Il Mulino di Amleto
a cura delle Rete delle Reti
(già pubblicato il 17 gennaio 2018 su http://retedellereti.blogspot.it/2018/01/giorgio-de-santillana-il-mulino-di.html)
Lettura: spessore-weight***, impegno-effort*****, disimpegno-entertainment*
Il mulino di Amleto – saggio sul mito e sulla struttura del tempo è uno di quei rari libri che mutano una volta per tutte il nostro sguardo su qualcosa: in questo caso sul mito e sull’intera compagine di ciò che si usa chiamare «il pensiero arcaico». Cresciuti nella convinzione che la civiltà abbia progredito «dal mythos al logos», «dal mondo del pressappoco all’universo della precisione», in breve dalle favole alla scienza, ci troviamo qui di fronte a uno spostamento della prospettiva tanto più sconcertante in quanto è condotto da uno dei più eminenti illustratori del «razionalismo scientifico»: Giorgio de Santillana. Proprio lui, che aveva dedicato studi memorabili a Galileo e alla storia della scienza greca e rinascimentale, si trovò un giorno a riflettere su ciò che il mito veramente raccontava. Capì di non aver capito, sino allora, un punto essenziale: che anche il mito è una «scienza esatta», dietro la quale si stende l’ombra maestosa di Ananke, la Necessità. Anche il mito opera misure, con precisione spietata: non sono però le misure di uno Spazio indefinito e omogeneo, bensì quelle di un Tempo ciclico e qualitativo, segnato da scansioni scritte nel cielo, fatali perché sono il Fato stesso. È questo Tempo che muove il «mulino di Amleto», che gli fa macinare, di era in era, prima «pace e abbondanza», poi «sale», infine «rocce e sabbia», mentre sotto di esso ribolle e vortica l’immane Maelstrom.
Giorgio Diaz de Santillana (Roma, 30 maggio 1902 – Beverly, 1974) è stato uno storico italiano, un fisico e filosofo della scienza, nonché docente al MIT. Nacque a Roma in una famiglia di origini ebraiche. Si laureò in fisica all’Università di Roma nel 1925. Trascorse due anni a Parigi e poi altri due anni al dipartimento di fisica di Milano, poi fu richiamato a Roma da Federigo Enriques per organizzare un corso di storia della scienza. Qui Santillana insegnò storia e filosofia della scienza. Nel 1936, a causa dei crescenti atteggiamenti anti-ebraici del regime fascista, si trasferì negli USA, dove anni dopo ottenne la cittadinanza. Insegnò al MIT, dove nel 1942 divenne professore assistente e nel 1948 professore associato. Nel 1954 ottenne la cattedra di “Storia e filosofia della scienza”. Processo a Galileo è uno dei suoi libri più noti.
De Santillana nella sua indagine sulla storia del pensiero sopratutto matematico e astronomico ha dato largo spazio al mito (“primo linguaggio scientifico”) e all’immaginazione letteraria. La sua monumentale opera Il mulino di Amleto, scritta in collaborazione con una etnologa tedesca (allieva di Frobenius), Herta von Dechend, ha per sottotitolo Saggio sul mito e sulla struttura del tempo ed è paragonabile al Ramo d’oro di James Frazer per la sterminata ricchezza di fonti antropologiche e letterarie che intesse in una fitta rete attorno a un tema comune. La chiave di tutti i miti, che per Frazer era il sacrificio rituale del re e i culti della vegetazione, per Santillana-Dechend sono le regolarità del tempo zodiacale e i suoi cambiamenti irreversibili su lunghissima scala (precessione degli equinozi) dovuti all’inclinazione dell’eclittica rispetto all’equatore. L’umanità porta con sé una memoria remota degli spostamenti celesti, tanto che tutte le mitologie conservano la traccia d’avvenimenti che si producono ogni 2.400 anni circa, quali il cambiamento del segno zodiacale in cui si trova il sole all’equinozio; non solo, ma quasi altrettanto antica è la previsione che l’incessante lentissimo movimento del firmamento si saldi in un immenso ciclo o Grande Anno (26.900 anni dei nostri). I crepuscoli degli dèi registrati o previsti in varie mitologie si collegano a queste ricorrenze astronomiche; saghe e poemi celebrano la fine dei tempi e l’inizio d’ere nuove, quando “i figli degli dei uccisi troveranno nell’erba i pezzi tutti d’oro del gioco di scacchi che fu interrotto dalla catastrofe”. Risalendo dalle fonti della leggenda d’Amleto nelle cronache danesi e nelle mitologie nordiche, e coinvolgendo poi africani Dogon, induismo, aztechi, autori greci e latini, Santillana e Dechend rintracciano l’affiorare d’una prima problematica filosofica: l’idea d’un cosmo ordinato le cui norme risultano sconvolte da una catastrofe fisica e morale; e, in risposta a ciò, l’aspirazione al ritrovamento di un’armonia. L’idea che nessuna storia e nessun pensiero umani possano darsi se non situandoli in rapporto a tutto ciò