Il mondo dei tempi moderni
di Ivo Rabanser
(scritto il 4 marzo 2018, pubblicato su L’assassinio dell’impossibile, Reinhold Messner, a cura di Luca Calvi e Alessandro Filippini, ottobre 2018)
«Mentre Dio andava lentamente abbandonando il posto da cui aveva diretto l’universo e il suo ordine di valori, separato il bene dal male e dato un senso ad ogni cosa, Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo. Questo, in assenza del Giudice supremo, apparve all’improvviso in una temibile ambiguità; l’unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative, che gli uomini si spartirono fra loro. Nacque così il mondo dei Tempi Moderni (Milan Kundera)».
Era l’epoca in cui le vie sulle pareti dolomitiche venivano tracciate seguendo l’ideale della «goccia cadente». Gli anni delle «direttissime», delle salite tecnologiche, ricercando una linea astratta, ottenuta a colpi di chiodi e di perforatore.
Fino ad allora l’arrampicata aveva seguito un’evoluzione del tutto naturale: dopo la conquista delle maggiori cime, l’attenzione degli alpinisti più intraprendenti si era rivolta alle grandi pareti. L’attività in questo mondo arcaico non era codificata e l’esposizione al rischio, quale ingrediente determinante, era data dall’attrezzatura rudimentale allora a disposizione. Chi riusciva a risolvere un cosiddetto problema alpinistico, chi riusciva a tracciare una propria linea lungo queste repulsive muraglie, aveva vinto – senza restrizioni di regolamento o di etichetta.
Nel secondo dopoguerra, le grandi pareti erano in gran parte già state conquistate e alla giovane generazione si pose il quesito della direzione in cui si sarebbe evoluto l’alpinismo. Quello dei grandi strapiombi era un mondo ancora inesplorato e offriva la possibilità di realizzare itinerari più diretti rispetto alle vie realizzate dai maestri del precedente periodo glorioso del «sesto grado». E di pareti gialle in Dolomiti non vi era certo mancanza.
Se in un primo periodo si creò un mirabile equilibrio fra l’arrampicata libera e quella artificiale, puntando sì al percorso diretto verso la cima, ma sempre adeguandolo alla morfologia della parete, in seguito l’artificialismo prese il sopravvento, anche perché permetteva risultati sempre più spettacolari con rischi minori. Era uno specchio che rifletteva lo spirito del tempo, dell’uomo fiducioso nei progressi delle tecnica. Nell’ottica di allora, il superamento di queste pareti aggettanti costituiva una logica evoluzione delle difficoltà! Iniziò così una fase decadentistica dell’alpinismo, quella dei «brividi rovesci», delle assurde e illogiche «superdirettissime», non più plasmate, ma brutalmente imposte alla parete seguendo l’imperativo del «niente è impossibile, basta chiodare». Il numero dei chiodi impiegati aumentò vertiginosamente, oltrepassando in alcuni casi più eclatanti quello dei metri misurati dalla parete stessa.
All’orizzonte si stava lentamente profilando una fase di ribellione a questo esasperato tecnicismo. Preso atto che con l’ausilio di mezzi ad oltranza ogni parete, anche quella più repulsiva, sarebbe stata espugnabile, per la moda delle salite artificiali cominciò un lento declino. In questo contesto di tempi ormai maturi, una spinta decisiva venne da Reinhold Messner, allora giovane e sconosciuto alpinista sudtirolese, che attraverso i suoi scritti proclamò che l’evoluzione dell’arrampicata poteva solo stare nel ritorno alla scalata in libera, con il minor supporto possibile di artifici e soprattutto con la rinuncia al ricorso ai chiodi a perforazione. Nel 1965 il ventunenne pubblicò sul quotidiano sudtirolese «Dolomiten» un articolo, tradotto poi in diverse lingue e apparso sulla «Rivista Mensile» del CAI nel ottobre 1968, nella veste di un quasi editoriale. «L’assassinio dell’impossibile» è una sintesi efficace del suo pensiero, a favore di un alpinismo di rinuncia. Questo manifesto non proponeva una nuova concezione alpinistica, bensì voleva riportare ad un livello più naturale il confronto dell’uomo con la natura autarchica. «In avvenire, proseguiamo sulla via indicataci dagli uomini del passato: io sono convinto che sia ancora quella giusta». Ma ciò che conferì a Reinhold Messner credibilità e indiscussa autorevolezza sono state la serie di notevoli prime ascensioni, che suffragarono ciò che egli teorizzava attraverso i suoi scritti. Sassolungo, Civetta, Agnèr, Marmolada, Sass dla Crusc, le pareti più grandiose delle Dolomiti, su cui disegnò dei percorsi che con lucida coerenza rispecchiano le sue convinzioni.
