Il Nuovo Mattino in cui sfidammo il vecchio alpinismo

Il Nuovo Mattino in cui sfidammo il vecchio alpinismo
(intervista a Massimo Demichela)
a cira di Martina Marti Demichela e Pepi)
(pubblicato su Nunatak n. 73, estate 2024)

Il “Nuovo Mattino” ha avuto molte definizioni e i racconti sono stati tanti. Riassumendo al massimo, possiamo dire che è stato – più che un gruppo organizzato – l’intreccio delle storie, personali e collettive, di chi in quegli anni ha portato elementi nuovi e di rottura nel modo di frequentare la montagna?

– Sì, il “Nuovo Mattino” nasce da un gruppo di giovani appassionati di montagna che, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, comincia ad affrancarsi da quello che era l’ambiente istituzionale dell’alpinismo, all’epoca incarnato dal Club alpino italiano. Il CAI esprimeva un modo di andare in montagna chiuso, rigido, un ambiente molto ingessato e istituzionalizzato da tanti punti di vista. Ecco, in quegli anni lì comincia quest’altra storia, a partire da persone come Gian Piero Motti (1), Giancarlo Grassi (2)… lo conoscevo loro, e con loro ho iniziato questa avventura.

Apertura dell’articolo sulla rivista Nunatak, estate 2024

Ecco, veniamo subito al dunque: più che la storia del “Nuovo Mattino” – che è stato un movimento complesso e variegato – raccontaci qualcosa della tua esperienza personale… Dove e come ha inizio il tuo incontro con le sue traiettorie?

– Tutto ha avuto inizio in Piemonte, in particolare nella Provincia di Torino. Poi si è diffuso anche altrove, ma io vi parlo soprattutto di Torino e dintorni, anche perché frequentavo quell’ambiente lì. L’ambiente del CAI lo conoscevo perché ci avevo avuto a che fare come escursionista. Lo conoscevo e lo detestavo, perché era un ambiente soffocante, militarista, era un modo di andare in montagna che proprio non condividevo. Ero andato a fare delle escursioni con il CAI di Chivasso perché mia cugina abitava lì e lo frequentava, avevamo 14 anni, ed era un ambiente per me decisamente sgradevole; c’era una specie di nonnismo, questo lo posso dire con certezza perché l’ho vissuto in prima persona. lo sono originario della Val di Susa, e da bambino ero abituato ad andare in montagna per i cazzi miei; avevamo una casa all’inverso di Bussoleno e fin da piccolo andavo con la gente del posto. Ma era una cosa completamente estranea a quello che erano l’alpinismo e l’escursionismo”ufficiali”: noi andavamo in montagna per camminare, per stare insieme e divertirci, andavamo a cercare i funghi, a vedere le stelle alpine…

Quando poi ho iniziato ad andare a scalare con le persone che ho citato prima, ho ritrovato un ambiente estremamente libero e piacevole, senza gerarchie. C’era il massimo rispetto reciproco e al tempo stesso la massima mancanza di rispetto reciproco, nel senso che potevi tranquillamente dire quello che pensavi. Invece, anche se io non l’ho vissuto personalmente, mi è stato riferito da chi arrivava dall’ambiente istituzionale, come dalla scuola Gervasutti, che era un ambiente nel quale, ad esempio, ci si dava del “lei” con gli istruttori, non ci si dava mai del “tu”, le donne non erano ammesse, esisteva una scuola apposita per loro… Insomma, io, che ero reduce dalle mie esperienze poco piacevoli con il CAI, ho ritrovato quest’ambiente informale e non istituzionale e mi ci sono subito trovato benissimo.

Devo anche dire che c’era stato un piccolo intermezzo che mi ha dato una spinta ad avvicinarmi ancora di più alla montagna: avevo avuto qualche piccolo problema con la legge, per cui ero stato latitante qualche mese; parte di questa latitanza l’ho passata in montagna, con degli speleologi, nel massiccio del Marguareis [Alpi Liguri (CN)]. Ci sono stato quasi tre mesi, ed è stato un periodo di bellezza assoluta, in un ambiente di libertà totale.

