepúlveda ha percorso in lungo e in largo il continente americano, a visitare luoghi, a conoscere persone, a combattere in Nicaragua per il fronte di liberazione, a vivere con gli indios della foresta amazzonica. Da tutte queste esperienze sono nati molti dei suoi libri, tutti diventati successi, in Italia come in Francia, in Spagna, in Germania o in Brasile. Una biografia che è essa stessa un romanzo. Ma dove finisce la realtà, dove inizia la finzione nei racconti di questo scrittore? Il confine vacilla, è ambiguo, volutamente ambiguo. La terra dell’utopia di cui parla nei suoi libri lui la conosce, la abita ogni giorno. Non può fare a meno di raccontarsi e, raccontandosi, di raccontare le vite che ha incrociato, conosciuto, condiviso. Nato in Cile nel ’49, Sepúlveda sembra aver utilizzato per tutta la vita il biglietto ferroviario che gli donò suo nonno quando compì undici anni. «Un biglietto per dove?» chiese allora il piccolo Luis. «Un biglietto per nessuna parte, ma ne vale la pena». Il “nessuna parte” per lo scrittore si è da allora trasformato in ogni luogo, alla ricerca di quella famosa frontiera scomparsa della felicità di cui parla nei suoi libri.
Con gli equipaggi di Greenpeace ha lottato contro i pescherecci che in Patagonia danno la caccia alle balene e ai piccoli di foca, si è opposto al disboscamento sistematico e catastrofico della foresta amazzonica da parte delle grandi multinazionali del legno e di quella cilena da parte dei produttori di lana, allo scempio che il turismo di massa potrebbe produrre anche nella “sua” fine del mondo, dove ha calcolato che se ogni turista continuasse a farsi fotografare con un pezzo di ghiacciaio nel bicchiere di whisky, nel 2400 sarebbe stato bevuto tutto il ghiaccio de Los Glaciares, ventiduemila chilometri quadrati di ghiaccio su cui svettano le cime del Cerro Torre e del Fitz Roy. E proprio di questa terra ai confini del mondo che sono venuta a parlare con Sepúlveda, in una terra distante dal quarantesimo parallelo Sud migliaia di chilometri, ma che, per la sua solitaria e ancora selvaggia bellezza, lo ricorda più che mai.
A meridione del 40° parallelo Sud inizia una terra leggendaria che il turismo ha scoperto soltanto recentemente, la Patagonia, coperta da un alone di mito. Che cosa incontra un viaggiatore che si avventuri in quelle regioni?
«A sud del 40° parallelo comincia una terra in costante mutamento. Nella parte argentina il panorama è liscio, piatto, quasi oppresso da un cielo molto basso. È una regione sempre più spopolata, tanto di esseri umani quanto di animali, anche se di questi ultimi rimangono ancora vari milioni di pecore e centinaia di migliaia di mucche. Fino a poco tempo fa l’attraversava una ferrovia, la mitica Patagonia Express che percorreva un tratto di quasi duemilacinquecento km oggi ridotto a trecento. Con la morte della ferrovia sono morte anche decine di villaggi e le terre confinanti sono state comprate a prezzi irrisori dalle grandi multinazionali della lana, come Benetton e altre, che hanno profondamente modificato il paesaggio e rovinato migliaia di vite.
Nella parte andina, ai piedi della Cordigliera che separa l’Argentina dal Cile, il panorama diventa intensamente verde. Boschi nativi di alberi centenari, alcuni millenari, che nascondono i passaggi per le valli e le spaccature andine. Dall’altra parte della Cordigliera, nella parte cilena, si trova una regione che un tempo era un prolungamento dei boschi andini e che arrivava al Pacifico. Oggi rimangono pochi alberi, perché sono stati abbattuti dalla voracità delle multinazionali giapponesi del legno e hanno arricchito, per esempio, tipi come un certo Ponce Leroux, genero di Pinochet, che da rappresentante della classe media cilena è diventato il proprietario di una delle venti più grandi fortune del pianeta. Ci sono pascoli di bestiame, centinaia di laghi che riflettono le cime innevate dei vulcani».
ln queste terre vivono pochissime persone, che per scelta o per necessità sono diventate gli abitanti della fine del mondo. Chi sono i patagoni?