Quando, giovane adolescente, mi sono affacciato al mondo della montagna, la molla iniziale è stata dettata senz’altro dalla curiosità. Furono i racconti del nonno materno, ottimo affabulatore e forte arrampicatore nei suoi anni giovanili, a schiudermi quest’attività, tra il cielo e la terra, che in seguito mi prese sempre più.
Erano gli anni in cui andava esaurendosi l’aura e l’epicità dell’alpinismo. L’arrampicata, come disciplina sportiva fine a se stessa, si emancipò dalla montagna, e il gioco con le difficoltà tecniche, in cui i pericoli venivano rimossi a priori, trovò terreno fertile nella nuova generazione e andava diffondendosi a macchia d’olio. Per scalare non era più necessario recarsi in ambienti inospitali, lontani dagli uomini e dalle loro convenzioni – era sufficiente una modesta parete rocciosa, oppure una scogliera sul mare.
Ma anche sulle pareti in montagna, l’originaria e unica verità, secondo la quale chi risolveva i problemi alpinistici aveva vinto, andava scomponendosi in innumerevoli verità relative, che i giovani atleti si spartirono fra loro. Funambolici acrobati palesarono i loro virtuosismi liberando le vecchie vie artificiali, altri si destreggiavano a concatenare in un solo giorno una serie consecutiva di itinerari.
Conquistate tutte le montagne della terra, sembrava che all’uomo-alpinista non rimanesse che perfezionare le dimostrazioni tecniche e sportive sulle montagne, non in rapporto ad esse, ma a se stessi. Sembrava come se la definizione classica dell’alpinismo, cognata dall’inglese Albert Frederick Mummery, che «il vero alpinista è l’uomo che tenta nuove ascensioni», avesse ceduto il posto alle performances con il cronometro, in cui l’incognita del record sostituisce l’incognita dell’itinerario. Svelati i segreti delle grandi pareti, sembrava si potesse, ormai, soltanto giocare a chi fosse più bravo, più svelto o più atletico.
In questa situazione ingarbugliata, non era affatto scontato trovare una propria strada, che si sposasse con le proprie inclinazioni, senza dover ossequiare e servire i nuovi imperativi, che sempre più numerosi venivano lanciati. Ma spesso i vicoli ciechi sono proprio i luoghi dove nascono le migliori ispirazioni. Sarà che per naturale predisposizione non ero portato ai virtuosismi atletici, né disponevo dello stoicismo necessario per sottopormi con costanza alle sedute d’allenamento, ma fin da subito concepì l’arrampicata come mezzo che mi permettesse di esplorare un mondo arcaico e selvaggio. L’arte del gesto non mi interessava più di tanto, era solo uno degli strumenti dell’avventura in montagna, non diversamente dalle capacità manuali oppure delle conoscenze storiche. Del resto non è stata certo la passione per la marcia che ha portato Roald Amundsen al Polo Sud.
E anche in questo caso fu il nonno a venirmi in soccorso, seppure in modo inconsapevole, con un episodio dei suoi anni giovanili, quando aveva ripetuto per primo diverse delle più difficili realizzazioni di Battista Vinatzer. Allorché i due coetanei si trovarono in tempo di guerra in una caserma a Torino, nacque un’animata discussione. «Sei solo capace di copiare, come fanno le scimmie», disse Vinatzer, alludendo al fatto che l’altro aveva sì ricalcato diverse importanti salite, senza però riuscire a concepire e realizzare delle proprie idee. Lo scherno del miglior rocciatore gardenese doveva aver colpito nell’orgoglio mio nonno, tant’è che rievocava spesso quella disputa, concludendo dispiaciuto che «però Vinatzer aveva avuto ragione».