Quindi, nel tuo caso personale, la montagna è stata anche un po’ un rifugio, in un momento in cui hai dovuto sottrarti alla legge…

– C’era stata questa gazzarra che mi avevano proditoriamente accollato: ero stato accusato di un assalto alla sede dell’MSI [Movimento sociale italiano] di Torino avvenuta durante un corteo del gennaio del 1973. Sono stato latitante circa sei mesi e una parte li ho passati in montagna, un’altra parte l’ho passata in altre situazioni, facendo una sorta di volontariato nel Sud Italia, facendo delle cose più “normali”, diciamo. Ma i primi mesi passati in montagna sono stati davvero speciali, mi sono sentito molto “partigiano Johnny” in quel periodo!

E in quel momento – all’inizio degli anni Settanta – esisteva già il Nuovo Mattino? Ed era un gruppo organizzato, con una forma più o meno strutturata?

– Sì, come dicevamo prima, il Nuovo Mattino esisteva già, perché già alla fine degli anni ’60 si è iniziato ad arrampicare con questa nuova mentalità. Però non c’era assolutamente una organizzazione istituzionalizzata: “Nuovo Mattino” era solo un modo di chiamare questa nuova modalità, credo che il nome l’avesse tirato fuori Gian Piero Motti. C’era soprattutto la contrapposizione con l’ambiente dell’alpinismo “classico”, per il resto era una cosa estremamente variegata, io stesso ci ho faticato un po’ a capirla, perché c’erano persone molto diverse tra loro. C’era appunto Gian Piero [Motti], che aveva un’impronta più intellettuale; c’era Giancarlo Grassi, che era un alpinista vero, un arrampicatore a 360 gradi; poi c’era Danilo Galante (3), che era un altro grande arrampicatore, o Roberto Bonelli (4), che era un delinquente come me. O, ancora, Gianni Comino (5), con cui ho fatto il servizio militare e con cui ho iniziato ad arrampicare, e che è stato un arrampicatore e un ghiacciatore molto importante, oltre che un mio caro amico.

Insomma il nostro giro era un po’ così. Poi c’erano anche altre persone che erano un po’ meno borderline, dal punto di vista dell’andare in montagna facevano un alpinismo innovativo, esplorativo, di qualità, però rispetto a noi erano più presentabili, erano socialmente più inquadrate… C’era un po’ di tutto, insomma.

Puoi spiegarci meglio che cosa intendi per alpinismo “innovativo”, anche da un punto di vista “tecnico”? Qual era la differenza con l’alpinismo “classico”, “tradizionale”?

– A questo proposito, prima mi sono dimenticato di citare una presenza che è stata molto importante in questo senso, forse è stato uno degli interruttori più potenti. A un certo punto arrivò a Torino un fisico dalla Scozia, un certo Mike Kosterlitz (6) (che poi tra l’altro ha ricevuto il premio Nobel): lui era un arrampicatore di un livello straordinario, sia dal punto di vista della bravura, della capacità, delle cose che faceva, sia rispetto alle tecniche: arrampicata a incastro, uso dei dadi, dei nut invece del martello e dei chiodi. Questo ha dato una sferzata di energia, un vero e proprio rinnovamento, è stata una presenza molto importante.

Dal punto di vista tecnico, dicevamo, c’è stato innanzitutto il discorso di rompere certi schematismi, ad esempio gli scarponi, “in montagna si va con quelli!”, era il discorso dominante. Noi invece abbiamo cominciato ad andare ad arrampicare con le scarpette leggere e flessibili.

Inoltre si è cominciato a confrontarsi – da un punto di vista, diciamo, culturale – con l’alpinismo francese e con quello inglese, che erano in grossissimo fermento in quel periodo. Più ancora che la tecnica è cambiata proprio la mentalità, non solo dal punto di vista della prestazione, ma proprio come approccio, come modo di andare e di muoversi in montagna, accantonando tutta una serie di paure, di schemi, di tabù… E in ciò c’era anche il fatto di essere abbastanza incoscienti, sentirsi invincibili. La grossa differenza è stata questa.

