Il Nuovo Mattino

Il Nuovo Mattino (GPM 036)
(analisi dell’alpinismo californiano)
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 16, aprile 1974)
Le foto di questo articolo sono tratte dalle seguenti pubblicazioni: Mountain, settembre 1973 e gennaio 1974; Ascent, maggio 1969, maggio 1970 e giugno 1972; La Montagne, giugno 1966 e ottobre 1970; Annales GHM 1963.

Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(3), disimpegno-entertainment(3)

“… non vorrei essere Bach, Mozart, Tolstoj, Joe Hill, Gertrude Stein o James Dean; sono tutti morti. I grandi libri sono stati scritti. I grandi detti sono stati pronunciati. Voglio solo mostrarvi un’immagine di quello che succede qui qualche volta, anche se io stesso non capisco bene cosa stia succedendo… (Bob Dylan)”.

Risalita della corda fissa con le maniglie jumar. Per facilitare i movimenti dell’arrampicata il sacco viene appeso alla cintura. Foto: E. Cooper.

I pochi alpinisti europei che hanno arrampicato sulle pareti granitiche della Yosemite Valley in California, ne sono tornati con una sensazione di infinito rispetto. L’alpinista austriaco Peter Habeler, dopo aver compiuto la ripetizione della via Salathé su El Capitan, disse di aver incontrato difficoltà in arrampicata libera e artificiale superiori a tutte quelle da lui superate sulle più famose vie di sesto grado delle Alpi. Ora alcuni giovani francesi, soprattutto parigini e marsigliesi, usciti quindi dalle due significative palestre di Fontainebleau e delle Calanques, hanno effettuato numerose ripetizioni di celebri e difficili vie in Yosemite. Spicca tra queste imprese la salita solitaria compiuta da Patrick Cordier della via del Nose su El Capitan, forse la più grande arrampicata solitaria compiuta da un europeo su una parete di roccia pura.

Non molti in Europa hanno l’occasione di leggere la rivista Ascent, pubblicata dallo Sierra Club di San Francisco. È un peccato, perché la rivista penso sia unica nel suo genere, decisamente diversa – sia per il contenuto che per l’impostazione grafica e fotografica – da quelle europee. Recentemente i lettori italiani hanno avuto un saggio di questa diversità dalla pubblicazione sulle pagine della Rivista mensile del CAI (luglio 1973) dell’articolo Lo scalatore come visionario di Doug Robinson (vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/lo-scalatore-come-visionario/). È un articolo di sicuro e indiscusso valore, che farà parlare parecchio. Sono sicuro che molti penseranno che l’alpinismo come è concepito in California sia ancora piuttosto lontano dalle polverose sedi dei nostri club alpini (non si fraintenda: il discorso droga non c’entra per niente).

Volendo inquadrare l’alpinismo californiano, il cui potere attrattivo sulle nuove generazioni io ritengo molto più forte di quel che si creda, si può fare un discorso tecnico e uno etico. Dal punto di vista tecnico ritengo che la diversità dipenda soprattutto dall’uso sistematico di materiali adatti a un particolare tipo di roccia e dallo sviluppo approfondito di un sistema d’arrampicata interno, diverso da quello europeo. Se gli alpinisti europei apprendessero questa tecnica e ne divenissero padroni, non sarebbero per nulla inferiori a quelli americani: l’esempio dei francesi e degli inglesi fa testo.

Attrezzatura per un’arrampicata californiana: 1 – bongs; 2  angle pitons; 3 – rurps; 4 – maniglia jumar; 5 – cliff hanger; 6 – nuts. Foto: CDA.

La roccia di Yosemite è il granito, molto compatto e a grana ruvida, caratterizzato da immense placche verticali, solcate da fessure aventi una larghezza variante dal camino risalibile internamente, alla fessurina più sottile dove a stento entrano i chiodi a lama di rasoio. A volte l’arrampicata artificiale si serve di lastre gigantesche semistaccate dalla parete: si richiedono in questi casi un’esperienza notevole e una perizia tecnica collaudata, per non sollevare pericolosamente la lastra con una chiodatura poco avveduta.