Questo aneddoto mi chiarì fin da giovane che in montagna – come del resto in altre circostanze della vita – una cosa è ideare, altra cosa ripetere. E come Ernest Hemingway consigliava di «non confondere mai il movimento con l’azione», anche questi due differenti approcci vanno distinti accuratamente. Penso sia stato l’input decisivo nel mio giovanile periodo di Sturm und Drang, che mi spronò a sviluppare energia e risolutezza, per trovare una mia strada e seguirla tenacemente.
Mi interessavo alla storia dell’alpinismo, come a quella dell’arte e degli uomini. Alcuni personaggi mi affascinavano enormemente, altri mi lasciarono abbastanza indifferente. Con il tempo imparai «che quelli che fanno tante parole non sono sempre i migliori», come ebbe a dire Hans Dülfer, ma soprattutto che il supremo dettame dell’eleganza, che consiste nel non farsi notare, per chi intende vivere di alpinismo non può funzionare.
In poco tempo appresi i rudimenti del mestiere, poiché una capacità di cui si sente intimamente il bisogno, si acquista più facilmente. Non pretendevo di diventare un virtuoso, un artista delle arrampicate, volevo soltanto realizzare il sogno di riuscire a destreggiarmi sui monti in piena autonomia.
Con ogni salita le mie capacità si andavano affinando e oggi sono convinto che un graduale e prudente progresso, fatto di piccoli passi successivi, costituisca il fondamento e affini quell’istinto che in situazioni critiche ti permette di reagire nel modo più opportuno. Le numerose ascensioni di media difficoltà, compiute con mio padre sulle pareti che circondano la nostra vallata, contribuirono a completare il bagaglio di esperienza. E siccome lui era meno pratico mi toccò fin dall’inizio il ruolo di capocordata. Fu un bene, poiché in tal modo imparai a decidere e ad agire autonomamente.
Dopo questa fase d’apprendimento, in cui visitai le vie che hanno scandito la storia con la stessa riverenza con cui si addentra in un museo, ben presto si cristallizzò quello che sarebbe diventato il fulcro delle mie aspirazioni alpinistiche: poter sviluppare una mia creatività. Presumo c’entri anche la mia educazione, in quanto mi è stato insegnato che una virtù poco conta se non riesce a portare dei frutti. Questo piacere, il poter lasciare una traccia, non mi ha più abbandonato. Scrisse Jim Bridwell che «aprire una via è un’avventura unica e diversa da tutte le esperienze che seguono: vi è la scelta del tracciato, lo stile, l’etica della salita e la libertà di decidere come comportarsi in base alle condizioni che si trovano. La prima salita è un’eredità che si lascia in un dato momento storico ad altri esseri umani. Un’opera che va rispettata da tutti gli altri».
La creatività alpinistica presuppone il conoscere in modo approfondito ciò che è già stato fatto sulle pareti, richiede un buon occhio per individuare un’ipotetica traccia, capacità organizzative e, dulcis in fundo, resistenza psicologica per concretizzare l’idea di un percorso d’arrampicata. Una buona linea, che individua i punti vulnerabili della roccia, li collega come in un prezioso ricamo, con i suoi appigli, i suoi chiodi pertinenti alle difficoltà. Trasformare l’intuizione balenante in un percorso concreto è un gioco delizioso! Ritengo che il tempo passato col binocolo a scrutare le pareti, soprattutto nel tardo pomeriggio, quando la luce radente ti svela ogni ruga della roccia, indicandoti la linea da seguire, sia stato altrettanto bene investito quanto quello passato ad affinare le capacità motoriche.
E poter realizzare i propri obiettivi sulle crode che osservi tutti i giorni, senza dover spostarsi in capo al mondo, penso sia stato un grosso privilegio. Poiché le proprie creazioni ti tengono compagnia e le rivedi volentieri, così come volentieri si rivedono persone care, con cui si è condiviso esperienze che si sono rivelate come dei punti nella memoria.
Si, per conto mio, il non macchiarsi di assassinio dell’impossibile, come indicato mezzo secolo fa da Reinhold Messner, presuppone che l’alpinista si muova su terreno non preparato, accettando di gestire in modo auto responsabile l’esposizione al rischio.
Mentre i ghiacciai si trasformano in corsi d’acqua, l’arrampicata si è definitivamente suddivisa in numerose discipline, spesso indipendenti fra di loro: boulder, arrampicata sportiva, free climbing, trad climbing, cascate di ghiaccio, alta montagna, alpinismo in quota, solitarie, invernali, speed, skyrunning, un catalogo di attività per tutti i gusti. Ne consegue una nuova letteratura, una nuova filosofia, una nuova cucina, un nuovo guardaroba – per ognuna di queste dedizioni.