Però è stato un movimento che anche dal punto di vista tecnico ha portato dei bei risultati. Sono state aperte tante vie, ad esempio noi andavamo sempre a Foresto, all’Orrido e alle Paretine bianche, e alla Cava di Borgone (7). O, ancora, la Fessura della disperazione al Sergent, il Diedro Nanchez, il Lungo cammino dei Comanches, la Via dei tempi moderni al Caporal [tutte in Valle Orco (TO)], le vie al Bec di Mea [in Valgrande di Lanzo (TO)].

Se prima alle vie veniva dato il nome di chi le aveva scalate per la prima volta, di chi le aveva “conquistate”, poi la faccenda è cambiata e si è iniziato a scegliere nomi evocativi o ironici. Un episodio divertente è accaduto una volta che siamo andati ad arrampicare in Val Chisone: il mio amico Roberto Bonelli sosteneva di aver trovato un posto bellissimo per arrampicare in un canyon. Eravamo negli “anni di piombo” che più “di piombo” non si può. Ad Airasca troviamo un posto di blocco di quelli spaventosi, c’era una squadra di carabinieri, proprio di quelli cattivi cattivi di Dalla Chiesa; c’era un tenente che sembrava un cobra inferocito. Ci fermano su questo furgone che lasciamo perdere, e iniziano a chiederci chi fossimo, dove andassimo, cosa facessimo… Quando trovano la magnesite ci chiedono se fosse droga. Intanto era stato fermato un altro poveraccio, che pare fosse un ladrone e la sua macchina pare avesse qualcosa di strano. Tutti i carabinieri più brutti caricano il malcapitato sull’alfetta, sequestrano la macchina e vanno via. Subito dopo dalla centrale arrivano ai carabinieri rimasti le segnalazioni sulle nostre malefatte. Dopo un breve scambio di battute ci dicono di sparire, noi e il furgone. Non oso immaginare se ci fosse stata ancora l’altra squadra… Da lì il nome alla via: la Via del posto di blocco. Che peraltro era un posto di merda, in un canyon di merda, vicino a Perosa Argentina, umido, brutto, un posto dove penso che nessuna persona civile sia mai andata ad arrampicare.

Insomma, c’è stato un salto, con l’apertura di vie di grande bellezza e di maggiore difficoltà rispetto al passato. Però sempre senza l’ossessione della prestazione, senza l’obiettivo di dover raggiungere la vetta, le madonnine, le croci, ma con l’idea di scalare le pareti in tranquillità. Ecco quello che volevo dire prima: l’idea era uscire da quegli schemi.

Quindi c’è stato un cambiamento più che altro “culturale”, di approccio alla montagna… In questo hanno avuto un peso anche i contatti e gli intrecci avuti con altri, fuori da Torino e dal Piemonte?

– Fino a quel momento lì c’era solo la Rivista del CAI che parlava di montagna. A un certo punto a Torino nasce la Rivista della Montagna che è stata una svolta dal punto di vista della cultura della montagna. La rivista del CAI era tipo un bollettino parrocchiale, mentre la Rivista della Montagna è stata una cosa con un respiro internazionale, hanno iniziato a esserci articoli dalla Francia, dagli Stati Uniti, è stata un’enorme boccata di ossigeno dal punto di vista culturale.

Il Nuovo Mattino, come dicevo, è una cosa venuta fuori da Torino, però poi il nostro modo di vedere l’arrampicata ha preso piede anche altrove, in altre parti d’Italia. Ad esempio erano venuti fuori i “Sassisti” della Val di Mello (Sondrio) (8). Anche loro avevano cominciato con le arrampicate di fondo valle, e con loro eravamo molto amici. Poi si è iniziato ad arrampicare così anche in Sardegna…

Noi stessi siamo andati spesso in giro: non ricordo in che anno, probabilmente il ‘76 o il ‘77, abbiamo passato forse due inverni di fila tra il Verdon e le Calanques (in Provenza, Francia). Andavamo giù per un po’ di giorni, vivevamo in tenda o in furgone, recuperando in giro quello di cui avevamo bisogno, in modi più o meno leciti.

