Il Pesce d’Aprile, la Paroi de Glandasse e lo Scudo

Il Pesce d’Aprile, la Paroi de Glandasse e lo Scudo (RE 034)
di Ugo Manera
(pubblicato su Pan e pera, CDA&Vivalda Editori)

Agli inizi degli anni Settanta gli alpinisti più attivi nell’ambito torinese erano Gian Piero Motti, Gian Carlo Grassi e il sottoscritto, ovvero i principali protagonisti del “Nuovo Mattino”.

In quel periodo al nostro gruppo si aggregava spesso uno scalatore scozzese, Mike Kosterlitz, che periodicamente soggiornava a Torino per motivi di studio. Mike seguiva alcuni corsi all’Istituto di Fisica dell’Università e lì conobbe Piero Malvassora che lo accompagnò al CAI per introdurlo nell’ambiente degli scalatori torinesi. Kosterlitz era un tipo di poche parole, flemmatico, non si scomponeva mai; parlava raramente delle proprie scalate, ma aveva una grande voglia di arrampicare. Ci rendemmo subito conto del suo valore quando riuscimmo a “tirargli fuori” che aveva compiuto la seconda salita della via americana al Petit Dru e aperto una difficile via sulla parete est del Pizzo Badile.

Mike Kosterlitz in occasione dell’apertura di Pesce d’Aprile alla Torre di Aimonin, 31 marzo 1973. Foto: Roberto Bianco.

Nella primavera del 1973, lo portammo in Valle dell’Orco dove rimase affascinato dalla quantità di roccia che attendeva di essere scalata. Gian Piero ed io eravamo impazienti di riprendere l’esplorazione iniziata l’autunno precedente e quel giorno volevamo mettere le mani su una torre monolitica di granito chiaro che si erge sopra il paese di Noasca: la Torre di Aimonin. Ne venne fuori una bella via, oggi classica, che prese il nome di via del Pesce d’Aprile da uno scherzo cattivello di cui fui vittima.

Gian Piero Motti in occasione dell’apertura di Pesce d’Aprile alla Torre di Aimonin, 31 marzo 1973. Foto: Roberto Bianco.

Individuato il tracciato di massima dell’itinerario che volevamo aprire, Mike, impaziente di toccare la roccia, partì legato con Gian Piero e Guido Morello; io seguii in cordata con Roberto Bianco. A un tratto mi trovai alle prese con un lungo diedro con fessure ma senza nessun chiodo infisso; eravamo d’accordo che la prima cordata avrebbe lasciato i chiodi impiegati; se non ce n’erano, era segno che avevano superato il diedro senza protezioni. Pensai che dovevano essere un po’ svitati, ma se erano passati loro dovevo passare anch’io. Salii con qualche brivido di paura e quando giunsi in sosta Gian Piero, che era ancora fermo lì, mi sventolò davanti al naso degli strani aggeggi che non avevo mai visto.
«Guarda un po’ se ti piacciono» mi disse sogghignando.

Ugo Manera nella prima ascensione della via del Pesce d’Aprile sulla Torre di Aimonin, 31 marzo 1973. Foto: Roberto Bianco.

Erano nut, portati dall’Inghilterra da Mike e a noi completamente sconosciuti; lungo il diedro, Kosterlitz salì proteggendosi con quegli arnesi e Gian Piero, per onorare con un bel pesce d’aprile il mio onomastico (il 1° aprile si festeggia sant’Ugo vescovo), li tolse tutti. Non fu uno scherzo cattivo come potrebbe apparire: Gian Piero mi conosceva bene e sapeva che, se non mi fossi sentito sicuro, non avrei rischiato l’incolumità per orgoglio ma gli avrei chiesto di buttarmi la corda.

Allora io ero un po’ fissato e, per la mia inesauribile smania di realizzare salite, ero preso di mira dagli amici con i quali ero in confidenza; ad esempio dicevano che io, appesa accanto al martello, portavo una piccola incudine che usavo per darmi qualche martellata sui testicoli quando le difficoltà e l’impegno della salita non erano tali da farmi trovare abbastanza lungo; qualcuno poi mi affibbiò il nomignolo di “Manera pan e pera” (pane e pietra), che ancora oggi “mi porto addosso”.

Torre di Aimonin, Guido Azzalea sulla 2a L di Pesce d’Aprile, 2a ascensione, 25 maggio 1980.

In quegli anni le motivazioni che alimentavano in prevalenza il mio alpinismo erano tre: scoperta, avventura e desiderio di realizzare ascensioni; le prime due erano strettamente legate e mi portavano a privilegiare l’apertura di nuove vie o la ripetizione di scalate poco conosciute. Le stagioni poi determinavano i luoghi ove svolgere la mia attività preferita. D’inverno lo scialpinismo cedeva sempre di più spazio alle “prime invernali”, la stagione primaverile e quella autunnale erano dedicate in genere alla ricerca di nuove pareti a bassa quota e all’esplorazione delle Prealpi francesi mentre in estate la mia preferenza andava al Monte Bianco e solo le condizioni meteorologiche sfavorevoli potevano deviarmi verso altri gruppi montuosi.

