GognaBlog si è già occupato del Jova Beach Party con svariati post:
https://gognablog.sherpa-gate.com/la-montagna-come-palcoscenico/ 15 aprile 2019
https://gognablog.sherpa-gate.com/siamo-noi-a-promuovere-jovanotti-e-plan-de-corones/ 16 giugno 2019
https://gognablog.sherpa-gate.com/voglio-il-tuo-sudore/ 21 agosto 2019
https://gognablog.sherpa-gate.com/gli-ambientalisti-sono-piu-inquinati-delle-fogne-di-new-delhi/ 15 settembre 2019
Riflessioni a partire dal Jova Beach Party
di Alpinismo Molotov
(pubblicato su alpinismomolotov.org il 17 settembre 2019)
Nel corso di quest’estate 2019, riempiendo di commenti l’infosfera, ha tenuto banco la querelle sul Jova Beach Party e le critiche mosse a questo mega-show spiaggiato su alcuni tratti di litorale italiano. A seguito della presa di posizione critica di Reinhold Messner rispetto alla location di Plan de Corones – Kronplatz per una data di questa tournée – l’unica data non organizzata occupando lo spazio di un arenile – avevamo dato conto di una discussione nel retrobottega di Alpinismo Molotov, pubblicata in un post dal titolo Sul binomio musica e montagna: tracce di una discussione sugli eventi in quota. Si trattava, con quel post, di riprendere e cercare di mettere a fuoco alcune questioni che riteniamo centrali nel modello di fruizione/sfruttamento delle montagne, cosa che lo scambio polemico Messner-Jovanotti ci offriva l’occasione di fare:
«Tra i punti emersi dalla nostra conversazione, il fatto che ciò che accomuna tutti questi grandi eventi in quota, o comunque nella cornice di un ambiente naturale di pregio, è l’essere per l’appunto, nella cornice. A nessuno importa che il medesimo spettacolo sia fruibile senza differenza alcuna in qualsiasi altro luogo, nel fondovalle o in città, le montagne sono un piacevole sfondo, un tocco di colore, tutt’al più la scusa per una simpatica gita fuori porta».
Il
concerto a Plan de Corones – Kronplatz si è svolto, noi abbiamo seguito il
flusso di notizie a riguardo, comprese quelle che lasciavano intendere una
riappacificazione tra Messner e Jovanotti con un ripensamento del primo (e
invece no, sull’inopportunità di organizzare un grande evento come lo è una
data del Jova Beach Party Messner non ha cambiato idea). Nel contempo si susseguivano
segnalazioni e denunce sulle criticità ambientali e sui danni che un mega-show
come questo avrebbe inferto agli ecosistemi delle varie location scelte dal duo
Jovanotti – Trident (l’agenzia che ha prodotto e organizzato la tournée).
Questo nonostante l’ombrello rassicurante della partecipazione all’operazione
del WWF Italia, coinvolgimento sbandierato a ogni occasioni da Jovanotti.
Ci siamo quindi resi conto, a un certo momento, che questa vicenda meritava di
essere analizzata anche se ci portava lontano dalle montagne, siccome contiene
una gran quantità di elementi ricorrenti, una miscela tossica e foriera di
gravi danni. Ne è nato un testo a firma collettiva che viene oggi pubblicato su
Giap con il titolo A chi giova il Jova Beach, party trasversale del nuovo
greenwashing.
Tra pochi giorni (19 settembre 2019, NdR) questo “grande evento” si concluderà a Linate, sulle piste d’atterraggio dell’aeroporto appena riasfaltate. Sarà una festa di bitume e catrame. La nocività della miscela tossica messa a punto durante le precedenti date del mega-show non sarà per questo meno dannosa, così come non decadrà in futuro la sua tossicità: non si tratterrà magari di Jovanotti, ma la funzione sistemica che questo personaggio ha rappresentato potrà essere riattivata nuovamente, in nome del capitalismo impegnato oggi nel tentativo di fare della crisi climatica uno strumento di potere che alimenterà diseguaglianze e ingiustizie.
Nuovo greenwashing e Grandi Eventi nell’era della crisi climatica
di Alpinismo Molotov
(pubblicato su wumingfoundation.com/giap il 17 settembre 2019)
Introduzione. Il sacchetto dell’umido
«Questa storia è come il sacchetto dell’umido che hai lasciato pieno per dieci giorni: come lo muovi, colano liquami».