E se dal punto di vista tecnico hanno iniziato a esserci anche ottimi risultati, paragonabili ai risultati raggiunti dai francesi, dagli inglesi, dagli americani, quello che più ci attraeva era lo “spirito”: negli Stati Uniti, ad esempio, dove quelli che scalavano in Yosemite oltre ad arrampicare praticamente non facevano un cazzo, vivevano di espedienti o di accattonaggio. C’era questo personaggio, Jim Bridwell, che era un mitico arrampicatore della Yosemite, e che a un certo punto venne in Italia. Quando qualcuno gli chiese “Ma tu cosa fai per vivere?”, lui rispose «I speak (io parlo)» (9). Chiaramente ne fummo subito affascinati.

– Quindi la gran parte di voi arrivava da ambienti un po’ marginali, dissidenti, cioè non eravate i classici impiegati della domenica, no? Però quasi tutti eravate cittadini, o comunque vivevate in città. Che ruolo aveva la montagna in tutto questo? Si può dire che era un po’ un’attività di fuga?

– Noi eravamo per lo più degli sfaccendati, c’era qualche studente, ma comunque eravamo tutti personaggi un po’ marginali… E sì, vivevamo quasi tutti in città, e tutti in qualche modo trovavamo stretta la città. Però non la definirei una fuga… Come si può definire una cosa che non è una fuga? Una corsa, ecco, una corsa verso una forma di libertà. Non la chiamerei fuga perché non è che fuggivamo, piuttosto attaccavamo… Andavamo in montagna anche perché non è che facessimo molto altro, nel senso che proprio per una scelta di vita non è che ci massacrassimo di lavoro. Da alcuni eravamo considerati abbastanza dei parassiti sociali, anche da alcuni di quelli che erano alpinisti di rottura, però erano di rottura fino a un certo punto, perché conservavano ancora un certo inquadramento sociale…

Qual era il vostro rapporto con la “politica” e con il “movimento” degli anni ‘70? C’era una qualche “identità politica” condivisa?

– Sicuramente la storia è legata al ’68, a quello che è stato quello scossone da un punto di vista filosofico, culturale, sociale che c’è stato in quegli anni lì. Però la questione è complessa, perché il giro di noi arrampicatori era estremamente variegato come connotazione politica: Motti era un intellettuale di sinistra, un sinistroide, sinistrorso, Grassi era un sognatore, un “puro”, una persona che viveva per l’arrampicata, per la montagna, con una modalità che oggi potremmo definire ecologista. Galante invece si professava fascista, forse anche perché aveva una storia familiare molto particolare.

Bonelli, che aveva una storia familiare di tutt’altro tipo, si definiva un anarco-fascista.

Io e Gobetti eravamo di estrema sinistra, facevamo parte dei movimenti extraparlamentari del tempo. Piero Pessa, un altro con cui si andava ad arrampicare, era un sindacalista della CGIL. Poi c’era anche tanta gente della Valle di Susa…

E poi c’è da dire che nell’ambiente della sinistra, soprattutto della sinistra estrema, la montagna era vista un po’ come una strega, c’era una grande diffidenza, perché era considerata un ambiente che stimolava la competitività. Ma per noi non era affatto così. Tra di noi c’era chi era più bravo, chi era meno bravo, e convivevamo in maniera assolutamente serena, senza tanti dolori. Forse c’era una qualche forma di competizione, ma era davvero minima, era più una forma di gioco, di sfida.

E poi come è proseguita la cosa? Qual è stata l’evoluzione? C’è stata una vera e propria fine?