Naturalmente una simile struttura rocciosa richiede l’impiego dell’arrampicata artificiale su vastissima scala e necessita di una gamma di chiodi che spazia dai cortissimi e sottili, ai cunei larghi più di 15 centimetri a seconda della fessurazione. L’altezza delle pareti è considerevole, variante dai 500 ai 1000 metri; la progressione lungo le fessure non è sempre marcata e costante: a volte le fessure scompaiono e allora è necessario raggiungere una nuova possibilità di salita mediante lunghi pendoli che in qualche caso possono anche precludere la ritirata.

A sinistra, un tipico esempio di arrampicata con tecnica ad incastro in fessura stretta e senza prese. Foto: J. Stuart. A destra, arrampicata libera di estrema difficoltà in fessura-diedro con impiego dell’incastro coordinato delle mani e dei piedi. Foto: R. Carrington

Gli arrampicatori californiani si sono creati una regola molto severa: la scalata libera è tirata al limite di caduta prima di ricorrere all’uso dei chiodi (protection piton) e, prima di forare la roccia per introdurvi un chiodo a espansione in scalata artificiale, si deve ricorrere a tutti quegli artifici tecnici (alcuni sconosciuti in Europa) che permettono di salire senza bucare la roccia. Le vie devono essere lasciate interamente schiodate (salvo i chiodi a espansione, ma non sempre) in modo che i ripetitori incontrino le medesime difficoltà dei primi salitori e possano comportarsi davanti a esse a seconda della loro bravura. Non di rado alcune vie aperte con prevalenza di arrampicata artificiale furono poi, a forza di tentativi, vinte in arrampicata libera.

È chiaro che un tale sistema richiede un lavoro di chiodatura e schiodatura estenuante, ma soprattutto richiede dei chiodi fabbricati in materiale tale da permetterne un uso molto prolungato senza che avvengano rotture o deformazioni. Gli americani hanno risolto la questione costruendo chiodi in acciaio al cromo-molibdeno, materiale duro e resistentissimo, adatto alla fessurazione rettilinea del granito, che non richiede torsione o flessione del chiodo. La forma e le dimensioni dei chiodi sono poco differenti da quelle tradizionali europee: caratteristici gli angle pitons (diffusi ora anche in Italia), chiodi a profilo “V” che assicurano una tenuta eccezionale nelle fessure di media larghezza. Ancor più interessante l’uso dei knifeblades, chiodi a lama di coltello che penetrano anche nelle fessure più sottili, e i rurps, minuscole lamette di rasoio che, grazie alla loro lama durissima e affilata, si aprono una strada anche nelle rughe superficiali del granito.

Per fessure di più larga dimensione, fu creata una serie di cunei metallici in lega leggera, detti bongs, i quali rispetto ai cunei di legno hanno l’enorme vantaggio di essere indistruttibili, quindi recuperabili e molto più leggeri. Di numerose dimensioni, possono avere una larghezza massima di 18 centimetri. Ma la nota più interessante riguardante i materiali tecnici è data dall’uso dei blocchetti metallici (nuts) o in nylon (peck) da incastrare ad arte nelle fessure, realizzando un notevole risparmio di tempo e fatica rispetto all’infissione di un chiodo. In linea di massima possiamo distinguere tre tipi di blocchetti: uno a profilo esagonale, con una variazione per gli excentrics che sono vuoti internamente e raggiungono grandi dimensioni; un altro a profilo trapezoidale, un terzo a profilo cilindrico. Il collegamento migliore del blocchetto con il moschettone è rappresentato da un cavetto metallico, che consente l’inserimento al fondo dei diedri e delle fessure svasate, mentre con un laccio di cordino questo non sempre è possibile. Nei casi estremi si usano i copperheads, cilindretti di bronzo (a noi risulta di rame, NdR) con un cavetto saldato internamente: dove la roccia presenta delle svasature o delle incavature superficiali che non si prestano a essere chiodate e nemmeno all’uso dei nuts, si martella il copperhead schiacciandolo contro la roccia e ottenendo un ancoraggio alquanto precario. Un altro artifizio ancora più agghiacciante consiste nel martellare schiacciandoli sulla roccia una serie di cavi raggruppati di lega leggera: l’adesione del metallo schiacciato sulle rugosità del granito permette un ancoraggio che può resistere un paio di minuti al peso del corpo, il tempo necessario per raggiungere una fessura e chiodarla.