«Nella regione andina della parte argentina della Terra del Fuoco, per esempio nelle terre vicine a El Bolsón, vivono i protagonisti dell’ultima iniziativa colonizzatrice. Gente che negli anni Settanta, contraria alla proposta di vita delle grandi metropoli, contraria tanto all’establishment borghese quanto all’alternativa che proponeva la sinistra, ha lasciato le città ed è venuta qui in cerca di una vita alternativa. Centinaia di famiglie o gruppi di hippy sono arrivati in Patagonia, ma soltanto pochi sono riusciti a sopportare il rigore del clima, i lunghi e duri inverni a venti gradi sotto zero, circondati dalla neve e da una solitudine più grande di quella che avevano immaginato. Ma quelli che sono rimasti, una minoranza, hanno adattato le loro abitudini al luogo e sono ancora là, la loro estetica riflessa nelle loro casette e nei giardini di fiori silvestri che le circondano. Dall’altra parte della Cordigliera, nella parte cilena, vivono invece i discendenti dei coloni tedeschi giunti per la maggior parte dalla Foresta Nera all’inizio del secolo.
Da entrambi i lati della Cordigliera si trovano anche villaggi o abitati mapuche, anche se quelli cileni sono meglio organizzati da un punto di vista sociale».
Per molti, affascinati dai racconti di Chatwin, di Coloane e tuoi, la Patagonia ha acquisito il significato universale di terra al di là dei confini del mondo industriale, cioè del mondo conosciuto. Può essere che per il mondo di oggi la Patagonia sia un po’ quello che nell’antichità si pensava che ci fosse oltre le colonne d’Ercole?
«Per gli abitanti della Patagonia, per quasi tutti, questa regione è stata una specie di ultima chance, una scialuppa di salvataggio per fuggire dalla miseria o cominciare da capo. Per gli avventurieri come Butch Cassidy, Sundance Kid, Antonio Soto, Facon Grande e tanti altri, è stato il territorio dell’utopia, la possibilità di vivere liberamente lontano da dei, leggi e padroni. È sempre stata una terra incognita, e lo è ancora, perché per fortuna il rigore del clima tiene lontani gli intrusi per gran parte dell’anno. E per la medesima ragione è in pericolo: una regione così lontana è potenzialmente la migliore discarica per la grande industria del mondo sviluppato. Nell’antichità gli uomini volevano sapere che cosa c’era oltre le colonne d’Ercole. Gli abitanti della Patagonia sanno che oltre non c’è niente, e questa certezza si traduce nella malinconia che caratterizza i patagoni».
Terra di miti, terra dell’utopia, ultimo rifugio. La tua Patagonia qual è, che volto ha?
«La mia Patagonia ha volti umani, il volto dei miei amici: il viso di Lia Vázquez, per esempio, una bellissima donna che a settant’anni è ancora la stessa ragazzina delle fotografie in cui è ritratta mentre arriva a Palena, e che mi accoglie nella sua casa piena di fiori secchi, perché Lia conosce i segreti medicinali e rilassanti di migliaia di piante. La mia Patagonia è il volto di Lucas Chiappe e della sua famiglia, tutti felici e vegetariani. Loro sono i salvatori di centinaia di ettari di bosco che stanno riforestando senz’altro aiuto che quello delle loro mani. O è il volto di Pedro Cifuentes, che ogni anno percorre cento chilometri a piedi, disegnando, registrando la flora e la fauna, scoprendo nuove specie, insomma, facendo l’inventario della vita. O quello del Vecchio Eznaola, un capitano che a novant’anni suonati continua a navigare. È mio fratello Carlos, pilota di aerei impossibili, cavaliere dell’aria più fredda e silenzioso narratore di storie. Sono i tratti ottimisti dei miei amici di Radio Ghiacciaio La voce della Patagonia, che uniscono la regione con le loro antenne e emissioni radio. E il ricordo di Salvador Allende, che durante molti periodi legislativi è stato senatore delle province di Chiloe Aysén e Magallanes, cioè della Patagonia e della Terra del Fuoco. E il volto picaresco del mio amico Francisco Coloane, che conosce per nome tutti i cavalli di Puerto Chaitén, Balmaceda e Chile Chico. Ma la Patagonia sono anche i sogni che faccio quando sono là e dormo all’aria aperta».
Chi è venuto qui fuggiva da qualcosa, veniva a trovare qualcosa, spinto dalla necessità di ricominciare. I discendenti dei primi coloni sono i patagoni di oggi, gente diversa da qualunque altra. Me ne puoi parlare?