– Non c’era nulla di formale, per cui non c’è neanche stata una fine formale. Però ovviamente le cose cambiano, si trasformano. Lo spirito del Nuovo Mattino non è che sia finito, ma è cambiato, questo sì. E comincia a cambiare, mi pare che fosse il primo maggio del ‘75, quando è morto Danilo Galante. Quella volta Galante e Grassi erano andati a fare la via del Gran Manti alla Chartreuse, nelle Prealpi francesi, ed è arrivata una bufera di neve spaventosa… al primo maggio! Sono arrivati in punta, ma mentre scendevano, Danilo è morto di freddo. È in quel momento lì che qualcosa è cambiato. Lì abbiamo capito che il gioco poteva essere davvero pericoloso, mortale. Abbiamo continuato a fare le stesse cazzate, ma con un po’ meno allegria… Stavo per dire un po’ meno convinzione, ma in realtà no, la convinzione ce l’avevamo ancora, abbiamo continuato a vivere questo sogno, questa avventura, ma con un po’ meno spensieratezza…

Noi continuiamo ad andare ad arrampicare in maniera sempre molto informale, fuori dagli schemi, però col tempo la cosa, soprattutto dal punto di vista tecnico, si stabilizza un po’. E poi è iniziato il discorso della “arrampicata libera”…

– Che cosa intendevate per “arrampicata libera”?

– Fino a un certo punto non c’era molta chiarezza su quello che si intendeva per “arrampicata artificiale”, con l’uso dei chiodi come mezzo di progressione e di assicurazione. Si barava anche un po’, cioè finché non si mettevano le staffe e le scalette per salire, andava più o meno tutto bene, si poteva tirare il chiodo, metterci i piedi su… Non era una cosa dogmatica. Invece poi, dopo un certo momento, soprattutto per le influenze della mentalità inglese e americana, arrivò un’etica molto più rigida su queste cose: «ah no, il chiodo non si deve toccare, neanche sfiorare, se no non è vera arrampicata libera!». Quella cosa lì è stata un po’ un’involuzione, secondo me, un ritorno a un approccio rigido e schematico. Per noi non è mai stato così, cioè non stiamo parlando di navigazione spaziale, stiamo giocando, stiamo andando a divertirci!

A un certo punto, poi, ha iniziato a esserci anche la questione delle gare. La prima edizione di Sport Roccia, nel 1985, è stata a Bardonecchia, alla parete dei Militi (in Valle Stretta). Le gare hanno iniziato a portare un grosso giro di soldi e di sponsor, e tutto ciò ha snaturato il divertimento; la cosa fondamentale sembrava fosse diventata capire chi era il più forte del mondo. Il punto per me è che arrampicare è bello, io vado perché voglio fare delle belle vie e voglio divertirmi. Non me ne frega niente di sapere se sono più bravo o meno bravo (peraltro io non ero certo il più bravo, anzi, ero uno dei peggiori, però mi sono sempre divertito tantissimo!). lo non ho apprezzato questa svolta, infatti avevo anche avuto delle risse verbali con degli arrampicatori dell’epoca, avevo anche scritto un articolo molto critico su Luna Nuova [giornale locale della Valle di Susa].

– Quindi la spinta iniziale a un certo punto è un po’ scemata, però qualcosa è rimasto, no? O meglio, qualcosa si è rotto: si può dire che si è rotto il monopolio che il CAI deteneva sulla frequentazione della montagna?

– Esatto, era finito il monopolio del CAI: ci si è resi conto che potevano andare ad arrampicare anche cialtroni sacrosanti conclamati come noi, e ha cominciato a esserci un mucchio di gente che prese a frequentare la montagna come facevamo noi.

Oggi poi c’è gente sempre più brava, che fa cose sempre più mirabolanti, anche perché l’arrampicata in sé è diventata molto più accessibile. Con tutto quello che comporta, nel bene e nel male…

Note
(1) Gian Piero Motti, classe 1946, è stato un alpinista e scrittore torinese. Ha fatto parte nel nucleo fondativo del Nuovo Mattino che aveva teorizzato con il suo pensiero e nei suoi scritti. Tra le sue opere più importanti ci sono: La storia dell’alpinismo, Priuli & Verlucca, Ivrea, 2013; I falliti e altri scritti, Priuli & Verlucca, Ivrea, 2016. È stato il direttore della Rivista della Montagna dal 1975 al 1977. Si è tolto la vita nel giugno del 1983.