Jim Bridwell

Se i blocchetti normali consentono un uso sicuro anche per l’assicurazione, ben si comprende che i rurps, gli knifeblades e i copperheads sono artifizi di esclusiva progressione. In qualche occasione si ricorre all’uso del cliff hanger, un uncino di durissimo e affilato acciaio da artigliare alle schegge più minute e alle minime tacche della roccia. L’arrampicata libera si svolge generalmente in fessura e rende indispensabile una perfetta conoscenza di tutte le tecniche di incastro e opposizione. È questo forse il lato che ha colpito di più gli alpinisti italiani, ossia la capacità degli americani (e degli inglesi) di superare in libera arrampicata fessure strette, lisce e verticali, incastrando dovutamente le pedule e i pugni. È questo un modo d’arrampicare che ha due presupposti fondamentali: una muscolatura da atleta derivata da un allenamento costante e specifico e l’uso di pedule leggerissime e flessibili, con suola in gomma liscia (tipo Pierre Allain, Galibier), con le quali è possibile incastrare e torcere la punta del piede anche nelle fessure più strette e profonde. Diretta conseguenza è l’impiego di staffe formate da asole di larga fettuccia (sangle): il gradino metallico è troppo scivoloso per la pedula a suola liscia e inoltre è anche doloroso. L’asola permette anche di inserire senza dolore una gamba per una sosta prolungata su staffe.

Fred Beckey

Il tradizionale seggiolino di legno, tanto usato in Dolomiti, è qui sostituito da un seggiolino… di stoffa o di nylon, bordato da una larga fettuccia: è più leggero, meno ingombrante e più comodo. La progressione si svolge in modo differente da quello alpino: il primo di cordata sale un tratto di parete, utilizzando generalmente corde lunghe 50 metri, dato che i punti di fermata su queste conformazioni rocciose sono molto rari e frequenti le soste su staffe. Una sola corda, di diametro grosso (11 o 12 millimetri) per maggior sicurezza, viene fatta passare nei moschettoni, mentre la seconda resta libera. Quando il primo ha raggiunto il punto di fermata, fissa la corda di assicurazione e progressione in modo assolutamente sicuro e il secondo sale su questa corda fissa utilizzando le maniglie jumar: ha così la possibilità di schiodare interamente la lunghezza di corda restando sospeso in sicurezza senza l’intervento del capocordata. Servendosi della corda rimasta libera, il capocordata recupera il sacco del materiale facendo uso di una tecnica particolare che abbina la forza delle gambe all’impiego delle maniglie jumar (l’impugnatura jumar è un autobloccante meccanico che permette di risalire lungo corde fissate dall’alto con un enorme risparmio di tempo e fatica rispetto all’impiego dei nodi Prusik).

La formidabile parete di El Capitan nella Yosemite Valley (California). A destra, contro il cielo, si profila lo spigolo del Nose; a sinistra, tra sole e ombra, gli immensi diedri della via Salathé. Foto: Ken Wilson.

A volte il secondo porta anch’esso un sacco, ma non in spalla come si potrebbe credere. Il sacco, mediante un’asola di fettuccia, viene appeso alla cintura d’arrampicata e viene lasciato penzolare a circa un metro dai piedi dell’arrampicatore. Dato il genere d’arrampicata, quasi sempre su terreno verticale o strapiombante, questo sistema risulta estremamente pratico: il peso del sacco non grava sulle spalle, non sbilancia in quanto grava sull’esatto baricentro del corpo e lascia lo scalatore libero nei movimenti. È un sistema ormai universalmente adottato nelle grandi imprese invernali condotte con tecnica americana.