«Il paesaggio umano della Patagonia è ricco e vario. Va dagli ultimi mapuche della parte argentina agli orgogliosi mapuche della parte cilena, che mantengono la propria cultura, i propri riti, forme di organizzazione, gli sport, le feste e un grande senso della solidarietà. Poi ci sono i gallesi, tutti discendenti di poveri diavoli che sono venuti con la speranza di arricchirsi il più rapidamente possibile e fare della Patagonia un nuovo Galles».
E ci sono riusciti?
«No, assolutamente, ma sono rimasti lo stesso nostalgici, con le loro case da tè nel bel mezzo del deserto del Chubut, e i loro cardi in formalina».
E i coloni tedeschi. Per loro la Terra del Fuoco non è stata come un fiume dell’oblio in cui purificarsi dalla precedenti esistenze?
«I migliori tra i coloni erano contadini della Foresta Nera che sono venuti qui spinti dalla miseria all’inizio del secolo. I peggiori sono arrivati fuggendo al loro passato nazista e cercando di avere nuove identità. Alcuni ci sono riusciti, alcuni hanno cambiato vita, altri hanno continuato a praticare la stessa bestialità e sono finiti a fare gli assessori di Videla o di Pinochet… I discendenti dei croati si sono stabiliti invece negli abitati costieri, i baschi sulle isole o nelle valli della Cordigliera, gli italiani e gli ebrei hanno fondato imprese commerciali, qualche portoghese si è dato all’essiccazione del pesce, ci sono ancora degli ungheresi che insistono nella ricerca dell’oro e poi gli hippy degli anni Settanta, che hanno riempito di colori i posti più tristi. Tra di loro, o da tutti loro, nasce il creolo della Patagonia che è una mescolanza di tutte le razze e di tutti i costumi».
E’ vero – come fai dire a Chatwin in uno dei tuoi libri – che i patagoni sono la razza più bugiarda del mondo?
«In Patagonia si mente come si mente in letteratura, come dico in uno dei miei libri. I patagoni mentono, ma non confondono la menzogna con l’inganno».
A parte un residuo di cultura india in Patagonia non si può dire che esista una cultura autoctona. Ma le radici culturali sono necessarie alla sopravvivenza di un popolo. A quali radici fanno riferimento, o hanno inventato i patagoni per sopravvivere?
«Bisogna pensare che la Terra del Fuoco, la Patagonia tutta, è una regione spazzata costantemente dai venti a ottanta chilometri all’ora e non c’è alcuna possibilità per ciò che è permanente. Questo influisce anche sulle radici culturali. In Patagonia esiste un ininterrotto incrocio di culture. Così, per esempio, un gaucho patagone porta stivali saltegni, del nord dell’Argentina, speroni di Talea del centro del Cile, calzoni a campana serbi o croati, fusciacca basca, fazzoletto siciliano, cappello andaluso con le falde accorciate o berretto basco. Il coltello (il facón) chiaramente arabo. Clara Evans, una gallese discendente del leggendario John Evans una volta mi ha detto: “Noi patagoni abbiamo le radici in aria, ma ben piantate”».
E che cosa speravano di trovare o da che cosa fuggivano gli antenati dei patagoni attuali?
«Ti faccio un esempio: una certa Bertha Kayser era venuta nella terra del Fuoco come istitutrice dei bambini di un ingegnere tedesco. Fuggiva da un destino orribile, perché i suoi genitori che erano di Brema, volevano sposarla con un uomo molto più vecchio che lei detestava. Qualcosa trovò, perché dopo tre anni che Bertha era in Patagonia, fu nota a tutti come “Bertha l’Imperatrice”, la più richiesta delle prostitute che passarono in quegli anni nella regione, e terminò i suoi giorni a dirigere un bordello itinerante formato da cinque vagoni nei quali viaggiavano molte prostitute di diverse nazionalità, un tavolo da roulette, e un piano con relativo pianista»
L’aneddotica di questa terra è infinita. La Patagonia sembra deserta, ma è invece popolata da personaggi che non hanno niente da invidiare ai protagonisti dei tuoi romanzi. Tra tutti coloro che hai incontrato lungo il cammino, c’è qualcuno che ricordi con particolare affetto?