Così si è commentato, nella nostra mailing list, il Grande Sbrocco nel quale Jovanotti accusava genericamente il mondo dell’ambientalismo di essere «più inquinato dello scarico della fogna di Nuova Delhi».
Chiariamo subito le ragioni che hanno spinto Alpinismo Molotov, un collettivo che si occupa di montagna, a scrivere di una pop star che organizza concerti sulle spiagge.
Il Jova Beach Party non è solo una tournée: è parte di un frame devastante che viene riproposto da anni, rappresenta in modo plastico il capitale nella sua forma più perniciosa e camaleontica, e non ha toccato solo le spiagge ma è arrivato ben più in alto, esacerbando questioni di cui ci siamo sempre occupati.
Veniamo a sapere del grande evento itinerante che si chiamerà Jova Beach Party ai primi di aprile, quando Reinhold Messner prende posizione contro l’annunciata data del concerto a Plan de Corones – Kronplatz, quota 2275 m. Un giudizio, quello di Messner, che trova subito spazio nei media: «Non posso vietarlo, ma lo farei se potessi… Abbiamo ricevuto in dono le montagne e dobbiamo imparare a rispettarle per ciò che rappresentano: una riserva d’acqua e di quiete, un luogo libero dove dedicare tempo alla cura dello spirito».
Si tratta dell’unica data in cui il mega-show si terrà non su qualche litorale, ma in vetta a una montagna… che per Jovanotti diventa subito «la spiaggia più alta d’Italia».
Di fronte a tali motivazioni Alpinismo Molotov si trova a disagio. In estrema sintesi, per un’impronta di essenzialismo nella rappresentazione della natura e della montagna, essenzialismo che riteniamo tossico. Tuttavia, è chiaro che un evento di tale portata – per le strutture da montare e smontare in quota e per il numero degli spettatori previsti – avrà un impatto sull’ecosistema che, obtorto collo, lo ospiterà. Non si tratta di valutarlo con un confronto tra il prima e il dopo, è il durante che produrrà effetti deleteri, in parte riscontrabili e in parte no, ma non per questo non presenti.
Il concerto si terrà, anticipato e snellito per via di pessime condizioni meteorologiche, che in quota espongono a rischi maggiori rispetto ad altri luoghi. In occasione dell’evento, a leggere i giornali e a giudicare dai profili social di Jovanotti, quest’ultimo e Messner sembrano essersi riappacificati: una stretta di mano, facce sorridenti…
Le cose stanno diversamente, a giudicare dalle dichiarazioni rese da Messner in questa intervista (24 agosto, quindi dopo il concerto): «ribadisco che non ha senso organizzare un simile evento lassù».
L’anestetizzazione mediatica delle critiche è, come vedremo, uno degli aspetti ricorrenti di questa vicenda. Nel caso di Messner, l’anestetizzazione può essere utilmente inquadrata in una questione più generale che riguarda ogni battaglia. Come ha scritto Loredana Lipperini in un recente post sul suo blog, «Nessuna battaglia si conduce da personaggi: non una duratura, almeno. Nonostante le vittorie accumulate, si finisce col perdere la partita, nel momento in cui altri personaggi che funzionano meglio, e non importa quale sia il pensiero di cui sono portatori, si fanno avanti».
Quando nei primi mesi del 2019 viene annunciato il Jova Beach Party, nonostante le scarse informazioni iniziali, ci sono fin da subito forti perplessità in merito alle location e all’organizzazione del grande evento, che a tutti gli effetti si presenta come grande opera. I costi, l’impatto sull’ambiente, la logistica, il messaggio veicolato, il ricorso a un certo ambientalismo usa-e-getta… Problematiche che con il crescere delle informazioni e con l’inizio del tour emergono in tutta la loro drammatica realtà.
Di fronte alle molte critiche, il Preso Bene la prende male.
Prima dichiara: «Non siamo hooligan che dove vanno distruggono tutto. Noi siamo diversi, dove andiamo costruiamo, rispettiamo l’ambiente, i luoghi e le persone. Lasciamo i luoghi più puliti di come li troviamo».
Dopo la cancellazione del concerto di Vasto su indicazione della Prefettura di Chieti, ricorrendo a una formula subdolamente negazionista e abusatissima negli attacchi ai movimenti che si battono contro le grandi opere inutili e devastanti, dichiara: «A Vasto ha vinto il fronte del NO, quello di cui l’Italia è pervasa».