(2) Giancarlo Grassi è stato un grande personaggio dell’alpinismo, non solo a livello regionale o nazionale ma in senso assoluto. È stato inventore dei più fantasiosi itinerari su cascate di ghiaccio e couloir nei luoghi più remoti, salitore di paurose seraccate, instancabile ricercatore di nuovi itinerari ovunque esisteva un pezzo di roccia inesplorato, dalla Valle di Susa alla Valle dell’Orco fino al Monte Bianco. Perde la vita nell’aprile del 1991 sui Monti Sibillini.

(3) Danilo Galante è stato uno scalatore forte e determinato, uno dei trascinatori del gruppo del Nuovo Mattino nel quale divenne Il Mago. La sua vita venne stroncata presto, nel 1975, quando in cima alla Chartreuse, dopo una scalata, sorpreso da una bufera di neve, morì di freddo e di sfinimento malgrado l’assistenza portatagli dal suo amico e compagno Gian Carlo Grassi.

(4) Roberto Bonelli è stato uno dei più famosi arrampicatori degli anni Settanta e Ottanta. Aveva iniziato negli anni Settanta e lo aveva fatto da subito in modo non classico, sull’onda dei fermenti del Sessantotto. È tra i protagonisti di quell’epoca, tra Mucchio Selvaggio e Nuovo Mattino. Ha perso la vita nel settembre del 2016 sulle placche del Draye nella valle di Ailefroide.

(5) Gianni Comino, cuneese, è stato un importante alpinista e un abile ghiacciatore, portando elementi innovativi nella tecnica; ha aperto vie di notevole difficoltà. Perse la vita a soli 28 anni, nel febbraio del 1980, sul versante della Brenva del Monte Bianco, tentando una salita in solitaria.

(6) Mike Kosterlitz è un fisico e scalatore scozzese; durante il suo percorso accademico ha passato alcuni anni in Italia. Sulle Alpi ha aperto nuove vie portando strumenti e tecniche innovative già in uso in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma qui ancora sconosciute.

(7) Si tratta di tre luoghi storici per arrampicare in Valsusa, le prime tre falesie attrezzate dai ragazzi del Nuovo Mattino.

(8) «Il nome nasce dall’epopea e dalla storia del “Nuovo Mattino”, e in particolare dall’esperienza di quell’avanguardia rappresentata da un gruppetto di giovani arrampicatori di Sondrio. Nei primi anni ’70 del secolo scorso quei ragazzi (al secolo Popi Miotti, Paolo e Gianpiero Masa, Jacopo e Guido Merizzi, Antonio Boscacci, Ermanno Gugiatti, Francesco Boffini, Giovanni Pirana…) cominciarono a inanellare una serie di scalate di prim’ordine nei gruppi del Badile e del Bernina. Con gran semplicità, rapidità ed efficacia e non poco spirito di avventura, andarono a ripetere le salite codificate a quel tempo come estreme. Contestualmente, poi, furono i primi a dedicarsi all’arrampicata sulle strutture di fondovalle e sui massi per il puro piacere di farlo, per la ricerca del gesto e anche del contenuto sportivo dell’arrampicata: tutte azioni assolutamente distanti dal verbo alpinistico della “conquista della vetta” in voga in quegli anni. Tutto ciò, naturalmente, creò non poco scompiglio negli ambienti conservatori del CAI dell’epoca. Così, nel 1976, fu indetta una tavola rotonda dalla sezione Valtellinese del CAI per analizzare queste “inquietanti” derive dell’andar per monti. Fu allora che un alto esponente del Club si rivolse duramente a uno dei giovani nuovi arrampicatori presenti dicendo: “Queste cose che fate non dobbiamo farle passare per alpinismo, questo è sassismo…”. Da allora, fieramente, i ragazzi di Sondrio si definirono “i sassisti”. Continuarono le loro incursioni “dissacratorie” passando dai massi alle pareti selvagge e, curiosamente, pur disponendo di poche informazioni, rivelarono una gran somiglianza con i giovani arrampicatori di altre realtà geografiche molto distanti come lo Yosemite, ma anche più vicine come le Dolomiti o le Alpi Piemontesi (Michele Comi, Aspettando il Melloblocco #3: i sassisti e l’arrampicata sui massi, www.planetmountain.com)». Ecco i nomi di alcune vie e strutture che hanno creato e/o battezzato: Il Risveglio di Kundalini, Dimore degli Dei, Luna Nascente, Scoglio delle Metamorfosi, Precipizio degli Asteroidi, Il Paradiso può attendere, Oceano Irrazionale, Nuova dimensione.