«Un giorno, mentre cavalcavo insieme al mio amico Daniel Mordzinsky, allontanandoci di circa cento chilometri da Cholila, arrivammo a un bellissimo lago nascosto tra le montagne che ancora non figura nella carte della regione. Là, vicino al lago, conoscemmo Pedro Cifuentes, che vive tutto solo in una capanna che ha costruito lui stesso. Rimanemmo con lui qualche giorno e quando ci chiese se volevamo accompagnarlo a trovare una certa signora che aveva le mani miracolose, gli dicemmo di sì. Il giorno dopo ci mettemmo in marcia. Era sera quando arrivammo a una umile casa di mattoni crudi, circondata da un orto e da un giardino lussureggianti. Tutti i fiori possibili e tutti gli ortaggi possibili crescevano vicino a quella casa. La signora, donna Delia, ci fece entrare e ci preparò il mate e la “torta fritta”, delle specie di frittelle. Mentre cucinava ci disse che avrebbe compiuto cent’anni e che tutto quello che toccava con le mani cresceva. Cercando di non offenderla, visto che dubitavamo delle sue parole, le chiedemmo una piccola dimostrazione, e donna Delia prese dei rametti secchi di ciliegio. Lentamente sfregò con le dita i germogli secchi di un rametto e lentamente tra le sue dita apparvero fiori di ciliegio. Restammo senza parole. “Sono cose che in Patagonia si imparano”, ci disse. E io ci ho creduto. Ho incontrato molte persone come donna Delia nei miei vagabondaggi in Patagonia».
Esiste uno spirito o una divinità del luogo in Patagonia?
«I patagoni della parte cilena credono in esseri sovrannaturali come il Trauco, una specie di fauno che sorprende le fanciulle e le ingravida. Quelli della costa credono nella Picoya, una specie di bellissima strega che porta gli uomini al delirio e alla pazzia, come le sirene di Ulisse».
E tu hai visto qualcosa di simile durante uno dei tuoi viaggi?
«Sì, ne sono stato testimone: molto vicino alla frontiera che separa il Cile dall’Argentina, in un bosco di alberi secolari, una notte vidi delle lucine che mi inquietarono. Erano troppo grandi per essere lucciole e si muovevano lentamente e molto basse. Chiesi a Pedro Cifuentes che cosa fossero quelle luci e lui mi disse in tutta naturalezza che erano gnomi del bosco e che non dovevo preoccuparmi perché gli gnomi patagoni sono benevoli. La mattina scoprimmo delle piccolissime impronte intorno a un favo di api. Erano impronte di piedi umani così piccole che avrebbe potuto lasciarle un neonato. Scoprimmo anche un vasetto di terracotta rotto, delle dimensioni di una tazzina da caffè, dotato di due cinghie di cuoio molto morbide che presi per ricordo. Settimane dopo a Buenos Aires chiesi a un amico biologo di che animale fosse quel cuoio. Esaminò le cinghie e disse: “Strano, è pelle di topo, molto ben conciata, stranissimo. Dove le hai prese?” Non gli risposi, perché i segreti della Patagonia sono anche i miei».
L’inverno rigido di queste terre circonda gli abitanti di un manto di neve e di solitudine. Che cosa si fa nelle haciendas per ammazzare il tempo e per non esserne sopraffatti?
«Gli inverni in Patagonia sono lunghi e duri. I patagoni li trascorrono a preparare ricoveri per i cavalli, a sarchiare la lana, a filarla, a giocare alla morra e a parlare dell’umano e del divino. Non ammazzano il tempo perché sanno che è impossibile, ma provano a sovrapporsi alla sua lentezza atemporale con un’intenzionale lentezza umana».
E in questo paesaggio selvaggio, gli uomini non sono afflitti da una solitudine senza via di scampo, come i personaggi dei racconti di Coloane?
«Coloane è un grande scrittore che ha saputo captare l’epica, sempre tragica, dei pionieri, dei coloni e degli avventurieri che sono arrivati in Patagonia. La solitudine è sempre presente, non la solitudine intesa come “senza compagnia”, ma la solitudine di chi ha la grande compagnia di se stesso, del suo istinto e della sua intelligenza, del difficile equilibrio tra entrambe le manifestazioni umane. Questo non è cambiato. A volte, a qualcuno questa solitudine pare una condanna, altri si rassegnano e diventano eremiti, altri cercano in essa un balsamo per curare vecchie ferite, altri ancora cercano di capire se stessi in mezzo a tanta solitudine».
E tu?
«Credo che i miei personaggi assomiglino a questo ultimo tipo di persone, perché riflettono la mia esperienza personale. Nella solitudine della Patagonia trovo sempre gli argomenti che mi permettono di articolare le mie riflessioni e poi sintetizzarle per trasformarle in azione. C’è gente che cerca Dio e raramente lo trova. In Patagonia i miei personaggi, io stesso, cerchiamo ciò che di sconosciuto c’è in noi stessi: non da un punto di vista mistico (quello di “trovare se stessi”), ma provando a noi stessi che siamo capaci di trovare un equilibrio tra natura e intelletto, tra istinto e ragione».