Col proseguire delle polemiche, la prende malissimo e spara l’ormai celebre comunicato, quello delle fogne di Nuova Delhi, in cui aggiunge che:
«il Jova Beach Party ha portato gioia, messaggi seri sui comportamenti adottabili da subito per ridurre il proprio impatto ambientale, amore, cultura, economia, goduria, coraggio, spirito avventuroso e originalità […] senza puntare il dito e senza darsi delle arie».
Ecco, noi invece puntiamo il dito. Ora riavvolgiamo il nastro e seguiamo la traccia del Jova Beach Party.
1. La funzione Jovanotti
La querelle che ha accompagnato il Jova Beach Party è interessante perché vi si trova condensata una congerie di narrazioni tossiche che se analizzate e demistificate saranno, almeno parzialmente, depotenziate in futuro.
L’evento Jova Beach Party – «più di uno stadio, più di un palasport, più di un festival, molto più di un concerto», com’è presentato sul sito dell’agenzia Trident che lo produce e lo organizza – è la quintessenza del “presabenismo” à la Jovanotti. Ci riferiamo a quella banalizzazione della psicologia positiva che trova un corrispettivo nella versione popolarizzata e divulgativa tipica dei manuali di self-help che siamo soliti trovare sugli scaffali degli autogrill e che risponde all’imperativo della società contemporanea «se vuoi puoi». Una narrazione dove le classi scompaiono, che non contempla il ruolo dei privilegi, ma che trova ampia ricezione in tutti gli strati sociali e quindi viene recepita agevolmente nel discorso pubblico, senza che nessuno la trovi contraddittoria, persino quando la propinano pop-star milionarie.
Siamo convinti che solo Jovanotti potesse svolgere, in Italia, una funzione da apripista per mega-show che si svolgono in ambienti naturali dove, benché duramente stressati dall’azione antropica, resistono delicati ecosistemi.
Il punto della questione non è Jovanotti in sé, ma la funzione che Jovanotti svolge.
Di tutta l’operazione Jova Beach Party, a risultare più tossico è il fatto che Jovanotti non si accontenti di un mega-show allestito a scopi commerciali, di soddisfare in questo modo la propria ambizione e volontà di potenza, di mostrare al mondo – a chi può permettersi il costo del biglietto d’ingresso, ma poi c’è la copertura assicurata dai media – «una città temporanea, un villaggio sulla spiaggia, un nuovo format di concerto, un happening per il nuovo tempo» (sempre dalla presentazione offerta da Trident)… No, Jovanotti vuole anche dare a tutto ciò una veste pedagogica, imporre il mega-show come momento “alto” di aggregazione e divertimento per i messaggi che presuntuosamente veicola: «la tutela del mare e il contrasto all’abbandono dei rifiuti in materiali plastici», come sintetizza Donatella Bianchi, presidente di WWF Italia, in questa intervista.
Questo “di più” non stona, anzi, risuona perfettamente con l’immagine pubblica che Jovanotti si è costruito nella sua trentennale carriera: il Jova Beach Party è interamente a sua immagine e somiglianza. Dunque, dall’immagine e dal personaggio Jovanotti è necessario partire.
Nel 2000 su Rai Due andava in onda Convenscion, dove un poco più che trentenne Neri Marcorè imitava un Jovanotti predicatore, ingenuo, sprovveduto e piuttosto suonato, che tra una telefonata a Clinton e un’altra all’ONU tentava di «sconfiggere l’odio nel mondo».
Già allora l’immagine di Jovanotti corrispondeva alla sottotipologia «popstar impegnata e sensibile ai temi urgenti della contemporaneità».
Nel corso degli anni, ha lavorato ulteriormente sul proprio personaggio, sfoggiando un ecumenismo sempre più disinvolto, fino a fare il «preso bene» persino nei confronti di Salvini.
Nell’agosto 2018, proprio Neri Marcorè invitava a Risorgi Marche lo stesso Jovanotti. L’evento – di cui parlammo nei giorni immediatamente successivi – portò all’interno della Riserva Naturale del Monte San Vicino e del Monte Canfaito circa 70.000 persone, scatenando polemiche e discussioni sul senso stesso della manifestazione.
(Vedi anche:
https://gognablog.sherpa-gate.com/risorgimarche/ 7 settembre 2018
https://gognablog.sherpa-gate.com/le-guide-alpine-a-risorgimarche/ 28 settembre 2018, NdR).