che esiste indipendentemente dall’uomo; l’idea d’un sapere in cui il mondo della scienza moderna e quello della sapienza antica si riunifichino. Il tema comune dei quattro saggi di questo piccolo libro è il nesso tra Fato e libertà, cioè il posto dell’uomo nell’universo così come lo concepivano gli antichi, o meglio gli arcaici (e quegli arcaici conservatisi tali fino alle soglie del nostro tempo, cioè i cosiddetti primitivi): il Fato che sovrasta tutti, uomini e dèi (gli dèi sono identificati nei pianeti, che comandano ogni mutamento) e la libertà che può essere raggiunta solo da chi comprenda e rispetti le leggi e le misure del Grande Orologio. Il Fato era dunque ben diverso da quella potenza imperscrutabile, oscuramente connessa con le nostre colpe, che è diventato dai tempi della tragedia greca fino ai nostri: al contrario, l’idea di Fato implicava la conoscenza precisa della realtà fisica, e la coscienza del suo impero su di noi, necessario e ineluttabile. I veri rappresentanti d’uno spirito scientifico erano dunque loro, gli arcaici; non noi che crediamo di poterci servire delle forze naturali a nostro piacimento, e dunque partecipiamo d’una mentalità più vicina alla magia. Il coincidere col ritmo dell’universo era il segreto dell’armonia, “musica” pitagorica che ancora in Platone regola l’astronomia come la poesia e l’etica. Silenzio, musica e matematica: il programma pitagorico è contenuto in questo trinomio; e sui Pitagorici – comprensibilmente prediletti da Santillana – questo libro dà di scorcio definizioni illuminanti, così come un’ampia e convincente interpretazione di Parmenide. Se talora egli sembra esaltare un’età dell’oro prealfabetica e tingere in nero la cultura tecnologica d’oggi asservita alla macchina, egli è pur sempre pronto a dissolvere ogni illusione idillica sulle civiltà arcaiche, mostrando tutti gli orrori e i traumi psichici che comportava il vivere a quei tempi; così come d’ogni situazione nuova sa mettere in luce i valori, le possibilità che realizza, insieme ai disvalori e alle perdite. Ogni epoca ha le sue nevrosi collettive, e non è detto che fossero tutte inevitabili.
Herta von Dechend e Giorgio de Santillana
Di questo «mulino di Amleto» gli autori seguono le tracce in un percorso vertiginoso, da Shakespeare a Saxo Grammaticus, dall’Edda al Kalevala, dall’Odissea all’epopea di Gilgameš, dal Rg-Veda al Kumulipo, vagando dalla Mesopotamia all’Islanda, dalla Polinesia al Messico precolombiano. I disiecta membra del pensiero mitico, che ama «mascherarsi dietro a particolari apparentemente oggettivi e quotidiani, presi in prestito da circostanze risapute», cominciano qui a parlarci un’altra lingua: là dove si racconta di una tavola che si rovescia o di un albero che viene abbattuto o di un nodo che viene reciso non cerchiamo più il luogo di quegli eventi su un atlante, ma alziamo gli occhi verso la fascia dell’eclittica, la vera terra dove si svolgono gli avvenimenti mitici, il luogo dove si compiono i grandi peccati e le imprese eroiche, il luogo dove si è compiuto il dissesto originario, fonte di tutte le storie, che fu appunto lo stabilirsi dell’obliquità dell’eclittica. Da quell’evento consegue il fenomeno delle stagioni, archetipo della differenza e del ritorno dell’uguale. Così il «mulino di Amleto» si rivelerà alla fine essere la stessa «macchina cosmica».
«I veri attori sulla scena dell’universo sono pochissimi, moltissime invece le loro avventure»: Argonauti che solcano l’Oceano delle Storie, navighiamo qui sulla rotta di quelle avventure, che vengono ricomposte usando frammenti della più disparata provenienza, vocaboli dei molti «dialetti» di una lingua cifrata e perduta, «che non si curava delle credenze e dei culti locali e si concentrava invece su numeri, moti, misure, architetture generali e schemi, sulla struttura dei numeri, sulla geometria». Ma il mito si lascia spiegare soltanto in forma di mito: la struttura del mondo può essere soltanto raccontata. È questo il sottinteso dalla forma labirintica, di temeraria fuga musicale, che si dispiega nelle pagine del Mulino di Amleto. Qui la Biblioteca di Babele torna finalmente a essere invasa dai flutti del Maelstrom e, attraverso un velo equoreo, intravediamo la dimora del Sovrano spodestato, Kronos- Saturno, che un tempo stabilì le misure del mondo e del destino.
Frutto di un lungo lavoro in comune con Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto apparve negli Stati Uniti nel 1969 e da Adelphi nel 1983. Questa nuova edizione ampliata tiene conto della revisione che Hertha von Dechend, dopo la morte di Santillana (1974), condusse in funzione dell’edizione tedesca del 1993.