Tu sei un viaggiatore infaticabile, che cosa puoi suggerire a chi vuole conoscere veramente la Patagonia, dove può iniziare il viaggio?
«Suggerisco di iniziare il viaggio dalla parte del Cile. Arrivare a Santiago in aereo e proseguire da là in treno fino a Puerto Montt. Da là attraversare il canale di Chacao e passare alla Isla Grande di Chiloé. Poi prendere una barca e navigare di fronte a Corcovado, e poi nei canali, verso il grande fiordo di Aysén fino ad arrivare a Puerto Chacabuco. Di là si può raggiungere in autobus Cuyhaique, una bella città nel cuore della Patagonia cilena, e poi si può proseguire il viaggio con ogni mezzo verso i quattro punti cardinali: ogni cammino è pieno di sorprese».
Il fatto che ultimamente la Patagonia sia diventata una meta turistica se non proprio di massa perlomeno molto frequentata, non mette in pericolo l’equilibrio ecologico di questa regione, una delle ultime riserve naturali incontaminate del pianeta?
«La verità è che i turisti mi preoccupano. Mi piacciono i viaggiatori, che sono il contrario del turista. Il turista cerca solo conferma di qualcosa che ha letto o che gli hanno detto, è incapace di vedere con gli occhi semplici della sorpresa. È turismo, per esempio, quello che si fa in Patagonia con le barche che percorrono i ghiacciai della parte cilena. Che cosa lascia il turismo a questa terra? Qualche dollaro, in realtà ben pochi, ai padroni delle barche e tonnellate di spazzatura nell’acqua».
Anche questa terra è minacciata quindi dal disastro ecologico prodotto dal mondo sviluppato, dall’industria e dallo sfruttamento delle risorse naturali. Qual è la lezione che hai imparato in Patagonia?
«Credo di aver imparato a rispettare il fragile equilibrio della Patagonia fin dal mio primo viaggio. Qualunque errore – e se ne commettono molti – qui può scatenare una serie di catastrofi. Ti farò un esempio: i latifondisti produttori di lana, come Benetton, hanno eliminato migliaia di guanacos per evitare che si incrociassero con le loro pecore di razza. La mancanza di guanacos ha condannato prima alla fame e poi all’estinzione migliaia di condor, aquile, chimangos e altri uccelli da preda. Ma i più forti si sono adattati modificando le loro abitudini. Hanno imparato che cacciare i piccoli delle pecore è più facile che cacciare i piccoli dei pochi guanacos rimasti e hanno ucciso migliaia di agnellini di razza. La lezione? La natura in Patagonia è sempre vendicativa, implacabilmente vendicativa».
I suoi libri più importanti (in edizione italiana)
Il vecchio che leggeva romanzi d’amore (1993), Il mondo alla fine del mondo (1994), Patagonia Express (1995), Un nome da torero (1995), La frontiera scomparsa (1996), Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (1996), Incontro d’amore in un paese in guerra (1997), Diario di un killer sentimentale (1998), Le rose di Atacama (2000), Il generale e il giudice (2003), Una sporca storia (2004), I peggiori racconti dei fratelli Grimm (2005), Il potere dei sogni (2006), Cronache dal Cono Sud (2007), La lampada di Aladino e altri racconti per vincere l’oblio (2008), L’ombra di quel che eravamo (2009), Ritratto di gruppo con assenza (2010), Ultime notizie dal Sud (2011), Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico (2012), Tutti i racconti, a cura di Bruno Arpaia (2012), Ingredienti per una vita di formidabili passioni (2013), Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza (2013), L’avventurosa storia dell’Uzbeko muto (2015), Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà (2015), La fine della storia (2016), Storie ribelli (2017), Tutte le favole (2017), Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa (2018).
La vita
Luis Sepúlveda Calfucura è nato in Cile, a Ovalle, il 4 ottobre 1949. Esiliato politico dal governo di Pinochet, ha abitato prima ad Amburgo, poi a Parigi, poi ancora a Gijón, nelle Asturie. Membro di Greenpeace ha viaggiato, anche a seguito degli equipaggi verdi, in tutto il mondo. Ha preso parte alla missione dell’Unesco volta a misurare le conseguenze politiche dell’installazione dei coloni tra gli indios, vivendo per sette mesi tra gli Shuar, nel cuore della foresta amazzonica. Da questa esperienza è nato il primo dei suoi libri, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. E’ morto a Oviedo il 16 aprile 2020, a causa del CoVid-19.