Torre di Aimonin, Gabriele Beuchod sulla 2a L di Pesce d’Aprile, 2a ascensione, 25 maggio 1980. Lo assicura Roberto Bonelli.

Il 21 aprile 1973 scalammo il pilastro Leprince-Ringuet alla Montagne de Glandasse in Vercors; avevamo visto la selvaggia muraglia calcarea salendo la Pelle e ne fummo fortemente attratti. Arrivata la primavera Gian Piero ed io partimmo per salire quella parete tanto celebrata su La Montagne et Alpinisme e che non era mai stata tentata da scalatori italiani. Avevamo appuntamento con Gian Carlo Grassi e due giovanissimi, Danilo Galante e Antonio Sacco, presso l’abbazia di Valcroissant, dove parte il lungo sentiero che porta alla parete. Gian Piero ed io alloggiammo in un confortevole alberghetto, mentre i nostri tre amici trascorsero la notte in un freddo e umido ricovero di fortuna nei pressi dell’abbazia.

Quando ci incontrammo, al sorgere del giorno, Gian Carlo non stava bene, ci seguì fino all’attacco della via, ma poi desistette e ritornò indietro. I due giovani scelsero di essere indipendenti, formarono cordata tra loro e ci seguirono lungo il pilastro sotto il nostro vigile sguardo; si comportarono molto bene malgrado non avessero esperienza di grandi vie di montagna.

Torre di Aimonin, Gabriele Beuchod sulla 3a L di Pesce d’Aprile, 2a ascensione, 25 maggio 1980. Lo assicura Roberto Bonelli.

Trovammo la scalata bellissima e impegnativa, le ore volarono e uscimmo alla sommità della parete che il sole stava tramontando. L’immenso plateau dell’altopiano che corona la sommità delle pareti era ancora coperto da metri di neve e, quando sopraggiunse il buio, ci perdemmo nella bianca distesa vagando a lungo con l’incubo di dover affrontare un freddo bivacco senza avere nulla con cui coprirci; non potevamo scendere perché sotto di noi, in ogni direzione, si indovinavano profondi precipizi. A un tratto scorgemmo una traccia di animale, pensammo che se era passato un camoscio forse potevamo passare anche noi e l’ipotesi si rivelò corretta; quando finì la neve ci trovammo a lottare in un’impenetrabile foresta di bosso. Scorticati dai cespugli errammo buona parte della notte, ma poi trovammo una traccia di sentiero e alle quattro del mattino rientrammo finalmente nel nostro alberghetto.

La Paroi de Glandasse con il Pilier Leprince-Ringuet.

Eravamo stanchi, felici e assetati. Tra le cose portate da casa vi erano due bottiglie di vino: una di moscato e una di barbera; le scolammo entrambe poi, barcollando, ci mettemmo a dormire completamente “fusi”.

Dei due nostri giovani compagni di quella scalata, il più determinato si dimostrò in seguito Danilo Galante: aveva un fisico d’atleta ed era particolarmente dotato per l’arrampicata; dopo la Glandasse la sua attività si sviluppò a un ritmo vertiginoso, in due anni collezionò molte ascensioni, alcune delle quali di grande valore. Purtroppo nella primavera del 1975, proprio dopo aver salito una di quelle pareti calcaree francesi, venne sorpreso da una terribile bufera di neve quando già si trovava in discesa; tra i pini morì di sfinimento, vanamente assistito da Gian Carlo Grassi.

[…]

Le mie stagioni alpinistiche scorrevano secondo uno schema che stava diventando quasi monotono: finito il tempo dell’alta montagna, riprendeva il nostro assedio al Caporal in Valle dell’Orco, in attesa del 21 dicembre per mettere a segno qualche “colpaccio” invernale. Quell’autunno al Caporal Motti ed io conseguimmo un bel successo con la prima salita dello Scudo (o Specchio), il più impressionante dei dirupi di Balma Fiorant. Nacque la via della Rivoluzione (come al solito questo significativo nome venne scelto da Gian Piero). Lo Scudo era già stato tentato da Gian Piero stesso con Mike Kosterlitz, ma i due quel giorno erano piuttosto svogliati e, dopo un timido approccio, preferirono passare la giornata a chiacchierare prendendo il sole distesi sui massi sottostanti la parete. Toccò a me risolvere la lunghezza chiave della via ricorrendo all’impiego di cinque chiodi a pressione: fu l’unica volta nella mia carriera che usai il punteruolo.