Per le modalità e la carica emotiva che ha sfruttato, Risorgi Marche ha rappresentato un salto di qualità. Forse non avremo mai elementi concreti per dirlo, ma pensiamo che senza quell’evento zero a Jovanotti e al suo entourage non sarebbe mai venuto in mente di spiaggiarsi nell’estate 2019.
Jovanotti lo ricordiamo a Genova nel 2001, durante le giornate del G8, in compagnia di Bono Vox e Bob Geldof. Stavano dentro la «zona rossa», a incontrare – stando a quanto raccontarono i giornali – «tutti i leader mondiali» in qualità di testimonial della campagna Cancella il debito.
«Lo ricordiamo» per modo di dire, perché in quei giorni noi eravamo fuori della zona rossa e avevamo altro a cui prestare attenzione.
Oggi rintracciamo in rete una dichiarazione attribuita ai tre, riferita alle contestazioni in corso: «La rabbia va bene, la violenza no: picchiate i pugni sul tavolo e non in faccia agli altri». È del 20 luglio, giorno della morte di Carlo Giuliani, corollario perfetto alla mission che vedeva protagonista la delegazione di rockstar in quei giorni: chiedere a chi rappresenta gli interessi degli sfruttatori di essere magnanimo, di impoverire un po’ meno la gran parte delle persone che abitano il pianeta, per favore, se potete, grazie in anticipo.
E i «pugni sul tavolo»? Non pervenuti.
Per contenuti e modalità di trasmissione del messaggio, non siamo molto lontani dal Jova Beach Party.
Nel 1985 Bob Geldof mise in scena il Live Aid e insegnò al mondo del music biz un modo per rifulgere sollecitando carità e vendendo lavaggi di coscienza a buon mercato. Il tutto si riassumeva in questa scena: popstar miliardarie si atteggiano a «buone» chiedendoti di aiutare i poveri con le tue mille lire.
L’anno dopo, i Chumbawamba sbeffeggiarono il giochino con un album significativamente intitolato Pictures of Starving Children Sell Records.
[La ciliegina è atterrata sulla torta pochi mesi fa, grazie ai cosiddetti Mauritius Leaks, nei quali pare di vedere tutt’altro “attivismo” da parte di Geldof, che risulterebbe alquanto engagé nell’elusione fiscale internazionale].
Ma è soprattutto Bono Vox il campione dello «spettacolo della filantropia», più precisamente del «filantrocapitalismo» come lo chiama Harry Browne nel suo importante saggio The frontman. Bono (Nel nome del potere).
All’uscita del libro in Italia, nel 2014, Browne venne intervistato da Alberto Prunetti e Wu Ming 1, ed è utile recuperare e proporre qui la sua risposta alla domanda: «Cos’è che spinge questi ricchi bast… ehm, individui? La loro filantropia serve solo a lavarsi la coscienza? Oppure, difendendo questa o quella causa, diventano ancora più ricchi? Pensi che il capitalismo abbia un bisogno sistemico di filantropia?».
«È un’ottima e difficile domanda, alla quale sarei tentato di rispondere, semplicemente, “Sì”. Ma cercherò di dire qualcosa di più! […] Questo progetto ideologico, naturalmente, va oltre l’auto-giustificazione dei ricchi bast… ehm, individui. È un discorso egemonico, un insistere sul fatto che non c’è alternativa a questo mondo che è non-proprio-il-migliore-ma-è-in-rapido-miglioramento dei mondi possibili. Bono, quando proprio vuole sembrare radicale, al massimo dice qualcosa tipo: “A volte mi piacerebbe che ci fosse un’alternativa al capitalismo”. Il che equivale a negare ogni possibilità di vero cambiamento. E anche in quel caso, tornerà subito al suo argomento centrale: che non c’è motivo di attaccare, o anche solo ridimensionare, il potere dei ricchi autocrati, perché saranno proprio loro a salvare i poveri».
Quello qui descritto da Browne è, per citare Mark Fisher, puro realismo capitalista, cioè quella condizione contemporanea in cui il capitalismo ha saturato «l’orizzonte del pensabile»; è ancora, in altre parole, una variazione del refrain thatcheriano TINA, There Is No Alternative. Al capitalismo – sistema di produzione predatorio fondato sull’ingiustizia sociale ed ecologica – non esisterebbe alternativa.