Considerazioni
di Carlo Crovella
Circa quarant’anni fa, girai per un’intera estate con un libro nella tasca a mezza coscia dei pantaloni da montagna. La cerniera era aperta e la parte superiore del libro era visibile a tutti. La copertina “beigiolina” con una evidente riga nera in alto (edizione italiana originale, oggi un cult fra i libri vintage) dava subito l’idea di quale libro si trattasse: In Patagonia di Bruce Chatwin.
All’interlocutore che incontravo per sentieri e rifugi, il mio era un messaggio chiaro, anche se “conformista” rispetto all’onda anticonformista in quel momento dominante. Non sono mai stato un fan sfegatato di quella fazione ideologica, quella degli anticonformisti a prescindere. Ma, già allora, la mia fissazione per la Patagonia era l’emblema di una ricerca personale verso qualcosa che va oltre i confini del turismo ed anche ben oltre i limiti dell’alpinismo comunemente inteso.
Su questo libro, per evitare di riscrivere cose già scritte in modo esemplare, faccio un copia e incolla della recensione che si trova sul sito Adelphi (casa editrice dell’edizione italiana):
«”Patagonia” dicevano Coleridge e Melville, per significare qualcosa di estremo.
“Non c’è più che la Patagonia, la Patagonia, che si addica alla mia immensa tristezza” cantava Cendrars agli inizi di questo secolo.
Dopo l’ultima guerra, alcuni ragazzi inglesi, chini sulle carte geografiche, cercavano l’unico luogo giusto per sfuggire alla prossima distruzione nucleare. Scelsero la Patagonia.
E proprio in Patagonia si sarebbe spinto Bruce Chatwin, non già per salvarsi da una catastrofe, ma sulle tracce di un mostro preistorico e di un parente navigatore. Li trovò entrambi – e insieme scoprì ancora una volta l’incanto del viaggiare, quell’incanto che è così facile disperdere, da quando ogni luogo del mondo è innanzitutto il pretesto per un inclusive tour.
Eppure, eccolo di nuovo: l’inesauribile richiamo, il vagabondo trasalire di un’ombra – il viaggiatore – fra scene sempre mutevoli. E nulla si rivelerà così mutevole come la Patagonia, che si presenta come un deserto: “nessun suono tranne quello del vento, che sibilava fra i cespugli spinosi e l’erba morta, nessun altro segno di vita all’infuori di un falco e di uno scarafaggio immobile su una pietra bianca”.
All’interno di questa natura, che ha l’astrattezza e l’irrealtà di ciò che è troppo reale, da sempre disabituata all’uomo, Chatwin incontrerà un arcipelago di vite e di casi molto più sorprendente di quel che ogni esotismo permetta di pensare.
Questa terra eccentrica per eccellenza è un perfetto ricettacolo per l’allucinazione, la solitudine e l’esilio. Qui i coloni gallesi versano il tè fra i ninnoli; qui circolano folli, che si trasmettono il titolo di re degli Araucani o coltivano la memoria di Luigi II di Baviera; qui si incontrano ancora elusivi ricordi di Butch Cassidy e Sundance Kid; qui si respira l’aria dei grandi naufragi; qui esuli boeri, lituani, scozzesi, russi, tedeschi vaneggiano sulle loro patrie perdute; qui Darwin incontrò aborigeni dal linguaggio sottile, e li trovò così “abietti” da dubitare che appartenessero alla sua stessa specie; qui si contemplano unicorni dipinti nelle caverne; qui sopravvive qualcuno che vuol far dimenticare un atroce passato.
Come un nuovo William Henry Hudson, devoto solo al “dio dei viandanti”, Chatwin ci racconta le sue molte tappe: fra baracche di lamiera, assurdi chalets, finti castelli, vaste fattorie. E ogni tappa è una miniatura di romanzo. Alla fine, la Patagonia sarà per noi pullulante di fantasmi, che si muovono sul fondo della “calma primitiva” del deserto, nella quale Hudson credeva di riconoscere “forse la stessa cosa della Pace di Dio”.
Pubblicato nel 1977 come opera prima, questo libro appartiene alla specie, oggi rarissima, dei libri che provocano una sorta di innamoramento. La Patagonia di Chatwin diventa, per chiunque si appassioni a questo libro, un luogo che mancava alla propria geografia personale e di cui avvertiva segretamente il bisogno».