Non sempre la salita viene compiuta in un sol tratto, ma il più delle volte si lasciano corde fisse per facilitare la discesa e la successiva risalita senza dover richiodare e schiodare i tratti precedentemente percorsi. Le corde fisse vengono poi risalite utilizzando le maniglie jumar. I posti da bivacco sono rari o quasi assenti e bisogna supplire alla mancanza di terrazzini con l’impiego di amache da agganciare ai chiodi.

Recentemente una certa preoccupazione si è levata negli ambienti alpinistici californiani: il continuo lavoro di chiodatura e schiodatura attuato sulle vie più classiche e più celebri di Yosemite e l’uso costante dei chiodi al cromo-molibdeno, hanno deteriorato seriamente lo stato di chiodabilità delle fessure, in alcuni casi rendendo quasi impossibile la progressione dove questa originariamente era piuttosto semplice. E dunque una realtà che mette in discussione tutta la regola dell’alpinismo californiano: o lasciare chiodati quei tratti di parete andando contro le regole vigenti o correre il rischio di dover piantare chiodi a espansione dove questo prima non era assolutamente necessario.

La soluzione unanimemente proposta è quella di perfezionare al massimo la tecnica di incastro dei blocchetti, i nuts, come son definiti in America. Con l’uso sistematico dei blocchetti si dovrebbero evitare questi inconvenienti e si resterebbe nel rispetto dell’etica (si veda a questo proposito un interessante articolo di Tom Frost apparso sull’American Alpine Journal 1972 dal titolo Preserving the cracks!).

Alpinismo come fuga dalla realtà
Vediamo ora di andare un po’ più a fondo e di analizzare le cause e i riflessi etici e psicologici dell’alpinismo californiano. A questo proposito si è detto e si è scritto molto, a ragione e a torto: si è parlato di uso di droghe, di ricerca introspettiva, di filosofia orientale riveduta e corretta. Certo è che l’alpinista californiano rappresenta un modello assai lontano e diverso da quello che ci è stato fornito in Europa dalla nostra letteratura. Pur non esprimendo alcun giudizio, mi permetterò di esaminare una situazione con i suoi relativi effetti.

Warren Harding

È bene prima di tutto avere in mente il grado di alta civilizzazione, a volte persino esasperata, degli Stati Uniti d’America e soprattutto della California, dove le tensioni sociali, gli attriti e gli assurdi di una certa società si fanno sentire più che altrove. La reazione più giusta e più logica sarebbe quella di restare nell’ambito di questa società, di prendere un chiaro e preciso impegno politico per cercare di migliorare o modificare lo stato di cose. Invece in questo determinato ambiente è facile che insorgano fenomeni di fuga, di rifiuto e di opposizione. Non per nulla il fenomeno hippy è sorto e persiste con le sue più grandi comunità in California, non per nulla un certo genere di musica che spazia da una espressione di rifiuto e di rottura a un misticismo psichedelico e profetico, ha incontrato qui particolare favore. L’alpinismo in certe condizioni può essere un mezzo di fuga davanti all’angosciosa realtà esistenziale di un modo di vivere pressante e caotico. D’altronde è significativo come l’alpinismo californiano tragga grande ispirazione dalla filosofia e da alcune discipline orientali, soprattutto dallo zen e da certi risvolti dell’induismo, sebbene riveduti e corretti ad uso occidentale.

L’insolita tenuta del fortissimo scalatore californiano Jim Bridwell le cui doti atletiche gli permettono il superamento di passaggi di eccezionale difficoltà. Foto: K. Nannery.