Torniamo a Jovanotti e all’ambientalismo interessato di cui è portatore, in partnership con i numerosi sponsor sempre in cerca di nuove strategie di greenwashing. Qui il messaggio è: there is no alternative, ma almeno lasciamo pulito, raccogliamo i rifiuti in plastica e alcuni li trasformiamo in memorabilia del Jova Beach Party stesso.
L’attivismo di Jovanotti – eminentemente politico nei suoi effetti, per gli interessi che rappresenta e per l’insistenza con cui viene presentato come filantropico e «apolitico» – agisce nel contesto di un’oramai ineludibile crisi climatica. Crisi che il capitalismo, primo responsabile della condizione attuale, cerca di mettere a valore, anche attraverso la «responsabilizzazione del consumatore», spingendo verso stili di consumo presentati come meno impattanti – ma non meno redditizi.
Jovanotti, in sintesi, è funzionale al modello sviluppista e ai tentativi di rigenerazione in chiave green e climate friendly di questo modello, mentre all’orizzonte si profila un’apocalisse ecologica che comporterà, dal punto di vista sociale, enormi sconvolgimenti e conflitti.
L’attivismo di Jovanotti funziona anche come parafulmine alle critiche che gli vengono mosse: data la grande visibilità di cui gode, e la compiacenza e la condiscendenza che lo avviluppano, è gioco facile per lui – e per il suo ufficio stampa – neutralizzare le critiche presentandole come reazioni rancorose nei suoi confronti, mosse da «invidia» per il suo successo.
[E forse ne sono davvero convinti: per gli apologeti dell’esistente e della forma di vita neoliberale, è inconcepibile che a qualcuno possa non fotter niente di «invidiare» il «successo» di uno come Jovanotti].
Questa, in sintesi, la «funzione Jovanotti». Ma se vogliamo comprendere appieno le narrazioni tossiche di cui è portatore il Jova Beach Party, è sul dispositivo combinato «Jova™ + WWF» che dobbiamo focalizzare l’attenzione.
(continua)
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Ma, Covella, non capisco il tuo costante disappunto sugli eventi pure in spiaggia. Su spiagge che comunque sono superaffollate vari mesi l’anno da folle simili a quelle dei concerti, per numeri e non saprei se per ideali.
Per Bertoncelli, e senza consultare nessun dizionario, a naso nel termine greenwhasing ci leggo anche il lavaggio di soldi che il mondo green maneggia nel so lato oscuro… insomma: una parolaccia in ogni senso le si voglia dare.
Aridaje… mo’ me leggo la seconda parte ma, vi prego, in tutto ciò lasciamo da parte il Plan de Corones perché se ne è già parlato abbastanza in precedenza. Sennò siamo sempre lì. Chissà..
Interessante ricostruzione della vicenda nei diversi dettagli. Occorre evitare con ogni mezzo che si effettuino eventi del genere, tanto in montagna quanto sulle spiagge.
Traduzione per quegli italiani che ‒ poveretti loro ‒ in Italia si ostinano a parlare in lingua italiana:
Greenwashing, letteralmente una verniciatura di verde (sul modello di whitewashing = imbiancare), dunque un’ipocrisia verde, ambientale o ecologica; in italiano si può rendere con finto verde, pseudo-ecologismo o pseudo-ambientalismo, bugie verdi, ecologismo o ambientalismo di facciata, contraffazioni ambientali o ecologiche. L’anglicismo indica quelle operazioni pubblicitarie o di propaganda che spacciano prodotti come verdi ed ecologici anche se non hanno alcun beneficio ambientale, es. “A CinemAmbiente, le bugie verdi smascherate da Werner Boote (…) un viaggio negli inganni del greenwashing” (La Stampa, 4/6/2018); “Greenwashing: come pitturarsi di verde e restare uguali” (Il Fatto Quotidiano, 7/1/2014). L’anglicismo indica quelle operazioni pubblicitarie o di propaganda che spacciano prodotti come verdi ed ecologici anche se non hanno alcun beneficio ambientale, es. “A CinemAmbiente, le bugie verdi smascherate da Werner Boote (…) un viaggio negli inganni del greenwashing” (La Stampa, 4/6/2018); “Greenwashing: come pitturarsi di verde e restare uguali” (Il Fatto Quotidiano, 7/1/2014).
Dal Dizionario delle alternative agli anglicismi (https://aaa.italofonia.info)
Speriamo che quest’accozzaglia di notizie utili solo a loro stesse, abbia uno sviluppo compiuto nella parte rimanente. Fin qui sembra un cane che vuole mordersi la coda, senza riuscirci. Mammamia!