Un altro cantore della Patagonia come fine del mondo è stato Luis Sepúlveda. Sul tema Patagonia, oltre a Patagonia express, Sepúlveda ha pubblicato Il mondo alla fine del mondo che rende bene l’idea.
Di Patagonia Express rubo qualche spunto da una recensione:
«Il diario di viaggio di Luis Sepúlveda in Patagonia e nella Terra del Fuoco: un libro in cui personaggi leggendari rivivono sullo sfondo di una natura indimenticabile.
Riflessioni, racconti, leggende e incontri che si intrecciano nel maestoso scenario del Sud del mondo, dove l’avventura non solo è ancora possibile, ma è la dimensione quotidiana del vivere.
Appunti da quella strana costruzione geografica che il Cile, stretto e lungo, come il collo di un fenicottero. Cile che è poi è il Paese dove Sepúlveda è nato e cresciuto e da cui se ne è dovuto andare durante gli anni di Pinochet. Un Paese dove a un certo gli dicono che può ritornare e che allora Sepúlveda lo attraversa con un taccuino in tasca e la voglia di stare a sentire la sue gente, odorare la sua terra per poi fare quel che meglio sa fare nella vita: raccontare.
Raccoglie così una galleria di personaggi e storie umane che si dipana in dodici tappe, tanti quanti sono i racconti di Patagonia Express. Che poi, dire solo Patagonia è riduttivo, visto che nel libro si parla anche di Ande e Amazzonia, come se non bastasse la grandezza sterminata dei paesaggi patagonici. Ma forse son quelli che si fissano di più nella mente, perché la Patagonia è uno di quei posti entrati a far parte dell’immaginario del viaggio, come certi deserti o certe città».
E’ nota la mia irriducibile avversione per i viaggi, specie dall’altra parte del pianeta. Tuttavia ho sempre subito il fascino della Patagonia, ma dell’altra Patagonia. Non quella alpinistica, il Cerro Torre, il Fitz Roy, il Perito Moreno, il compressore di Maestri, la morte di Toni Egger… tutte cose di cui ho letto a iosa e che conosco profondamente. Ma non mi muoverei per queste cose, non mi muoverei per metter le mani sul granito compatto e gelido o sul fungo di ghiaccio del Torre. Non mi muoverei per pernottare nella baracca del film Grido di Pietra.
Mi muoverei invece per vedere di persona il carattere intrinseco dell’altra Patagonia, che è davvero il mondo alla fine del mondo. Non solo geograficamente, ma anche antropologicamente. Se devo immaginare il nostro pianeta dopo una catastrofe nucleare, ebbene mi vengono in mente gli sterminati paesaggi patagonici, la loro silenziosa solitudine, le loro genti così imprevedibili e particolari.
Proprio sul libro Il mondo alla fine del mondo ho letto alcune brevi note:
«In queste pagine il lettore potrà ascoltare il grido indignato – ma anche il canto ammaliatore– della natura ferita, la protesta contro una cieca follia di cui pure l’uomo rimane vittima. Il «mondo alla fine del mondo», questo lembo estremo del pianeta, si trasforma, simbolicamente, nel luogo dell’apocalisse. Ma può anche essere l’universo in cui l’uomo ritrova l’unione con le proprie origini, l’armonia con gli elementi e, soprattutto, un anelito indistruttibile alla speranza».
Chissà, forse non tutto è perduto. La Patagonia, la “vera” Patagonia, è al contempo la conferma della nostra sconfitta ma anche la fiammella che alimenta l’utopia di un nuovo mondo, quello che piace a me: semplice, scabro e genuino.
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6) d’accordo, togliamo la parola odio e sostituiamo con antipatia(e’sparitol’odio di classe, ma almento l’antipatia di classe sociale lasciatelala a chi la prova)..poi nel temporale sopportato in comodo bivacco in cuccia sotto coperte ..aggiungiamo anche a volte il sibilo delle raffiche di vento attorno ai cavi .Lancio un appello: chi adopera ..se rimane anche in giornata con sole..esponga coperte e materassini al sole e , comunque , sempre chiudere la porta quando si va via..altrimenti i prossimi utenti si possono ritrovare l’interno bagnato o invaso da neve e ..conseguentemente lettini bassi e pavimento umidi e odoranti di muffa.
Hemingway non dette mai chiare indicazioni sui posti precisi di Addio alle armi e di La’ dal fiume..furono gli accaniti puntualizzatori a cercare ed individuare .