(9) Si riferisce al fatto che Jim Bridwell, oltre che di piccoli espedienti, riusciva a vivere scrivendo e raccontando le sue imprese alpinistiche.

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Il Nuovo Mattino in cui sfidammo il vecchio alpinismo ultima modifica: 2024-10-31T05:59:00+01:00 da GognaBlog

13 pensieri su “Il Nuovo Mattino in cui sfidammo il vecchio alpinismo”

  1. Bello sentire il tuo racconto , bello rivivere le immagini di un tempo . Il tuo stile schietto e libero e gli aneddoti ci aiutano a ritornare molto indietro ai tempi del circolo volante . Come se fosse ieri ricordo le foto del Mago  che porta gli allievi della Gerva a Foresto come scappatoia al meteo avverso. Là in fondo al corridoio della sala della CRT dopo la proiezione ci sono il Principe e Maestro che discorrono molto seriosi e nessuno osa disturbarli . Gianni é sotto casa mia con la sua 600 e partiamo per la Val Veny dove ci aspetta Maestro. Sarà una vera avventura il giorno dopo sul Tacul,24 ore no stop ed una bottiglia di acqua minerale da dividere in 4 a mezzanotte al rifugio. Roberto sta assicurando Piero da primo sulla via nuova a sx dei Tetti a Foresto ; mentre assicura ci racconta  del più famoso reperto religioso di Torino … e degli annessi e connessi . Maestro sta per partire per la Patagonia allora gli regalo un bong ed un chiodo fatti in titanio (chi lo aveva mai visto il titanio ?) eppure Giuglard già li aveva …
    Un abbraccio e per loro il richiamo che si urlava fra le cordate in parete BLA BLA BLA  BLA  BLA BLA BLA 

  2. Luca. È un fenomeno assolutamente caratteristico di tutte le generazioni quello di ricordare la propria gioventù e ricavare energia dal ricordo. L’ho visto fare da mio padre e da mio nonno, che pure avevano avuto delle giovinezze ai miei occhi miserevoli e tragiche, segnate dalle guerre e dai lutti. L’importante è che il ricordo della propria età dell’oro non diventi incarognimento verso il presente, fenomeno anche questo molto frequente e “classico”. Se lo conosci forse, con un po’ di sforzo, lo contieni e conservi un po’ di curiosità verso un mondo che non è più il tuo e che ti appare spesso decadente. Perché purtroppo gli uomini tendono a confondere la propria decadenza personale con quella del mondo esterno. 