«Non rimane veramente nulla che valga la pena, per cui affrontare grandi pericoli», affermava Clinton Dent, uno dei conquistatori del Gran Dru, a proposito degli ultimi problemi delle Alpi nel 1880. Ma l’immobilismo non è di questo mondo, di conseguenza le nuove generazioni cambiano le norme a loro volta, creando nuovi imperativi. L’evoluzione attuale è dovuta anche al fatto che diventa sempre più difficile trovare del terreno vergine da esplorare, mentre il perfezionismo sportivo è un filone inesauribile. Si potrà sempre rosicchiare qualche minuto o battersi per qualche chiodo in meno, purché tali performances siano controllabili, dal momento che la buona fede degli alpinisti non è obbligatoriamente trasparente.
Itinerari un tempo proibitivi vengono percorsi in tempi di record, gli orari diminuiscono, si sbriciolano, si polverizzano. «Torneranno ancora prima di essere partiti», ironizzava già tempo addietro Georges Livanos. In quest’epoca del più difficile, più veloce e più in alto, gli atleti più competitivi perfezionano la loro prestazione sportiva per lo più lungo percorsi già preparati. Liberate dall’imprevedibilità dell’incognita, queste piste permettono di potersi concentrarsi del tutto sul gesto atletico.
Il muoversi dove altri non vanno, richiede invece creatività e inventiva. Sono proprio l’imprevedibilità del tracciato, dove tutto è da inventare, insieme alle condizioni ambientali, spesso inospitali e lontani dalla rassicurante civilizzazione, che conferiscono a questa disciplina il senso di esposizione. «Raccogliere le rose lungo i confini dell’impossibile richiede una grande forza morale», come ebbe ad esprimersi Lionel Terray. Malgrado la comunicazione digitale, il Gps, l’attrezzatura high-tech, che hanno notevolmente facilitato le cose. Si tratta di non oltrepassare quella linea sottile e impercettibile fra il coraggio e l’azzardo, che ogni persona deve definire secondo la propria esperienza, le capacità e non da ultimo, sulla base della personale accettazione del rischio.
I corsi e ricorsi della storia ripropongono ciclicamente questa contrapposizione tra una concezione conservatrice e quella innovativa. Nel periodo d’anteguerra Paul Preuss e Hans Dülfer erano personalità eminenti nel mondo dell’alpinismo. Mentre Preuss, il «purista» di Vienna, rinunciava deliberatamente e con coerenza all’uso di mezzi artificiali, Dülfer, il «pragmatico» di Dortmund, escogitò tecniche che gli permisero di risolvere i problemi alpinistici più ambiti dell’epoca. Ambedue provenivano da famiglie benestanti e potevano permettersi di seguire senza condizionamenti la loro passione per le scalate. Ambedue morirono tragicamente e prematuramente: il dogmatico sui monti, l’innovatore sul fronte di guerra.
Negli anni Sessanta Reinhold Messner era disposto a servirsi di corda e dei chiodi, ma rifiutò categoricamente l’impiego dei chiodi a perforazione, che in teoria permettono di espugnare qualsiasi parete rocciosa. Questo stile by fair means esige che sia l’uomo a superare le difficoltà che la montagna oppone – senza un ricorso intermediario della tecnologia. Vorrebbe dire che ogni aiuto esterno, dai chiodi trovati già infissi in parete, alla via preparata in precedenza da altre persone, non corrisponde a un approccio «con mezzi leali». Approccio che tuttavia si «vende» bene, come marchio di qualità, anche se in realtà è proprio la pista preparata a consentire le performances dell’atleta di turno. Certe imprese molto mediatizzate degli ultimi tempi, dimostrano capacità di marketing senz’altro maggiori a quelle alpinistiche. Ma in fondo chi è senza peccato, cerchi di ricordare meglio…
Pare che esista una fase nella vita in cui si abbandonano vanità, egoismo, false ambizioni, e non si desideri più nient’altro che la realtà. È l’età della ragione – l’età della rassegnazione, come sosteneva Sartre. Non è ancora la vecchiaia, ma bisogna stare attenti: quel flusso tumultuoso, quel tutto o niente, tipico degli anni giovanili si rivela davvero il meglio che poteva riservarci la vita? Sicuramente la cautela e la saggezza, l’accortezza e l’esperienza valgono poco se non sono riscaldati dal fuoco sacro della passione. Per conto mio, con il passare degli anni, mi interessa maggiormente la validità estetica di un risultato, più che l’etica deontologica, che anche nel mondo dell’arrampicata si rivela molto relativa. Sarà per rassegnazione, ma tra la tesi e l’antitesi, come suggeriva Hegel, mi sforzo di ricercare una sintesi fra le due istanze contrapposte.