Alla base vi è dunque una forte esigenza di vedere chiaro in se stessi, un’indagine fine e profonda del proprio io che accompagna l’azione propriamente detta. L’azione infine non sarebbe che un mezzo per il raggiungimento di una pace interiore e di una verità superiore o almeno presunta come tale. Su questi temi si è magistralmente espresso Doug Robinson nel sopracitato articolo Lo scalatore come visionario cui rimando i lettori desiderosi di approfondire l’interessante problema. Tuttavia, per non generare confusione, mi preme chiarificare esattamente il concetto di visione espresso da Robinson. Il termine visionario non ha nulla a che vedere con il misticismo e non va assolutamente frainteso con l’interpretazione corrente e comune della parola, che richiama apparizioni e visioni di genere extrasensoriale, molto care a tutta la mistica cristiana e forse spiegabili in sede parapsicologica. Robinson per visione intende il potere maggiorato e acquisito di vedere le cose nella loro integrità e di scoprirle nella loro intima essenza. Ossia, e qui calza il paragone con le discipline orientali, la concentrazione su un oggetto permette non solo di penetrare nell’interno del medesimo, non arrestandosi al suo aspetto esteriore, ma anche di conseguenza di possederlo. È un discorso indubbiamente di grandissimo interesse, che però, per la profondità con cui deve essere condotto e per l’esame da svolgere, esula dal compito che ci siamo prefissati in questo scritto.

La tecnica degli alpinisti europei va ispirandosi sempre più al modello di progressione californiano: superamento da parte di Motti di un tetto in blue jeans e pedule, in sostituzione della classica attrezzatura europea.

La diretta conseguenza trasferita a livello alpinistico di questi presupposti è un esasperato individualismo che si manifesta da un lato con atteggiamenti antisociali e dall’altro con la pratica dell’arrampicata solitaria, molto diffusa tra i californiani, intesa non tanto come espressione sportiva e competitiva, ma soprattutto come fenomeno puramente individuale e come ricerca personale di sensazioni non altrimenti raggiungibili. Si tenga presente che sovente una scalata sulle pareti della Yosemite Valley può durare più di dieci giorni (Robbins rimase da solo 17 giorni in parete); è facile che in determinate condizioni di sforzo, isolamento, concentrazione si possano sviluppare dei processi psichici, forse indagabili con un attento studio delle variazioni biochimiche del corpo, che assai da vicino ricordano quelli ottenibili con l’applicazione metodica delle discipline orientali. A tutta prima la cosa potrebbe sembrare assurda, in quanto lo yoga e lo zen sono proprio un mezzo per uscire dall’angoscia e per raggiungere una perfetta armonia che trova nell’inazione la sua espressione più significativa. Un alpinismo angoscioso e teso in un’azione esasperata al conseguimento di un risultato ci sembra decisamente l’opposto. Ma ci pare invece che un certo tipo di alpinismo e un certo modo di concepire l’arrampicata, che per definizione indichiamo con il termine “californiano”, tralascino decisamente il risultato inteso come meta da raggiungere in un meccanismo autosuperante, caratteristica prima dell’alpinismo europeo di derivazione romantica e idealista.

L’esempio californiano ha già i suoi adepti in Italia: Gian Carlo Grassi è tra i tanti esponenti uno dei più rappresentativi. Foto: G. P. Motti.