Negli anni in cui elaborava la sua opera capitale, Il mulino di Amleto, Giorgio de Santillana pubblicò alcuni saggi che miravano a introdurci a quella nuova visione, così sconcertante, di tutto il mondo arcaico. E innanzitutto si soffermò sull’idea posta all’origine di ogni altra nella imponente concezione del cosmo che ci appare già formata al nascere della scrittura: l’idea di fato.
Questa necessità scandita nel tempo, che tocca tutte le figure «sul “teatro del mondo ammascherate”, come direbbe Campanella», ed è segnata dal moto degli astri, si lascia riconoscere nei più svariati documenti: «nel paesaggio coltivato, nelle immagini, nel mito, nella tradizione molte volte dispersa e frammentata ma in cui si ravvisano, come i pezzi di un puzzle, ingegnose costruzioni narrative che si erano venute diffondendo e che, ricomposte almeno in parte, si rivelano essere il primo linguaggio scientifico». Ma la perfetta «incastellatura di corrispondenze», per cui numeri e immagini si dispongono nei punti nodali di un cosmo dove «tutto è come deve essere, se è», lascia intravedere un dramma iniziale, «un grande conflitto dei primi tempi, in cui venne dissestata la fabbrica dell’universo». Capire il mito o la scienza arcaica, avvinti – come de Santillana ci ha dimostrato – l’uno all’altra, è un riscoprire le tracce sia di quell’ordine sia di quel dissesto. Dai Caldei a Parmenide, cui qui è dedicato un celebre saggio, è stato questo il fuoco centrale del pensiero. Nei saggi qui raccolti torniamo a percepirne la luce.
“CINQUE volte nel corso di otto anni avviene che la stella Venere si levi al momento che precede il levar del sole (momento solenne in molte civiltà). Ora, i cinque punti così marcati sull’arco delle costellazioni, e congiunti secondo l’ordine del loro succedersi, si rivelano formare un pentagramma perfetto (cioè il disegno d’una stella a cinque punte). Questo sembra proprio un dono degli dei agli uomini, un modo di rivelarsi. Onde i Pitagorici dicevano: Afrodite si è rivelata nel segno del Cinque. E il segno è diventato magico. Ma quale intensità di attenzione e di memoria non ci volle per fermare in mente nelle loro posizioni i cinque lampeggiamenti in otto anni del pianeta che appare per poi perdersi subito nella luce del mattino – per ricostruire con l’intelletto il diagramma che essi suggerivano”. Da questa straordinaria precisione degli antichi nell’osservare la volta del cielo, parte Giorgio de Santillana in un libro piccolo di mole quanto denso e affascinante di contenuto: Fato antico e fato moderno (Adelphi). Va detto subito cosa Santillana intende per “antichi” e per “precisione”. Gli “antichi” sono coloro che nel V millennio a.C. tra Caldea, Egitto e India elaborarono “i lineamenti colossali di una vera astronomia arcaica, quella che fissò il corso dei pianeti, che dette il nome alle costellazioni dello zodiaco, che creò l’universo astronomico – e con esso il cosmo – quale lo troviamo già pronto quando comincia la scrittura, verso il 4000 a.C.”. Le testimonianze di questa sapienza nel calcolo del tempo astrale sono nelle proporzioni degli zigguratt della Mesopotamia (la Torre di Babele del calunniato Memrod era uno di questi complicati modelli dell’ordine del cosmo), così come nella disposizione dei megaliti di Stonehenge. Quando comincia la scrittura e con essa ciò che noi intendiamo per Storia, sembra che quella identificazione della mente umana coi movimenti celesti cominci a venir meno; Platone è ancora “l’ultimo degli arcaici e il primo dei moderni”; con Aristotele la sapienza cosmica è già dissolta. Quanto alla precisione, è “una passione di misura, che fa tutto centrato sul numero e sui tempi… In alto vi saranno i numeri puri, poi le orbite del cielo, più giù le misure terrestri, i dati geodetici, poi l’astromedicina, le scale e gli intervalli musicali, poi le unità di misura, capacità e peso, poi la geometria, i quadrati magici…”.
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I miti di oggi, progresso, profitto, diritti, egoismo e i miti di ieri fato, forze, scienza, cosmo, unità raccontano il viaggio umano. Infinito contro noccioline.
Una parabola discendente che crediamo invece ricca e sfavillante.
Abbiamo perduto l’essere e il contatto con le forze primordiali. Queste sono state sostituite con convenzioni autoreferenziali che abbiamo preso per verità. Nelle prime c’era il tempo dei cicli naturali, nelle secondo quello dell’amministrazione.
Lo abbiamo fatto inconsapevolmente, accecati dall’idea che l’uomo potesse e dovesse dominare la natura.
La parabola ha esaurito la lenta fase curva e appare a molti ormai una linea verticale che precipita.
Ma è l’uomo ha creato quanto aveva prima e il mondo di adesso.
Come potrà rallentare la picchiata e invertire la rotta per tornare all’essere del mondo se non avviandosi a recuperare, come De Santillana ci indica, tutto ciò che l’inquisizione della modernità ha mandato al rogo dell’irrazionale?