La scalata in montagna sembra evolversi sempre più su due binari ormai distanti fra di loro: da una parte l’arrampicata intesa come piacere edonistico, su roccia bella, lungo un percorso preconfezionato e focalizzata sulle difficoltà; dall’altra la scalata d’ingaggio, dove la soddisfazione deriva dalla propria autonomia, ovvero il riuscire a salire una parete anche senza che qualcuno abbia precedentemente preparato il terreno, accettando di gestire in modo auto responsabile l’esposizione al rischio. Del resto anche la generazione dei tempi moderni svilupperà la forma di alpinismo che sembrerà più consono al proprio modo di sentire e allo spirito del loro tempo.
Disse lo scrittore austriaco Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, «che dipende dall’etica, se la tecnica conduce l’uomo verso l’alto o verso il basso. Tuttavia la tecnica non porterà l’uomo in cielo. Nel regno dell’eterna bellezza ci porta qualcosa d’altro. Che cosa, questo alla fin fine ognuno deve sceglierlo lui stesso». Penso che al di là del filosofeggiare sul senso e nonsenso dell’alpinismo, sulle concezioni e finalità delle varie generazioni, l’arte della sopravvivenza rimane il sommo valore, che racchiude in se tutti i principi etici.
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Approfitto di questa sede per ribadire un concetto espresso a Bolzano, sul palco, durante la presentazione del libro.
Quello di Ivo è stato un contributo ideologico ed artistico, con una costruzione architettonica al servizio di una narrazione di spessore, rendendo evidente come l’alpinismo e l’impossibile non siano per nulla categorie avulse al mondo della letteratura e del Pensiero, quello con la P maiuscola.
Ivo Rabanser ha dimostrato che la letteratura alpinistica non è una letteratura di serie B.
Esistono alpinisti o amanti dell’alpinismo che sanno scrivere ed altri che invece non lo sanno fare.
Le narrazioni possono quindi essere letteratura o non esserlo, ma se lo sono non sono di serie B solo perché inerenti il mondo del verticale.
Il contributo di Ivo è stato assolutamente delizioso, come ho detto chiaramente sul palco, come ho ripetuto a lui poco dopo e come ribadisco in questa sede e, se del caso, ancora ribadirò.
Ciao Ivo e grazie!
(Grazie Alessandro per aver pubblicato questa chicca, e lo dico da curatore del volume e da avido lettore del Tuo blog e dei contributi dei Tuoi amici e colleghi).
“La passione spesso conduce a soddisfare le proprie voglie”… e gli alpinisti arrampicatori sono grandi passionari che anelano a scalare il cielo , la luce, il silenzio che parla, l’aria fina senza
È bella l’idea che arrampicare è l’arte di arrangiarsi e sopravvivere e che la montagna è un luogo d’incontro dove uno vede se stesso negli occhi dell’altro di chi l’ha preceduto o lo accompagna in cordata.
Anche io, come Alberto, mi ritrovo pienamente nel passo riportato di Ivo.
Aggiungerò che questo tentativo, intimo e difficile, di recuperare un mondo arcaico e selvaggio, è un cimento che spesso mi ha visto in serie difficoltà. Non con l’ambiente, che ne elargisce di sue, ma con gli altri. Non riuscendo a penetrare, se non solo fino a un certo punto, la dinamica del pensiero deontologico.
Non ci riesco. Sono troppo anarchico da questo punto di vista. O forse, più probabile, ignorante. Non abbastanza bravo per aver superato quelle necessarie difficoltà tecniche, che me la farebbero comprendere.