Gli alpinisti californiani e la droga
Vi è indubbiamente ancora una certa confusione e solo un esame più serio e approfondito potrebbe portare a una sufficiente chiarezza. È tuttavia molto interessante un’osservazione di Robbins, il quale a proposito di una sua eccezionale scalata solitaria, parlò di una sorta di “masturbazione spirituale”. Non è un segreto il fatto che molti arrampicatori californiani fumino la marijuana e certo non è nemmeno intelligente voler fare gli struzzi su certi problemi e fingere di ignorare la verità. Cerchiamo piuttosto di comprendere il perché di tutto ciò. Fu condotto in America, per approfondire la conoscenza sull’effetto della marijuana sui giovani di New York, uno studio serio e prolungato che in seguito venne definito il Rapporto La Guardia. Secondo questo studio condotto da medici e psicologi, «la marijuana in virtù delle sue proprietà di diminuire le inibizioni accentua tutti i tratti della personalità, sia quelli negativi che quelli positivi. Questa sostanza di per sé non produce un comportamento anomalo o incontrollato degli individui, anche se può avere l’effetto di stimolare un comportamento spontaneo. Dosi sempre maggiori di marijuana non comportano necessariamente, anche a lungo termine, un aumento del piacere originario. La marijuana, come l’alcool, non altera la base della personalità, ma attenuando le inibizioni può favorire la comparsa di atteggiamenti antisociali; tuttavia di per sé l’uso di questa sostanza non produce comportamenti anòmici. Non vi è motivo di credere che l’uso continuato di marijuana possa costituire il primo passo o l’incentivo all’uso di sostanze oppiacee. Un uso prolungato di questa sostanza non comporta degenerazioni fisiche, mentali o morali, né provoca alcun effetto deleterio permanente».
Il Rapporto La Guardia conclude affermando che «la marijuana possiede probabilmente un notevole valore terapeutico che merita di essere approfondito con ulteriori ricerche».

Nota: Non risulta che in Italia la marijuana sia stata usata per scopi terapeutici; anzi i suoi effetti sul sistema nervoso consistono in uno stato di eccitamento che diminuisce le capacità di concentrazione e le facoltà decisionali e sviluppa un senso di benessere illusorio.

In sostanza la marijuana libererebbe la spontaneità dell’io rendendo quindi più facile il raggiungimento di una particolare condizione psichica adatta al superamento dell’io razionale e quindi con una conseguente liberazione dell’istinto. La cosa tuttavia urta e stride con le regole delle discipline orientali, le quali disprezzano l’uso delle droghe psicomimetiche, definite come metodo troppo facile e troppo rapido per raggiungere la cosiddetta liberazione. Siamo d’altronde di fronte a un mezzo artificioso e temporaneo: cessato l’effetto della droga, l’individuo ritorna nella schiavitù; lo zen e lo yoga mirano invece a una liberazione permanente e totale, senza, ed è bene sottolinearlo chiaramente, alcun danno fisico o psichico, anzi con una netta e straordinaria maggiorazione del potere sia fisico che psichico, mentre l’uso permanente della droga porta alla distruzione sia del fisico che della psiche.

Risalita di corde fisse mediante l’uso di maniglie jumar sulla parete sud-ovest di El Capitan. Foto: E. Cooper.

Un atteggiamento fortemente introspettivo affiora chiaramente dagli scritti di alcuni giovani scalatori francesi dell’ultima generazione, come Patrick Cordier e Bernard Amy. Non mi si fraintenda: sia ben chiaro che non si vuole assolutamente supporre che i suddetti alpinisti facciano uso di allucinogeni. Piuttosto stiamo assistendo a un fenomeno curioso che andrebbe maggiormente approfondito nelle sue caratteristiche: vuoi per un certo spirito imitativo che porta sempre gli europei ad assimilare certi atteggiamenti positivi e negativi che giungono d’oltreoceano, vuoi per il realizzarsi anche in Europa di un crescente processo tecnologico nell’ambito di una società industrializzata che vive in continua tensione derivata da conflitti angosciosi, assistiamo anche nell’alpinismo europeo, ma per ora soprattutto francese, all’affermarsi della corrente californiana, esasperata da atteggiamenti mistici o anarcoidi a seconda dei casi, ma in ogni caso impostata sul rifiuto del contesto sociale e sulla ricerca di una qualsivoglia liberazione (si veda per il rapporto tra l’uomo-alpinista e la società un’interessante serie di articoli scritti da Franco Brevini e Claudio Cima su Rassegna Alpina 2 durante il 1973).