Ancora oggi si dibatte su “Il deserto deiTartari”di Buzzati..dove e’veramente ambientato? Quale Altopiano con monti lo ispiro’?Pale Di san Martino?https://www.mondimedievali.net/Asia/Iran/bam.htm.Poi Buzzati scrisse anche reportage ben dettagliati come giornalista.
Quindi un titolo contenente “Patagonia ” o altro toponimo preciso, potrebbe essere cambiato con nome di fantasia es.”Paciulandia”, arricchito con schizzi e bszzetti e non foto, mantenere la sostanza del racconto e sottrarsi ai cacciatori per”valorizzazioni”turistiche.
io non odio nessuno e al bivacco Carnielli ci sono stato 2 volte e dormito 3.
Perche la prima voltà c’ha preso un bel temporale e ce ne ne siamo rimasti li e scesi il giorno dopo. Notte magnifica sotto la lamiera che cigolando ci riparava da acqua, gradine fulmini e saette.
Il turismo inquina perchè spesso e volentieri uccide l’anima dei luoghi.
3)…e. …cio’ che un turista odia di piu’sono gli altri turisti..( in rari casi ci si affiata con estranei e si entra in sintonia,ma proprio rari..)
Memoria: raggiunto un bivacco (Carnielli in val zoldana al sass da Mesdì) eravamo in 5 ormai amici affiatati. Decidemmo di restarvi per via di un temporalone sopraggiungente dal Civetta..ammiravamo tranquilli con un ricovero a pochi metri,le forze dalla natura che ii stavano scatenando..fulmini e tuoni e raffiche di vento in avvicinamento..tutt’altro che situazione da depliant..All’ultimo arrivo’ una coppia di coniugi.Non salutarono e tra loro si misero a litigare sulle spese del loro condominio piu’a valle e..la moglie al nostro cospetto dava al marito del coglione che si faceva imbrogliare sui conti…decidemmo di affrontare il temporale e scendere puttosto che sopportare ‘sti turisti..come noi aventi diritto al panorama ed al bivacco.Niente da fare..i due ascoltarono il nostro breve accordo e si accodarono ed allora..giunti alla base dopo una paretina, risalimmo velocemente al bivacco lascindoli spompati a godere scrosci e la loro assemblea condominiale , noi eravamo in affitto turistico. Se poi una cordata piu’in alto ti scarica sassi e persino si lascia sfuggire un chiodo in fase di martellamento ,che ti passa vicino raso cranio con un sibilo..sono improperi che rimbalzano con l’eco.
https://youtu.be/focG3dLQ5_8
Chi vuole….
albert,
il turismo è un’attività economica altamente inquinante. Una delle peggiori.
Un dubbio: non e’che scrivendone e divulgando, poi i Best Seller attirano folle entusiaste,con pacchetti vacanza organizzati all inclusive nei”parchi letterari” .Poi per aggiunta i visitatori si lamentano di non trovare piu’ quei”mondi alla fine del mondo”e affibiano la colpa al turismo di massa, agli “altri “turisti mossi dalle stesse buone intenzioni…
Un tempo certe paludi lagunari erano postacci infestati da zanazare..un poco di divulgazione , promozione sul web e sono diventati “la laguna di caccia di Hemingway”dove pure ambiento’ il filarino con la contessina…ACCORRIAMO!con le opere in mano.(ma…qui passano auto, biciclette, c’e’una trattoria affollata con i piatti preferiti da Ernest ,da far la coda …) Li’ vicino a poche decine dichilometri c’e’la riva del Piave dove venne ferito.. accorriamo!.
A tre ore massimo c’e’ La Via ferrata intitolata a DinoBuzzati..ops ma in agosto c’e la coda per strada e poi quella dei moschettonati al cavo..ma che rovina ‘sto cavo e ‘sti prati e sentieri calpestati..sparite le praterie di Stelle Alpine.. spariti i branchi di camosci..che delusione, non ce l’ hanno raccontata giusta.
La Patagonia non è affatto tutto quello che sta in una parola. E non è neppure più quello che diceva Sepulveda in quell’intervista uscita su Alp. Sicuramente Chatwin la descrisse meglio di lui, forse perché non essendo nativo vedeva cose che ai locali sfuggivano.
Sono fortunato perché ho conosciuto la Patagonia estrapolandovi le montagne e tenendole per la passione, mentre tutto il resto ho potuto viverlo perché laggiù avevo la famiglia che non ho del tutto perduto. Sono sempre benvenuto dai miei ex suoceri, feroci proprietari terrieri che mi hanno aperto le porte verso un mondo parallelo all’immaginario che tutti hanno e… non le hanno ancora chiuse.