Belle riflessioni che condivido in pieno. Pensando anche agli ultimi exploit invernali in Himalaya mi sono chiesto se il futuro dell’alpinismo non sia nel “togliere” invece che puntare al “di più”. I grandi salti evolutivi in alpinismo sono proprio stati condotti “togliendo” con arte cone dice Ivo. Messner ha tolto la sicurezza e violenza del chiodo a pressione aprendo la strada a tutto l’alpinismo moderno sulle Alpi ed altrove; i sassisti degli anni settanta hanno tolto la cima aprendo le porte all’arrampicata libera. La domanda è: cosa c’è oggi da togliere? E chi avrà la visione per farlo?
Mi piace l’alpinista Ivo , mi piace la sua passione per la storia, il suo trarre ispirazione dal passato. Il suo stile classico. Un pò mi rivedo in queste sue parole.
Grazie Ivo,
riflessioni inconsuete da un forte alpinista, pensante. Chi è senza peccato cerchi di ricordare meglio; ti chiedo, l’hai pensata tu? Complimenti comunque, mi pare fulminante. Bella anche la chiusa, ricordando i troppi che se ne sono andati anzitempo.
E grazie anche ad Alessandro
“Quel flusso tumultuoso, quel tutto o niente, tipico degli anni giovanili si rivela davvero il meglio che poteva riservarci la vita? Sicuramente la cautela e la saggezza, l’accortezza e l’esperienza valgono poco se non sono riscaldati dal fuoco sacro della passione. Per conto mio, con il passare degli anni, mi interessa maggiormente la validità estetica di un risultato, più che l’etica deontologica, che anche nel mondo dell’arrampicata si rivela molto relativa. Sarà per rassegnazione, ma tra la tesi e l’antitesi, come suggeriva Hegel, mi sforzo di ricercare una sintesi fra le due istanze contrapposte.”
Ottima considerazione, bravo Ivo!
Nutro una grande ammirazione per alpinisti come Ivo Rabanser ( così come, ad es., per Heinz Grill e compagni) che sono stati in grado di aprire vie nuove con l’etica della “libera” e delle protezioni limitate allo stretto necessario, in ambienti molto severi come sullo Spitz di Lagunaz o altre montagne dove entrano in gioco le qualità umane più dei mezzi tecnici.
Condivido e ammiro ancora di più il suo senso di equilibrio nel saper dosare la ricerca dell’avventura estrema ( che porta a realizzare le grandi imprese dell’alpinismo) con una visione più relativa ai tempi attuali, con attenzione alla sicurezza dei ripetitori, meno capaci di grandi imprese e con la realizzazione di vie pur sempre estetiche, su bella roccia, ma più protette. Ci sono molte realtà ormai e ognuno può trovare il proprio spazio: dalla falesia, alle vie multi-tiro plaisir, all’alpinismo, alla velocità nei concatenamenti, ecc. ed è inutile entrare in competizione tra campi diversi, come spesso viene fatto…Bisogna però conoscere bene le differenze per non cadere in errore!.. e l’articolo sulla storia dell’alpinismo di Ivo, tratto dal libro, è molto chiaro.
Bell’estratto, complimenti! A parer mio anche il libro integrale merita, anche se per struttura non è esattamente”fluido”. Molto curioso leggere come Tondini sia in qualche modo riuscito a persuadere -forse addirittura convincere!- perfino Messner che usando saggiamente lo spit/fix si riesce comunque a non uccidere l’avventura/alpinismo
“Ma in fondo chi è senza peccato, cerchi di ricordare meglio…”
Credo sia una degli aforismi migliori mai scritti!
Gran bel pezzo Ivo, grazie.
Gran bell’articolo con ottimi spunti di riflessione.
La circolarità che si legge rivela una natura umana ben più autentica di quella espressa dagli uomini in preda al dualismo, in cui sonnecchia sempre il conflitto.
Tale circolarità, nell’articolo fa capo alla saggezza della seconda età – come è giustamente osservabile da tutti – ma sarebbe un nocciolo da estrapolare per spargerne i frutti nella cultura tutta, per arricchire le persone fin dall’inizio della loro vita.
…dal momento che la buona fede degli alpinisti non è obbligatoriamente trasparente.
È qui che sta l’arcano irrisolvibile dell’alpinismo. Quindi si tratta di storia relativa, come tutta la storia. Ma gli alpinisti stanno lassù seminascosti e non sono esenti dal raccontar balle.
Comunque: bello scritto, bravo Ivo.