Una cosa però è certa: gli arrampicatori californiani sono atleti estremamente dotati e hanno dato notevoli prove della loro capacità non solo fisica, ma anche intellettiva. Non possiamo di per sé ritenere che un’attività come l’alpinismo possa essere praticata da individui profondamente intossicati dagli allucinogeni. Ciò confermerebbe in un certo senso la tesi esposta da Robinson, secondo la quale esisterebbe un rapporto di controllo tra arrampicata e uso di marijuana.

È questo un tema del massimo interesse che ben si presta a essere studiato ed esaminato con serietà dagli specialisti in materia, al fine di evitare confusione e soprattutto tragici errori in cui potrebbero incappare lettori poco avveduti.

I grandi protagonisti dello Yosemite
Vorrei concludere tracciando un rapido profilo biografico dell’alpinismo californiano, i cui rappresentanti sono sconosciuti o quasi in Europa, poiché la loro attività, salvo casi eccezionali, si è esplicata esclusivamente nella Yosemite Valley o sulle montagne americane.

Royal Robbins è considerato il re dello Yosemite: uomo non più giovanissimo, ha aperto un notevole numero di vie su molte montagne americane, tutte di difficoltà estrema, sia su roccia che su ghiaccio, sovente da solo. Soggiornò anche in Europa, quando John Harlin fondò la scuola d’alpinismo internazionale di Leysin in Svizzera. Durante questo periodo lasciò nel gruppo del Monte Bianco una significativa traccia del suo valore, aprendo sul Petit Dru due vie di eccezionale difficoltà: la prima con Gary Hemming, forse la più grande arrampicata libera su roccia granitica delle Alpi, la seconda con John Harlin, di certo la più rischiosa e difficile arrampicata artificiale dell’intera catena alpina.

John Harlin, scomparso durante la salita diretta invernale sulla Nord dell’Eiger per la rottura di una corda fissa, era alpinista completo, dalle grandi doti atletiche e intellettuali, uno dei massimi esponenti della corrente americana. La sua attività sulle Alpi fu notevole in tutti i gruppi, dal Monte Bianco alle Dolomiti, dalle Alpi Svizzere ai Calanques di Marsiglia. Di lui soprattutto, oltre la via al Dru aperta con Robbins, si ricorda la prima salita della parete sud del Fou, nelle Aiguilles de Chamonix oggi ripetuta con una certa frequenza, ma che allora costituì un vero e proprio passo avanti nel superamento di un limite raggiunto su granito.

Tom Frost è un alpinista di straordinaria bravura su ogni terreno, ma soprattutto su ghiaccio e misto. Mormone, di strettissima osservanza religiosa, ha notevolmente sviluppato nel suo alpinismo la corrente mistica di cui si è parlato dianzi. Prese parte alla scalata del Fou, superando da capocordata il famoso passaggio della fessura diagonale, 80 metri di sesto grado e sesto grado superiore in arrampicata libera con pochissimi chiodi, compiendo durante i tentativi un volo impressionante lungo più di 50 metri. Prese anche parte alla spedizione inglese alla parete sud dell’Annapurna, dove effettuò un tentativo di salita solitaria alla vetta (si veda a questo proposito Annapurna south face di Chris Bonington, dove il racconto di Frost è forse il tratto più valido del libro). Conosciuto anche per la sua salita della Torre del Fior di Loto, un incredibile obelisco granitico che si alza solitario in una delle regioni più belle e selvagge della Terra, i Monti Logan in Alaska, nei pressi del fiume Nahanni, ultimo rifugio di una fauna e di una flora in via di estinzione.

Layton Kor, alteta gigantesco, arrampicatore libero e artificiale tra i più forti dello Yosemite, prese parte alla salita invernale della Nord dell’Eiger, dove risolse da capocordata i punti chiave della parete.

Yvon Chouinard, molto conosciuto anche in Europa per i famosi chiodi di cui è fabbricante. Arrampicatore e ghiacciatore di primissimo piano, aprì una nuova via sul Fitz Roy di alto livello tecnico. È redattore della rivista Ascent di cui si è parlato.