Le lisce pareti del Caporal dove è stata aperta la via della Rivoluzione.

Quando il sole calò dietro le creste, la via non era ancora ultimata; ci calammo nel crepuscolo lasciando le corde in parete. Ritornammo una settimana dopo e, risalendo le corde fisse, guadagnammo velocemente il punto più alto raggiunto; con altre spettacolari lunghezze di corda completammo quella che divenne poi una delle più estetiche classiche del Caporal.

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Il Pesce d’Aprile, la Paroi de Glandasse e lo Scudo ultima modifica: 2020-11-11T05:17:35+01:00 da GognaBlog

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5 pensieri su “Il Pesce d’Aprile, la Paroi de Glandasse e lo Scudo”

  1. Bel racconto che trasmette il profumo della Valle dell’Orco, del granito e di tempi alpinistici ormai lontani. Ho ripetuto entrambe le vie, insieme a molte altre sul granito della valle, nella seconda meta’ degli anni ’80. Allora eravamo ragazzetti in trasferta da Genova con il mito del granito del Bianco ed in valle dell’Orco spesso ci si andava quando il tempo in quota non era clemente. Cosi si andava sul Caporal pensando che tutto sarebbe stato piu’ facile e per questo mi ricordo sempre una bella dose di “schiaffi” presi. Mi ricordo ancora i chiodi a pressione del secondo tiro della via della Rivoluzione come quelli del terzo, piatti piccoli ed accoppiati dal basso verso l’alto sotto il tettuccio….. Chissa’ se sono ancora la’… tanto di cappello a coloro che sono poi passati in libera. In questo senso leggo volentieri che non pochissimi hanno poi provato a liberare certe vie. Ultimamente la torinese Federica Mingolla mi sembra una spanna sopra la media su questo genere di alpinismo. Complimenti!

  2. Ho letto con piacere e nostalgia il racconto della prima ascensione al mitico Pesce d’Aprile. Negli anni 80 ero un modestissimo secondo di cordata ma avevo amici molto bravi grazie ai quali ho potuto salire questa storica via. Rivedere in fotografia la fessura del 2° tiro e il diedro del 3° mi ha davvero emozionato  e sempre a proposito di fotografie visto gli scarponi dei primi salitori  e le Boreal dei secondi, credo di poter dedurre che la seconda con scarponi debba ancora essere fatta.

  3. Bravo Ugo ! Ammiro anche la tua formidabile memoria . Penso che siamo stati proprio fortunati a vivere quegli anni magici e di grandi mutamenti . I ricordi restano ” a dispetto della vita che , ( come scrive F.Bertoncelli  ) spietata , ti scorre via come sabbia tra le dita ” . A proposito ,  nel febbraio 2018  al Monte dei Cappuccini venni irremovibilmente bloccato all’ingresso per la troppa folla . Le tentai tutte : dissi che avevo arrampicato con lui , che ero socio del Cai Torino e dell’Accademico, inventai anche che mia nonna era scozzese del suo stesso paese : niente da fare ! Allora telefonai a Massimo Giuliberti che era all’interno e subito si prodigò per farmi  entrare da una porticina secondaria sopra il ristorante. Quando riuscii finalmente a stringergli la mano ero emozionato e nel mio inglese molto basico riuscii a dire solo :” That day you first , me last “. Sorrise…
    Per quanto riguarda l’incudine ed il martello , al terzo corso della Gervasutti mi avevano preventivamente  informato che Manera consumava , distruggeva i secondi con gite massacranti e lunghi avvicinamenti  in luoghi selvaggi. Non ho mai amato i posti affollati e di Ugo ho sempre apprezzato l’inesauribile passione , la sicurezza , il senso pratico, la determinazione. Nelle salite fatte insieme ben poche volte abbiamo rinunciato all’obbiettivo. 

  4. Sempre belle storie di tempi irripetibili… E’ vero che, quando era a Torino, Kosterlitz non stava al Politecnico bensì all’Istituto di fisica dell’università. Me lo hanno fatto notare qualche tempo fa colleghi fisici arrampicatori che ci tengono a non farsi “scippare” dal Politecnico questa storica primizia. E infatti la laurea honoris causa gli è stata conferita dall’Università, quando è tornato a Torino (e in valle dell’Orco) dopo il Nobel nel febbraio 2018.

  5. Ritornammo una settimana dopo e, risalendo le corde fisse, guadagnammo velocemente il punto più alto raggiunto; con altre spettacolari lunghezze di corda completammo quella che divenne poi una delle più estetiche classiche del Caporal.

    E’ sempre un piacere leggere questi racconti di Ugo Manera.  Bellisima  la via della Rivoluzione che ho avuto la fortuna di ripetere oramai tanti anni fa.
    Bello scherzetto che ti fece Motti…ma la classe non è acqua!

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