  3. Ratman. Rievocare il passato non è inutile. Il passato ci parla,  se sappiamo ascoltarlo. Certo la ribollita, per quanto buona, dopo un po’ risulta pesante da digerire. Anche se questa intervista ha qualche elemento di novità rispetto alla narrazione tradizionale e ricorda alcune cose note a chi c’era,  ma forse meno note a chi all’epoca (fine anni 60 inizio 70) era più giovane. Ad esempio il variegato retroterra politico di quel “movimento”, compresa la presenza di una componente anarchico/fascista. Un’inusuale mescolanza di ribellione dal sapore futurista. Certe tendenze antisistema rosso/brune che qualche volta appaiono anche qui nel blog non sono una novità e hanno un loro passato. Certamente sarebbe altrettante e forse più stimolante addentrarci nel presente alpinistico/arrampicatorio, nelle sue ispirazioni e nel suo retroterra culturale e ideologico. Su questo però gli interventi scarseggiano forse per la composizione di contributori e lettori del blog ed è un peccato. Ricollegandomi ad esempio al post sulla cultura woke ho notato che in alcune riviste straniere la forte enfasi che viene data con storie e interviste ai temi dell’inclusione e della diversità. Pero’ per fare discorsi documentato bisognerebbe essere più dentro anche attivamente al variegato mondo degli alpinismi moderni, non solo qui ovviamente, perché come ai tempi del Nuono Mattino molte influenze vengono da fuori soprattutto nella Erasmus Generation. 

  4. Nuovo mattino o no, a me è piaciuta l’intervista a Demichela. Odora di voglia di libertà e di idiosincrasia per le imposizioni.
    Il tutto genuinamente ricondotto alla voglia di divertirsi. Sembra banale, ma quanti ancora si divertono seguendo le proprie passioni istintive oppure si sono adeguati supinamente a un sistema oppressore con la scusa “che intanto è comodo” cercandosi escamotage che soddisfino pseudo-passioni create a capocchia per non doversi impegnare a protestare?
    Nessuna condizione rende tutti felici e soddisfatti. Nelle parole di Demichela ho letto un sentimento puro e slegato da schemi rigidi pieno di romanticismo irrinunciabile. Bello.

  5. Il gioco-arrampicata della Val di Mello,  non c’è più. Chi se ne è andato,  chi  è invecchiato e anche un pò ingrassato. Restano le vie a testimonianza, ma c’è chi vorrebbe lunaparkizzarle. Adesso il nuovo “nuovo mattino”  non è il gioco arrampicata e la lotta ai calzettoni rossi,  ma l’arrampicata fruibile.

  6. Al museo egizio c’è la sala Nuovo Mattino dove la solita storia è narrata in geroglifico, cuneiforme, piemontese.

  7. Per il nuovo mattino faccio mie le parole di fantozzi dopo l’ennesima proiezione della corazzata Potëmkin.
    Ormai è intrattenimento da RSA.

  8. Sono passati ormai più di 50 anni, mezzo secolo. Oggi cosa sta succedendo? Ci sono correnti, gruppi, influenze e ispirazioni culturali, connessioni con movimenti politici e sociali  o c’è un processo di totale secolarizzazione e si pensa solo alla prestazione/divertimento fuori da qualunque ricerca di significato? Sarebbe interessante avere contributi fattuali e possibilmente non giudicanti da persone informate su cosa bolle in pentola nel mondo alpinistico/arrampicatorio contemporaneo,  con tutto il rispetto e l’interesse, e pure un po’ di nostalgia, per l’archeologia e il ricordo dei tempi della giovinezza che fugge via come l’affascinante e inafferrabile Parthenope sorrentiniana. 

  9. “Oggi poi c’è gente sempre più brava, che fa cose sempre più mirabolanti, anche perché l’arrampicata in sé è diventata molto più accessibile. “
     
    E’ vero, però mi pare che ne siano rimasti ben pochi che si divertono e ancora meno che giocano…

  10. il nuovo mattino portò a mezzogiorno di pietra,  poi a pomeriggio cinque, ma è subito sera ed è buio sul ghiacciaio, però tenera è la notte.
    Il risveglio di Kundalini!

  11. Ho un ricordo di Demichela a Monte Cucco, Finale, che proclamava qualcosa sul vino. C’era anche Ivan Negro. Io ero un pischello che assorbiva.
     
    In effetti, per me che provenivo dal Cai, quei personaggi avevano un certo fascino perché si capiva che si divertivano.

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