Warren Harding, secondo re dello Yosemite dopo Robbins, alpinista anch’egli non più giovanissimo ma pur sempre di gran valore. Ha al suo attivo alcune tra le più difficili e le più belle prime ascensioni della Yosemite Valley. E poi ancora David Hemmings, Don Lauria, Dennis Henneck, Jim Bridwell, Galen Rowell, Chuck Pratt, Don Peterson e Lito Tejada-Flores, oltre che alpinista regista di film di montagna e scrittore, rivelatosi al pubblico europeo con Fitz Roy, vincitore del Festival di Trento, dove forse per la prima volta nel cinema di montagna il dialogo assunse un ruolo importante tanto quanto l’immagine. E per ultimo ho lasciato Gary Hemming, l’alpinista hippy, il capellone, il più discusso, il più amato e il più detestato dei californiani. Di lui si è detto e si è scritto molto, a proposito e a sproposito. Arrampicatore bravissimo, aprì anche sulle Alpi un gran numero di vie belle e difficili: al Petit Dru, sull’Aiguille du Fou, da solo sulla Nord del Triolet in inverno, dovunque vi era una parete non ancora salita, cercò di lasciare una traccia del suo modo di intendere l’alpinismo. Vi è chi ancora lo ricorda girare per le vie di Chamonix, con un giaccone consunto e sdrucito, i capelli lunghi, quell’aria un po’ lontana e allampanata. Parlando di lui, il parigino Claude Deck, uno dei suoi più cari amici, che visse a lungo con Gary durante il suo periodo di permanenza a Parigi, mi disse: «Gary, senza volerlo era divenuto un simbolo, uno stereotipo ad uso e consumo degli altri, senza che egli ne potesse trarre alcun vantaggio apprezzabile. Gary rappresentava tutte le contraddizioni, i contrasti, le verità e gli assurdi della società in cui era cresciuto: in lui spesso affiorava la violenza di un mondo schiavo della repressione mascherata dall’ipocrisia, violenza in netto contrasto con la sua natura pacifista e profondamente umana».
In circostanze drammatiche e non molto chiare, forse in uno stato un po’ confusionario, derivato dall’aver bevuto molto alcol, che su di lui aveva un effetto particolarmente negativo, Hemming si uccise nella foresta della Yosemite Valley (errato: si uccise in un bosco nei pressi di Jackson Hole, Wyoming, il 6 agosto 1969, NdR).

Bibliografia
Ascent. Sierra Club Mountaineering Journal, San Francisco 1969/70/71/72.
The American Alpine Journal. American Alpine Club, New York.
The Alpine Journal. Alpine Club, London.
Mountain. Mountain Magazine Ltd, London 1973/74.
La Montagne et alpinisme. Club Alpin Français, Parigi.
Mircea Eliade, Lo Yoga, immortalità e libertà. Rizzoli.
Bellur Krishnamachar Sundararaja Iyengar, Teoria e pratica dello Yoga. Casini.
Swami Vivekananda, I libri sullo Yoga. Ubaldini.
Christmas Humphreys, Il Buddhismo. Ubaldini.
Christmas Humphreys, Lo Zen. Ubaldini.
Daisetsu Teitarō Suzuki, La dottrina Zen del vuoto mentale. Ubaldini.
AA.VV., Ma l’amor mio non muore… Arcana.
Guido Blumir, La marijuana non fa male. Tattile.

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Il Nuovo Mattino ultima modifica: 2018-12-10T05:53:32+01:00 da GognaBlog

2 pensieri su “Il Nuovo Mattino”

  1. È chiaro che un tale sistema richiede un lavoro di chiodatura e schiodatura estenuante, ma soprattutto richiede dei chiodi fabbricati in materiale tale da permetterne un uso molto prolungato senza che avvengano rotture o deformazioni.

    questa chiodatura e schiodatura ha causati danni alla roccia creando buchi e deformazioni delle fessure.

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